Claudio Giovannesi e Giovani Berardi
Dice subito Claudio Giovannesi: “Intanto complimenti a TaxiDrivers. E’ una rivista che conosco e che apprezzo molto. Complimenti davvero”. Claudio Giovannesi, regista de Alì ha gli occhi azzurri, film che conferma il suo talento (l’esordio nel lungometraggio di finzione, La casa sulle nuvole, 2009, fu, per chi scrive, un film semplicemente sublime), incontrandoci ci riconosce e ci esterna immediatamente la sua stima, che noi incassiamo con assoluto piacere. Anzi gli elogi, per la precisione, ci spiazzano, Giovannesi, quindi, ci prende letteralmente in contropiede con i suoi complimenti. Claudio Giovannesi è senza ombra di dubbio uno dei più promettenti talenti del cinema italiano, un regista significativo in questi ultimi desolanti anni. Riconosciuto sin alla sua primissima proiezione pubblica, alla Festa del Cinema di Roma 2012, il film Alì ha gli occhi azzurri è stato insignito in quella manifestazione di ben due riconoscimenti: il premio speciale della giuria ed il premio per la migliore opera prima. Teatro dell’ incontro con Claudio Giovannesi è stata la serata conclusiva della dodicesima edizione del FondiFilmFestival dove Alì ha gli occhi azzurri ha conquistato un ennesimo riconoscimento critico: il Dolly d’oro dedicato alla figura del regista, simbolo del neorealismo italiano, Giuseppe De Santis. Il Dolly d’oro è una statuetta in bagno d’oro che raffigura un carrello, il mezzo tecnico che meglio ha rappresentato e rappresenta la cifra stilistica del cinema di Giuseppe De Santis. Il Dolly d’oro è un riconoscimento che viene attribuito ogni anno dal FondiFilmFestival al miglior regista giovane emergente. E’ un premio che certamente raccoglie, in fondo, anche un autentico valore, quello del testamento morale: Giuseppe De Santis avvertiva davvero, verso i giovani che si apprestavano a muovere i primi passi nel mondo del cinema, una profonda venerazione, un profondo rispetto, una appassionata attenzione. Anche per questo, negli ultimi anni della sua vita professionale, De Santis si è proprio dedicato con estrema assiduità all’insegnamento presso il glorioso Centro sperimentale di cinematografia di Roma, venendo meno anche a tanti suoi preziosi ed appassionati progetti già stilati. Negli anni, a Fondi, a ritirare il prezioso cimelio sono passati: Marco Bechis, Alessandro Piva, Paolo Sorrentino, Andrea Porporati, Francesco Patierno, Antonio Bocola e Paolo Vari, Vincenzo Marra, Kim Rossi Stuart, Alessandro Angelini, Andrea Molaioli, Stefano Tummolini, Susanna Nicchiarelli, Alice Rohrwacher, Guido Lombardi, un elenco che è il più concreto esempio di continuità artistica e professionale anche con lo stile stesso di Giuseppe De Santis.
Dice Claudio Giovannesi: “con Alì ha gli occhi azzurri in realtà ho sviluppato in più parti, negli ambienti e nei personaggi, quello che era stato un episodio di un documentario realizzato precedentemente, Fratelli d’Italia. Dopo ho voluto insistere a raccontare, questa volta visto attraverso la forma dello spettacolo realistico, la periferia di oggi, in questo caso da Ostia, certamente una società più multietnica del centro”. Quale la necessità perché insistere proprio su quella storia particolare di Nader, personaggio di origine magrebina, seppur ormai italiano, del documentario precedente Fratelli d’Italia? Dice Claudio Giovannesi: “Certo. Nader, dal nome del protagonista, era uno dei titoli dei tre episodi che componevano il documentario precedente, Fratelli d’Italia. E su quell’episodio, in particolare, avevo deciso di insistere e di andare avanti oltremodo, anche perché, tra tutti, cominciavo a considerare il personaggio di Nader un italiano a tutti gli effetti. Perché Nader, che è poi l’attore Nader Sarham, è nato e vissuto in Italia, seppur cresciuto dentro la cultura araba professata dalla sua famiglia di origine. Dunque è questa identità dell’ italiano un pò in bilico, che io chiamo un italiano di seconda generazione, che mi interessava particolarmente per la tematica del film che andavo a preparare. Nel progetto di Alì ha gli occhi azzurri l’obiettivo era di lavorare di più, in ogni caso, anche sull’aspetto dell’adolescenza, e non, piuttosto, su quello della emigrazione. Avevo proprio una grande necessità di restare dentro un mondo adolescenziale. Poi proprio Nader, questo dal punto di vista dell’attore, aveva una capacità unica di restare davvero spontaneo, vivo, davanti alla camera che nel documentario lo pedinava. Proprio in Fratelli d’Italia ho capito che potevo affidare a questo ragazzo, in un prossimo film, che già avevo perfettamente in mente, un ruolo più essenziale, da protagonista, da attore, da colui che è in grado di reinterpretare la realtà”.
