[Immagine: Wilhelm Hammershoi, Interno con ragazza al pianoforte (olio su tela, 1901)]
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«…la vita secondo un disegno si manifesta nella coscienza facendo apparire l’interna ‘necessità’ a cui è soggetta ogni parte come ‘volontà’»
(Ernst Bernhard, Mitobiografia)
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di Giuseppe Panella
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1. Il primo momento: elegia lirica e riflessione cosmica
In Tempo immite, una raccolta di sonetti in metro classico pubblicata nel 1985 dall’Editore Luciano Manzuoli di Firenze, Luciano Fintoni scriveva:
«Oh, le sere, le sere fra gli ulivi / di Bellosguardo ! Non dimenticare / le sere fra gli ulivi, quelle rare / sere di madreperla sopra i rivi // persi, affogati fra i fumi cattivi / del nostro tempo e la città che appare / sfocata, in basso. Le ferite amare / delle sirene tagliano i declivi, // il verde pallido, il cemento, il cuore / atteso ai rosa densi. Non ha prezzo / la bellezza e la grazia, ti dicevo // una volta. Non so se era un errore. / Sono vissuto in un’età di mezzo, / io, clericus di un altro Medioevo» (1).
Così Fintoni descriveva se stesso e la sua posizione intermedia di poeta in un’ “epoca di povertà” (come aveva appreso dai suoi studi di filosofia[2]).
In un testo successivo, contenuto in Frammenti del mondo terrestre, avrebbe annotato con piglio più metafisico ma con consapevole decisione rispetto alla direzione che avrebbe preso la sua nuova poetica intesa al rinnovamento della tradizione letteraria classica della lirica italiana:
«C’è una duplice via in questo viaggio: / dall’interno all’esterno e dall’esterno, / relictis formis, di nuovo all’interno. / E’ tempo dunque di stringere il filo / nel doppio labirinto per non perderci / aut in natura aut in memoria rerum» (3).
La consapevolezza di Fintoni rispetto al piano prospettico della propria ricerca poetica è qui espressa in maniera assai sicura rispetto ai risultati da conseguire: da un lato, lo scavo interiore lo porta a leggere dentro se stesso come soggetto della sua scrittura lirica, dall’altro proprio questo indugio riflessivo gli permette di aprirsi all’esterno e coinvolgere il Tempo e la Natura nella propria lettura del Presente con il quale attuare un confronto non solo soggettivo. Dall’esterno, però, la sua scrittura rientra nel foro interiorizzato della riflessione sui fondamenti della sua tensione poetica per poterla gestire in maniera più composita e originale ed è, proprio per questo motivo, in continua vibrazione tra la descrizione della natura e il vagheggiamento di una memoria non singolare ma universalmente condivisa. Dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno in un nodo che ha molto della dimensione labirintica attinta da un essere personale che vuole però alludere a una generalità di temi e di prospettive che non sia soltanto di superficie. La memoria rerum è comune a tutti, infatti, gli aspetti della realtà umana e naturale ma per addentrarvisi è necessario accettare la sfida del labirinto personale in cui si annidano le motivazioni esistenziali e culturali di ognuno. Questo labirinto nell’ottica di Fintoni coincide o almeno tende a coincidere con la poesia.
Ricostruire il percorso della propria soggettività corrisponde a circumnavigarne i poli estremi e fare di essi i termini di tensione esplorativa di una ricerca poetica che non voglia essere puramente espressione di un Sé ingabbiato all’interno della propria auto-riflessione culturale e morale.
Il tentativo di Fintoni, di conseguenza, sarà sempre quello di conciliare, da un lato, natura e cultura e, dall’altro, il se stesso di superficie e il proprio mondo mitico profondo e strabordante.
