A saperlo evitavo di farmi prendere dall'agitazione per i preparativi.
Prevedibile, alla fine, che si sarebbe risolta solo in una colossale magnata. Anzi: in una colossale azzuffata per poter mangiare a più non posso, mangiare più degli altri, e prima degli altri, prima che finiscano panini al latte imburrati, fiondarsi sul vassoio delle pizzette come tanti profughi derelitti, che non toccano cibo da giorni, reduci per mare su una zattera sbattuta dalle onde.
E bambine in abitino rosso di velluto (io e la pupa sfiguravamo, ma tanto nessuno se n'è accorto), i regali alle maestre, genitori con videocamera a riprendere, cosa? Lo spettacolo delle marionette delle maestre, mica i bambini. Che intanto inebetiti fissavano chi di qua chi di là, chi frignava, chi se ne andava per conto suo, con la mamma che gli corre dietro cercando di convincerlo a rimanere seduto a guardare il teatrino.
La pupa per la verità era molto partecipe. Ha seguito la storia del piccolo dinosauro con grande emozione e coinvolgimento, identificando di volta in volta le comparse come "duda" (bruco in arabo), o come "dillo" (coccodrillo), e alzandosi infine in piedi gesticolando esaltata come chi ha capito in anticipo la soluzione del giallo, ha gridato qualcosa come "Tuttata! Tuttata!" o simile, con mio grande sconcerto e stupore degli astanti. Un successone, lo spettacolo.
Poi la distribuzione dei regalini (una foto dei bimbi negli ateliers di gioco, lei con una faccia mesta mesta, scelta non troppo felice da lasciare alla mamma in testimonianza alle vita nel nido, ma vabbé), e infine la grande abboffata.
Anche questa è andata, fa la Suster, che per quanto si sforzi non riesce a prendere il periodo pre-feste diversamente da una corsa a ostacoli, però in apnea.
Claustrofobica sensazione di incombenze da sbrigare, futili però imprescindibili.
Fatto. Fatto. Fatto.
Bisogno di deserto, e però anche di contatto familiare e di solidità domestica, di ritrovarsi e di oziosi recuperi assolutamente improduttivi.
Feste.
Da noi Babbo Natale arrivava la notte tra il 24 e il 25, un po' come da tutti, e lasciava il salotto di casa trasmutato in un deposito di pacchi assortiti e luccicanti, più una lettera appesa al televisore, da leggere prima di scartare i regali, la mattina, al risveglio.
Niente cenone, niente scambio di doni alla mezzanotte, solo l'eccedenza materiale del nuovo, di oggetti per lo più inutili, che sarebbero andati ad ingombrare i cantucci ancora liberi della nostra ridondante dimora.
Era gioia dell'attesa però anche un po' melanconia del constatare che in fondo finiva tutto troppo subito, e che a ben vedere tutto il bello stava nel mezzo, in quell'infinitesimale momento tra l'aspettare e lo scoprire. Ché la festa era già finita non appena finiva di cominciare.
O forse sono io, che son sempre stata un po' troppo incline al non accontentarmi, a non accettare un momento di gioia puro e semplice, senza andare a scavarci dentro e a trovare che in fondo è fatto di cose effimere, e a chiederti allora che senso possa avere.
E perchè sento il bisogno di ricreare tutto questo per mia figlia? Per illudermi che per lei l'infanzia possa essere un periodo felice e senza ombre, vissuto nell'incanto di una fiaba, che però si scorda di fornire contenuti, oltre alla superficie patinata della carta da regalo, dei grandi magazzini straboccanti di merci e persone che quest'anno, forse, tireranno la cinghia un po' più del solito, a malincuore, solo perchè i tempi sembrano essere di magra, non certo perché consapevoli che la loro smania di acquistare e di perpetuare questa psicosi collettiva non aggiungerà gioia alle loro feste, che la felicità non si raggiunge nella temporanea affettazione di buoni sentimenti, in un'atmosfera gravida di eccessi, dove "dare" sembra aver perso la bellezza del suo significato gratuito, per assumere quella di una consuetudine sociale di cui quasi tutti non ricordano più il senso...
Scusate.