Giovannesi accenna, in un certo momento, al pedinamento della realtà, che è stato proprio il materiale necessario e dominante di tutti i progetti migliori del cinema neorealista, da quelli di Cesare Zavattini, realizzati poi insieme a Vittorio De Sica, Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Il tetto, a quelli di Giuseppe De Santis, Riso amaro, Caccia tragica, Non c’è pace tra gli ulivi, e di Roberto Rossellini, Roma città aperta, Era notte a Roma, Paisà, Germania anno zero. E’ bello credere in Giovannesi, oggi, come ad un figlio della grande stagione del neorealismo. Ed il premio Giuseppe De Santis conquistato a Fondi, in questo senso, non fa che rinforzarne la tesi. Il lavoro assoluto di Giovannesi viene fuori sempre dalla ferrea osservazione della realtà, finanche dal passare molto tempo, non intorno al tavolo della sceneggiatura muniti solo di penne e di mouse, bensì nei luoghi e negli ambienti che poi andrà a raccontare, proprio per recepire e vivere davvero situazioni, disagi, rapporti, linguaggi, regolamenti, stati psicologici. Dice infatti Claudio Giovannesi: “il lavoro che ho fatto, e che amo fare, è sempre quello di raccontare la realtà. De Santis, di questo ne è stato sempre, davvero, il maestro ispirato ed ispiratore. Ma è stato tutto il lavoro di quella grande generazione, che comprende De Sica, Zavattini, Rossellini, a restare un perfetto modello da seguire. Il loro rimane un insegnamento continuo, quello che ti permette di scoprire continuamente la bellezza del guardare alla realtà, una bellezza in ogni caso che è sempre superiore alla invenzione”. E’ in questo senso che, solo quando il lungo e minuzioso impegno di documentazione è messo a fuoco, sviscerato nelle sue condizioni, Giovannesi parte con le riprese, parte cioè nel lavoro di trasformazione in spettacolo di quella che è la cruda realtà, di quello che diventerà il processo neorealistico. Dice Giovannesi: “é così. Proprio lampante. Il film parte solo quando é finalmente chiarissima la linea che dovrà avere, nei particolari, il nostro lavoro, proprio nell’obiettivo primario, come dicevamo, di mantenere inalterata quella che sarà la sua struttura portante: la componente realistica”. Ora, al cospetto di Claudio Giovannesi, alla luce del suo Alì ha gli occhi azzurri, non si può non menzionare Pier Paolo Pasolini, e non si può non ricordare un titolo cinematografico, Ostia, che nel 1970 segnava il bellissimo esordio nel cinema, assolutamente autentico ed ispirato, del discepolo pasoliniano Sergio Citti, fino ad allora genialmente imbianchino e ragazzo di vita, nonché autore di poesie che raccoglieva solo nella sua memoria, e che qualche volta decantava a qualche improvvisata platea di barboni, di giostrai, di girovaghi, comunità incontrate comunque per caso. L’ambientazione, Ostia, ed il titolo, Alì ha gli occhi azzurri dichiarano esplicitamente, pensiamo, il tributo che Giovannesi ha voluto regalare a Pier Paolo Pasolini. Infatti Alì ha gli occhi azzurri contempla tra i suoi temi quella che è stata una autentica profezia di Pier Paolo Pasolini, già dai primissimi anni sessanta. Un annuncio, in definitiva, di quello che sarebbe successo nei decenni successivi, la difficoltà, invero, di vivere in pace una società multiculturale e multireligiosa. Ora il film di Claudio Giovannesi di questo annuncio