In un altro testo, la suite poetica senza titolo, che apre Libro di versi del 1992, la nozione di equilibrio ambivalente, di oscillazione tra due mondi, tra interno ed esterno per l’appunto emergono fin dalle prime espressioni verbali:
«Questo è ancora per me un tempo di mezzo, / una lamina tesa fra due piani / d’incertezza. Per richiami confusi / il mio sonno si fa sempre più raro / breve ed inquieto, sconvolto da sogni / che non ricordo mai dopo il risveglio. / Sento a volte una voce che mi chiama. Morbida, bassa, con un fondo roco, / ma di notte più scura densa inquieta / di questa, consumata da altre voci / per strada, di passanti qui approdati / da lontane propaggini, stranieri, / a me che questa notte disincantano. / Una voce che chiama, consueta / sembra, nel dormiveglia, e invece ignota / nel suono, dalle molte che distraggono / me dal mio centro e vogliono condurmi. / E’, questa voce, il richiamo lontano / del deserto e dell’altre terre brulle, / rimbalza e si moltiplica fra roccia / e roccia, un’eco ripetuta dalle / gole dei monti e prolungata nella / valle dell’anima, là dove ogni altra / voce si perde e domina il silenzio. / Silenzio: attesa di un incontro prossimo, / altre voci, miracolo parola / che aprano infine la chiusa finestra / dove arretra la luce, e il mondo morto / che la stanza rinchiude, negativo / di figure disfatte, sottoesposte, il raggio chiaro del sole disperda come pallidi resti della notte» (4).
Quella “lamina tesa”, quell’”incertezza”, “quella voce che chiama”, quella “luce” che trascolora, quella sensazione di equilibrio precario, di minaccia protesa alle spalle, di possibilità inespressa e indocile, di sogno amaro e riparatore sono tutti temi che poi innerveranno e si amplieranno nella scrittura poetica successiva. Quelle sensazioni di disequilibrio o di incertezza inquieto sono, in realtà, la cifra stilistica più frequente (e più significativa) della scrittura lirica e mitopoietica di Fintoni. Il “miracolo parola” ostentato come forma di apertura verso il mondo e il necessario silenzio come il solo evento capace di evocarlo rimbalza sulle pareti di una realtà che non sembra capace di comprenderne la portata liberatoria e la rende ignota a se stessa, alla sua rappresentazione forte e, nello stesso tempo, rassegnata ad accettarne l’instabile, mutevole esigenza di verità.
Come scrive Geno Pampaloni nella sua breve ma assai incisiva premessa sulla prima produzione di Fintoni, La luna è rotonda (sulla cui dimensione di frammento lirico e di mozione interrogativa a discarico si tornerà tra poco), si è già in presenza di un poeta maturo fin dall’inizio, un autore rapidamente assimilabile a una dimensione ben precisa della poesia italiana del Novecento e sicuramente capace di sviluppi successivi letterariamente interessanti e martellati con grande nitore e una certa ferocia:
«Non è propriamente, quella del Fintoni, una poesia di contestazione, ma si direbbe piuttosto di rivendicazione: rivendicazione contro ingiustizie e iniqui terrori che attanagliano gli uomini, ma anche, più sottilmente, e in positivo, rivendicazione di un pathos, di un’estrema e perenne tensione lirica che lo scrittore sembra considerare tra i diritti della vita, – secondo una linea poetica post-romantica che passa in Europa per Apollinaire e in Italia per poeti al tempo stesso sanguigni ed estenuati come Stefano Terra. Qui il discorso poetico nasce da un’intimità con il proprio sentimento, e a poco a poco tende a creare, entro il suo stesso fluire punteggiato di silenzi e di sorde grida una sua propria e naturale solennità» (5).
La scrittura diventa, quindi, per Fintoni e per la sua stessa prospettiva tensionale ed espressiva un banco di prova riguardo alla verità e, per certi aspetti, dell’utilizzabilità del mondo:
«arrampica la vite / il muro di mattoni / ma la lamiera stride / l’ombra dei capannoni / e le tegole rosse // gli oggetti nella loro separata / indifferenza / sono delle costanti / per misurare il tempo / il mestolo il cucchiaio / il catino del radar / la punta della lancia / il microscopio / elettronico gli alari accanto al fuoco» (6).
Ciò che conta è, allora, capire ciò che accade, ciò con cui è necessario ritrovarsi a convivere e con il quale venire a patti finché è possibile. Il mondo presenta le insidie del dolore e della morte ma con esso non si può fare a meno di trattare e di affidarsi al suo gesto altrimenti tanto varrebbe accettare il gesto estremo della catastrofe definitiva:
«venga il cavallo verde / da un angolo del mondo / venga la cavalletta / coi capelli di donna / precipiti la stella / nel mare incandescente / si faccia il sole nero / come un sacco di crine / un fascio di sermenti».
Anche poi tutto questo non sarà immediato né indispensabile né perdonabile a chi lo invoca. Il mondo recita immobile la sua parte e il suo sogno di sempre dato che:
«La luna è rotonda / la luna è un’arancia / la luna che nasce / dietro le colline / rotonda rotonda / non è una città la luna / nemmeno una storia» (7).
La luna è quindi la salvezza perché è pur sempre e comunque salda nella sua sfericità immota e inalterabile. La luna è come la poesia: non muore e non impedisce comunque di morire. Senza di essa, tutto crollerebbe nel magma dell’incontenibile sacrificio dell’intelletto e del cuore.
Il libro di esordio del poeta chiantigiano – come si è detto – è rappresentato da una robusta plaquette edita dalle fiorentine NuoveEdizioni Enrico Vallecchi nel 1974, La luna è rotonda. Le liriche raccoltevi mostrano, inoltre, temi e prospettive che contraddistingueranno, quasi naturalmente come se ne fossero una conseguenza, i due libri di poesie successivi (anch’essi saranno affidati allo stesso editore che rimarrà il referente culturale di Fintoni fino al 1978). Il dettato poetico che lo contraddistingue appare legato fin dal principio alla lezione ermetica, anche se la modulazione linguistica dell’affabulazione frammentaria e sintetica del testo non è certo esente dalla lezione, allora influente sui più giovani scrittori, di un autore come Stefano Terra citata da Pampaloni (meno, a mio parere, è effabile la rivendicazione di Apollinaire e della sua prospettiva legata alla “calligrammaticità” del momento espressivo).
All’esordio del 1974, seguirà, a distanza di un solo anno, Cavaliere cosa porti ?, un’altra plaquette di taglio decisamente più musicale, teso alla ricerche di maggiori assonanze e riverberi tra parola e gesto e tra scrittura e suono. Ne è testimonianza l’ultimo testo della raccolta, I flauti ciechi:
«Andrò in cima alle mura di Volterra / insieme ai mostri usciti dalla tana / dove li relegò la vostra angoscia, / insieme alla follia dimenticata / al sangue all’odio all’occulta innocenza / che voleste riunire sopra un poggio. / Lo sento il vento che muove la polvere / oltre quelle rosse frane ai confini / della pianura. Corre un cavaliere / senza messaggi e non trova la strada. / Traccia l’orma d’ un cerchio intorno al monte. / Non aprite le porte ! ché si perdono i gabbiani / in questi vicoli morti e diventano / consunte forme su stemmi di pietra. / Le strette scale portano agli spalti. / Insieme a voi fratelli in cima all’erta / ai gridi delle rondini marine. / Stendiamo i drappi apriamo le bandiere! / le insegne dei dannati sulla terra / al vento e gli occhi al cielo che ci lava / dai segni funebri del tempo. Le nostre / mani sono corolle sopra questo / prato di pianto. Battono i tamburi. / E flauti ciechi muovono la danza» (8).
In questa lirica la musicalità trionfa rispetto al significato dove temi ripresi da Dino Buzzati (e naturalmente anche kafkiani) come i messaggeri senza ragion d’essere e senza voce da proferire sono mescolati alla desolazione di un paesaggio di morte scaturito soprattutto dalla liberazione dei demoni profondi di un inconscio collettivo che non trova requie e sostegno in una volontà più determinata di liberazione (e dove i “dannati della terra” nell’ accezione di Frantz Fanon vengono evocati come agenti di una salvezza orientata in senso palingenetico e corale). Ma il destino è cieco e la sua modulazione non può essere affidata che a”flauti ciechi”. La ricerca, quindi, di una liricità che si espande in canto è forte in questo secondo momento della ricerca di Fintoni: il cavaliere non porta nulla se non la possibilità di liberazione della parola oppressa dalla desolata realtà del mondo circostante in canto e in melodia:
«Cavaliere cosa porti?. Il mio bambino gioca / su un cavallo di latta / con pennacchi celesti / fra l’insalata dell’orto / e le peonie rosse. // Cavaliere dove corri ? / Pianura d’erba fina / e lago scintillante ! / Cavaliere cosa porti ? / La spada dai mille barbagli ! / Cavaliere cosa vedi ? / Una foresta morta ! // Imbruna questa sera / e la montagna sentono / i rapaci. Sale il silenzio / intorno ai casolari. / Ancora questa casa / ci accoglie. Ancora un fuoco» (9).