è diventato proprio, diremmo, un considerevole spaccato. La vita di questi adolescenti, nel film accolta in principio come in un conflitto, in qualche maniera, e nell’assenza di acrobazie tecniche tanto care, in fondo, ai giovani registi italiani (e questo rende, secondo noi, un enorme fascino al film), riesce a ribaltarsi, dopo, in una dimensione di decisa prospettiva. E’ qui che Alì ha gli occhi azzurri riesce a definirsi, e a contemplare, in fondo, tutta la sua contemporaneità, tutta la sua grande forza poetica.Dice Claudio Giovannesi: “la multiculturalità è senz’altro un bene per il nostro presente, il mio film in questo senso è una testimonianza, ma resta un processo lento, che è passato e passa ancora attraverso un feroce ed indefinito conflitto di culture”. Certamente le intenzioni, Alì ha gli occhi azzurri (che poi non sono di un azzurro naturale, ma sono ricavati dall’uso delle lenti a contatto, una dimensione che fa pensare al meraviglioso film di Franco Brusati, Pane e cioccolata, 1974, nel momento in cui Nino Manfredi, emigrato in Svizzera, si tinge i capelli di biondo solo per sembrare più autoctono possibile) riesce a confermarle in pieno. Il lavoro di Giovannesi poi resta assolutamente lontano, e questo è un merito da ritenersi essenziale, dalla squallida retorica benpensante della tolleranza zero, e decisamente ancora più lontana dall’altra retorica, finanche sempre più decantata, quella del vogliamoci sempre tutti bene. Il film di Giovannesi è semplicemente un percorso, quello di Nader, un ragazzo di sedici anni proiettato alla conquista di un diritto, la concretezza della propria identità, in una terra che gli ha dato i natali, l’Italia (nella fattispecie il quartiere romano di Ostia), ma che stenta a riconoscergliela perché, in fondo, i suoi lineamenti denotano l’evidenza di appartenere ad una altra cultura (i suoi genitori sono egiziani), seguito in uno scontro che Nader riporta necessariamente anche sulla famiglia di origine, una famiglia che mal sopporta, in fondo, il suo fidanzamento con una ragazza italiana. Il processo di identità di Nader passa quindi attraverso un percorso necessariamente estremo, fatto di rabbia, di paura, di solitudine, di freddo, di fame, fatto assolutamente di conferme sempre decisamente eccessive. La macchina da presa di Giovannesi rimane incollata a Nader quasi tutto il tempo, in una alternanza, bellissima, di arabo e di romano. L’ultima scena poi è da magistero: la famiglia di Nader riunita nel rituale della cena, la madre in lacrime a fissare il posto vuoto di Nader, il padre con le mani sulla fronte, e sullo schermo televisivo scorrono le immagini della rivolta sanguinosa di piazza Tahrir ad Il Cairo, nel corso della Primavera Araba. In parallelo gli occhi in lacrime di Nader, meravigliosamente scuri perché finalmente privi delle lenti a contatto blu, sotto il balcone della sua ragazza, in una via che sembra senza uscita.
Alì ha gli occhi azzurri è una pellicola di cui avevamo sicuramente, in questo momento storico, un grande bisogno. La riconoscenza a Claudio Giovannesi in questo senso è altissima. E Giuseppe De Santis sarà certamente contento di questo premio donato in suo nome: Alì ha gli occhi azzurri ne sposa davvero in pieno tutte le potenzialità politiche, di rivolta e di riscatto, del suo cinema.
Giovanni Berardi