La filastrocca infantile proseguita fino a circa metà del testo si scioglie alla fine in un epicedio e in un’aspirazione alla speranza. La vita continua nonostante la “foresta” sia “morta”; la montagna è viva e il fuoco arde ancora. C’è ancora possibilità di canto e il bambino presente in ciascuno potrà ancora continuare a giocare nonostante tutto. Lo stacco musicale è qui evidenziato e la scansione voluta del testo si ferma e permette di meditare sulla natura delle parole che ancora possono dire un mondo le cui coordinate vanno individuate in un viaggio verso la felicità del sogno e l’ingenuità del passato bambino. Ricerca di sonorità spaziate e descrizione dell’inconsapevole ritorno alla lingua dell’infanzia coincidono in questi testi lirici che preludono alla scoperta dell’inconscio mitico (come avverrà in alcuni dei libri ancora a venire) ma non precludono la volontà di rinsaldare la scrittura poetica alla “tradizione del nuovo” di ascendenza novecentesca.
Nel 1978, sempre per le NuoveEdizioni di Vallecchi, Fintoni stampa L’assoluto selvaggio, una raccolta che è sicuramente di transizione. Alle poesie di taglio sicuramente politico e civile, con dizione realistica e spesso con ambizioni parenetiche anche se poi sempre pervicacemente lirica (qui gioca sicuramente la lezione post-ermetica di Franco Fortini e il nitore narrativo di poeti emergenti come Elio Pagliarani) si sovrappone già l’anelito mitico che raggiungerà il momento parossistico dell’identificazione con i personaggi del passato arcaico dell’umanità:
«IX. ma quando scoppiano i candelotti lacrimogeni / fra le automobili in sosta e le bancherelle del mercato / “compagni quelli ci sparano addosso!” / la gente bestemmiava “fottuti porci” / un professore che all’Università insegna letteratura / francese e ha sposato una ballerina / dell’Opera mi dice “leggi l’ultimo libro di Aragon” // gli agenti rotolavano di corsa / contro gli occhi celesti di Ho Ci Min // prima che gli fossero addosso con sette calci / di moschetto il ragazzo gridò “fascisti di merda” // il vecchio che mi guarda questa casa – io mi fermo / a parlare davanti alla sua porta sulla panca di legno – / dice che quella del Partito Comunista / è una buona politica “una volta o l’altra / si metteranno d’accordo” / se è festa i più giovani / fanno la Diffusione Straordinaria / di casolare in casolare / (le campane aprivano portali di bronzo ai Cristi / Crocifissi e gli angeli salivano i viottoli con fiocchi / rosa e buccolotti) / la faccia grigia di Breznev / si è sparato un poeta una mattina alla tempia / perché disse che bisogna sputare sul cespuglio di rose / ma i lupi mannari hanno mantelli d’argento ! / Parigi è una foresta ! mettete ai crocicchi / le trappole gli porterete le teste! // L’Utopia si riveste di coralli – i fiori arrampicati / alle finestre i tuoi seni che scoppiano di bianco – / vivi la vita e muori la sua morte / ma la morte è finita» (10).
A un tono discorsivo, dimensionato e quasi disteso sul pur concitato quotidiano delle lotte nel presente, si aggiunge il richiamo al futuro e alla necessità di una comprensione più vasta e più profondamente analitica (anche nel senso della psicologia del profondo di ispirazione junghiana e soprattutto hillmaniana) di ciò che potrà accadere di quelle aspirazioni e di quei sogni messi in gioco e innescati dalle lotte e dalle aspirazioni utopiche della trasformazione del presente.
2. Tempo secondo: l’accostamento al mito
In L’Assoluto selvaggio, insieme all’omaggio alla contemporaneità e alla rivendicazione di una comunque partecipata dimensione sociale della poesia (il testo in cui viene evocata la figura di Frate Campanella è a questo proposito esemplarmente sospeso fra passato e attualità del quotidiano [11]), non mancavano allusioni alle radici mitiche e arcaiche della situazione umana del presente. Non a caso, l’esergo della plaquette veniva proficuamente dalla Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, all’epoca autore assai meno à la page di quanto sia adesso (“Non una storia di questo linguaggio piuttosto l’archeologia di questo silenzio”). In un testo poetico di questa stessa raccolta, il viaggio in Grecia presso le propaggini presenti e viventi del mito iniziava con una visita al Labirinto di Creta, residenza del Minotauro e di Arianna e teatro dell’impresa eroica di Teseo di Atene, sito a Cnosso sulla strada che porta a e da Iraklion:
«IV. Sulla strada di Cnossos / che da Iraklion porta alla casa dei Re / ai levrieri / alle fontane / al principe dei Gigli che rimase incantato / con la sua verga di foglie / quando la luna si spostò sulle vigne / per finire affogata nello stagno dei grilli / sotto la pergola con una lampadina attaccata / al soffitto / la lampadina da lontano / chiamava alla festa di nozze / dietro la collina il Minotauro soffiava / appassionate storie di gelsomini ammazzettati. // Un mazzolino una dracma / e due dracme per tre / cinque mazzolini monsieur / signore mister / quattro dracme please. // Un bicchiere di vino resinato / me lo comprai per due treccine d’ebano / le braccia intorno al collo un amuleto / perché siamo innocenti alzati a volo / in arie di violino intrecciate ai mirti…» (12).
L’esplorazione del mito di Arianna proseguirà nelle opere successive e sarà sviluppata soprattutto nel Libro di versi, il libro che conclude il percorso umano e poetico di Fintoni. Ma, prima del radicale accostamento al mito che cambierà e in certa misura capovolgerà l’approccio del poeta grevigiano nei confronti della scrittura poetica, c’è ancora un passaggio da esplorare – quello del ritorno all’apprezzamento della tradizione lirica classica che pervade la stagione di Tempo immite, una serie di quarantasei sonetti pubblicati nel 1985 (ma scritti quasi tutti nel 1983 – come dichiara l’autore) e pubblicati per il suo nuovo editore Luciano Manzuoli. L’utilizzazione del sonetto caro alla tradizione petrarchistica e liricamente modulata sull’esplorazione della soggettività individuale indica certamente la necessità di una nuova ricerca ormai in corso e una volontà di esplorazione dell’Io in senso descrittivo e fortemente assorto, indugiante, meditativo.
Il “chierico di un altro Medioevo” è sicuramente più attento alla descrizione del paesaggio naturale dell’anima, anche se ancora non è stato completamente affascinato dalla prospettiva terapeutico-relazionale di James Hillman (come accadrà nel 1988 proprio grazie alla nascita della rivista Anima da allora in poi sempre diretta da Francesco Donfrancesco che diventerà uno degli interlocutori privilegiati di Fintoni):
«XXIV. Poi volta a destra, sul ponte, e attraversa / il fosso dove scivola il torrente / la cui nebbia nasconde un’acqua persa. / Trovi, dopo la curva, una sorgente // che gorgoglia fra i sassi e si riversa / in un concavo grembo, umido e ardente. / Lo specchio, che l’immagine sommersa / di noi, prima del tempo, oscuramente // ci riconduce, la stanza dei giochi / proibiti, la notturna congiunzione / degli opposti, la fitta ombra dei boschi, / il silenzio che avvolge i primi fuochi. / O è soltanto un sogno? O suggestione / celata dentro il sogno di Tharkoski?» (13).
Il sogno contenuto nel film del regista sovietico è fatto di acqua, di nebbia, di fumo caldo e umido che sale su dai sassi di Bagni Vignone. Così la poesia che riproduce rovesciata l’immagine riflessa nello specchio d’acqua del Sé e la rende, di conseguenza, rilevata, comprensibile, ricongiunta al suo Doppio inimitabile e contrapposto. Nell’ombra, la luce risalta, irrefrenabile. Il silenzio fa transitare, oscura, la parola. Il rovescio si ritrova, immune da contraddizione apparente, nel suo diritto non opponibile e concavo rispetto alla forma che assume. Il ruscello che scivola, immutabile, giù per il fosso e candisce con il suo sussurro il grembo della terra vive l’esistenza assorta dei sogni e li consegna al ricordo o all’oblio. Il vento che non concede tregua nominato nel titolo, il passaggio non mite ma freddo e impetuoso attraverso il mondo, è ciò che accende il ricordo e rende l’esistenza un vorticoso trasporto di emozioni. Allo stesso modo, la luna ritorna ad essere il segno della sfida:
«XXXIX. Luna vagante, grande occhio, rotondo / fra le cimase. Cielo imprigionato / fra case vecchie e il profilo, in fondo, / di un Medioevo astratto, dissacrato // dal vocio dei turisti. Ho rinnegato / più volte, per ridare senso al mondo, / la trascendenza. Invano, poi, ho cercato / di non udirne il richiamo profondo. // A me – perduto in un cantuccio oscuro / dell’universo, in questa estrema notte / d’estate, fra le accese strade e l’alto // bastione d’ombre, ancora dentro il muro / che recinge la vita e le sue lotte – / si presenta di nuovo il rischio e il salto» (14).
Così il rischio di vivere si esalta nel richiamo a una trascendenza laica, che non conosce la fede ma solo la speranza. La Luna assorta nel suo vagare profondo in un cielo urbano, antico come il Medioevo di sempre che inargenta qualsiasi cosa accada, guarda con astratto candore il destino impensato di ciò che verrà. L’approdo al mito è ormai cosa fatta e avverrà nella concretezza di un approdo teorico preciso. L’incontro con Francesco Donfrancesco, psicoterapeuta dell’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e fondatore della rivista Anima (su cui apparirà parte della futura produzione di Fintoni), sarà decisivo per introdurre il poeta a tematiche di cui era probabilmente già ben consapevole ma che ancora non aveva esplicitato compiutamente nei suoi versi. L’incontro con Donfrancesco, durante un seminario tenuto da James Hillman e svoltosi nella villa medicea di Artimino, lo porta a ritornare alla scrittura obliata e divenuta incerta subito dopo la pubblicazione di Vento immite. In un “eroico furore” poetico durato una sola estate, la poesia torna a visitarlo e a fluire inarrestabile e diventa i Frammenti del mondo terrestre, la sua ultima raccolta pubblicata in vita. Sarà questo il secondo tempo della poesia di Fintoni.
«[…] In quest’anno di grazia o del Signore / nel millenovecentoedottantotto / ormai vicino al dio che da lontano / veglia sui semi sulle scimmie e l’uomo / io vi devo pur dire che la Grazia / è talora con noi su questo mare / senza velieri che abbraccia le terre / dove vivono gli uomini e noi abbraccia / che ci affidiamo in gioco alle sue onde / che fra i picchi di marmo biancheggianti / proprio al confine estremo della terra / consumata a uomini diversi / che in mezzo agli oleandri e ai gelsomini / fioriti e ai gerani alle finestre / di questa cittadina di vacanza / si manifesta ancora a chi la pensi / ingenuamente una Bellezza insieme / a una Speranza. Così quel bambino / che la mattina trotterella ignudo / intorno a quella sdraia e poi mi fissa / con gli occhi fondi fino in fondo all’anima / poté forse chiamarsi un giorno Dioniso / e forse quell’adolescente in corsa / sulla battigia con il corpo snello / sorella è di Nausicaa. So per certo / che nel profondo degli angoli bui / si nascondono inganni ed è il fanciullo / celeste ancora docile al richiamo / della palla del cubo e della trottola / e come ancora lo distrae lo specchio. Come Nausicaa invecchi – metamorfosi / ingiusta disperata più d’ogni altra / a vedersi incredibile – e poi muoia. / Così sia. Silenzioso discorrere / nella sera che segue questo giorno / estivo per noi forse irripetibile. / Convive insieme alla festa di ieri / del presente la sua semplicità» (15).
Ed è così che, servendosi delle coordinate apprese dalla lezione di Hillman (16) (e anche di Donfrancesco [17]), le nozioni fondamentali della psicologia del profondo che dall’anima conducono all’archetipo, Fintoni scrive il suo Cantico delle creature in cui “lauda” – come fece Francesco d’Assisi – tutte le creature e le vicende del mondo in un afflato di tipo panteistico-universalizzante. Nella sezione del libro intitolata Il viaggio, la ricostruzione di luoghi e sensazioni si aggiunge alla decisiva operazione di scavo del Sé che sarà perduto nella sua frammentazione soggettiva per essere recuperata successivamente in chiave cosmica (e sarà la sezione Dopo perduto il Sé). Nell’ultima parte del lungo poema (frutto di un lavoro inconsuetamente rapido per il cesellatore Fintoni) la consapevolezza della Divinità del Tutto è recata dalla necessità di confrontarsi con l’eguale e necessitata umanità del tutto in cui l’Io sprofonda alla ricerca di quei miti-guida e di quelle situazioni di con-fusione con il mondo che il poeta misura sulla base di un’esperienza personale che è, però, letta attraverso immagini forti e coinvolgenti, capaci di guidarlo nel cammino attraverso il “mondo terreno”. Anch’ egli poeta dello Irdischen Welt (come Erich Auerbach ha scritto di Dante in un suo saggio molto famoso e fatte, ovviamente. le debite proporzioni), Fintoni si muove attraverso la realtà guardandola attentamente e scrutandola utilizzando il telescopio della poesia. In molte delle lunghe suites musicali e poetiche che compongono il testo, l’accento è posto su un passato che si serve del presente per poter rivivere come accade in Fosdinovo, il castello dei Malaspina di cui si descrive l’ambiente meteorologico e materiale insieme alla temperie umana che la inquadra e sottolinea in uno dei poemetti più attenti e liricamente sospesi:
«[…] L’estate è un’alleata dell’inverno / a distruggere le opere dell’uomo, / ma gli amori non può, perché si dice / che vanno oltre la morte e i sospiri / rimangono coi pianti negli androni / bui delle case e nelle stanze dove / consumati non furono, ma uccisi / da antiche gelosie d’occhi invidiosi, / occhi malvagi che scrutano il cuore / per ucciderlo quando già fiorisce / miracoloso e trepido l’incontro / delle labbra con le mani intrecciate / dei corpi quando ondeggiano nell’aria / si cercano per arrivare ad essere in un amplesso folle e immortale / finalmente congiunti. Ci diceva, / la guida, della stanza dove aveva dormito Dante e una notte D’Annunzio. / Ma ho ascoltato soltanto la sua voce…» (18).
La religione dell’amore si fa, dunque, attesa della conoscenza del miracolo rappresentato dalla vita. In questa dimensione, allora, si spiegano compiutamente gli accenti religiosi che costituiscono la sostanza intima e straziata della scrittura di Fintoni (come proverà anche il Libro di versi, pubblicato poi postumo dagli amici del gruppo originario e costitutivo della rivista Anima). In esso troverà spazio anche il mannello di versi redatti, insieme al grande poeta tedesco Dieter Schlesak (19), in occasione del crocifisso in legno scolpito da Carlo Mattioli per la Basilica di San Miniato al Monte (20):
«Dunque vidi la Croce, e sulla Croce / il mio corpo, il tuo corpo, il nostro corpo, / e tutti i corpi di quelli che amammo / e abbiamo accarezzato in giorni quieti / d’affetti, e gesti quasi inconsueti / per molte tenerezze e desideri / non detti, ma comunicati e aperti / da un rapido sorriso e una carezza. / Vidi la Croce. E tutte l’altre immagini, / ammucchiate nel vuoto delle stanze, / io non le vidi più perché il viaggio / si concludeva qui, nel cristo morto. / Sotto quel corpo, ai piedi della Croce, / misteriosamente ritornavi / – se la speranza è l’ombra di un profilo / rintracciato nel legno, o macerata / e dolente figura riscoperta / nelle rughe di un tronco senza tempo – / l’Anonimo Maestro quando illustra / per i vivi i segreti della morte, / per i poveri il Regno e la sua pace» (21).
Così si conclude il percorso umano e poetico di Luciano Fintoni (che si spegne a Firenze il 1 ottobre 1991): una parabola importante e non sempre compresa in maniera adeguata da coloro che lo lessero e forse lo apprezzarono ma non lo valutarono per quanto giustamente valeva. L’incontro con il mito e il “fare anima” di Hillman gli permisero di giungere dove il “cavaliere” della sua seconda raccolta di versi non era potuto fino ad allora arrivare. L’ultimo testo da lui scritto è un testamento scabro e stanco ma ancora ricco pugnace e animato da una volontà di totale immersione nel mondo:
«L’albero è un’acquaforte grigia e nera / dieci e mezzo per tredici. Due strisce / di terra la disegnano. / La prima / è lavorata a solchi lunghi e scuri. / Molti semi vi dormono per schiudersi / in una immaginata primavera. / L’altra che è senza zolle appare brulla / e più compatta dentro il suo segreto. / Io mi rifugio, in questo giorno stanco, / nell’ampia chioma che immagino verde, / nel semicerchio che sostiene un cielo / grigio e uniforme, / la sua aureola bianca» (22).
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NOTE
(1) L. FINTONI, Tempo immite. Sonetti, Firenze, Luciano Manzuoli Editore, 1985, p. 9.
(2) Fintoni, nato a Vaglia (Firenze) nel 1935, si era laureato presso la Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Firenze nel 1958, discutendo la propria tesi di laurea con Giulio Preti (che allera insegnava Storia della Filosofia presso quella Facoltà) e insegnava Lettere Italiane e Storia nei licei.
(3) L. FINTONI, Frammenti del tempo presente, Firenze, Luciano Manzuoli Editore, 1989, p. 38.
(4) Libro di versi, raccolta postuma di Fintoni curata da Francesco Donfrancesco e prefata da Geno Pampaloni, è stato pubblicato come supplemento al sesto volume della rivista Anima alla quale Fintoni collaborò con i suoi testi poetici fin dalla fondazione (1988) ad opera dello stesso Donfrancesco. Il testo poetico citato è alle pp.19-20.
(5) G. PAMPALONI, Premessa a L. FINTONI, La luna è rotonda, Firenze, NuoveEdizioni Enrico Vallecchi, 1974, p. 5.
Stefano Terra, che si chiamava in realtà Giulio Tavernari, fu soprattutto romanziere (in questa veste vinse il Premio Campiello nel 1974 e il Viareggio nel 1980) ma fu anche autore di quattro libri di pregevoli poesie liriche di impostazione sociale e critico-politica non prive però di una qual certa eleganza materialistica.
(6) L. FINTONI, La luna è rotonda cit., p. 11 e p. 13.
(7) L. FINTONI, La luna è rotonda cit., p. 17.e p. 20.
(8) L. FINTONI, Cavaliere cosa porti?, Firenze, NuoveEdizioni Enrico Vallecchi, 1975, p. 60.
(9) L. FINTONI, Cavaliere cosa porti? cit. , p. 28.
(10) L. FINTONI, L’Assoluto selvaggio, Firenze, NuoveEdizioni Enrico Vallecchi, 1978, pp. 29-30. E’ molto probabile che “l’ultimo libro di Aragon” cui si allude sia Bianca o l’oblio (trad. it. di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1969). Il poeta al cui suicidio si allude è Vladimir Majakovskij.
(11) L. FINTONI, L’Assoluto selvaggio cit., p. 21.
(12) L. FINTONI, L’Assoluto selvaggio cit., p. 39.
(13) L. FINTONI, Vento immite cit. , p. 32. Il film del regista russo Tarkovskij (qui scritto erroneamente ma per ragioni di rima) cui Fintoni si riferisce è Nostalghia, un film del 1983, scritto dallo stesso regista insieme a Tonino Guerra e interpretato da Oleg Jankovskij, Erland Josephson e Domiziana Giordano.
(14) L. FINTONI, Vento immite cit. , p. 47.
(15) L. FINTONI, Frammenti del mondo terrestre cit. , pp. 5-6.
(16) Fondamentale in questo contesto il Saggio su Pan (trad. it. di A. Giuliani, Milano, Adelphi, 1977), Il mito dell’analisi (trad. it. di A. Giuliani, Milano, Adelphi, 1979) e Trame perdute (trad. it. di V. Serra Boccara, Milano, Raffaello Cortina, 1985).
(17) In questo contesto di Donfrancesco basterà ricordare Una poetica dell’analisi, con prefazione di J. Hillman, Bergamo, Moretti & Vitali, 2000.
(18) L. FINTONI, Frammenti del mondo terrestre cit., p. 98.
(19) Di Dieter Schlesak vanno citate almeno l’antologia poetica, a cura e con traduzioni di S. Busellato, Settanta volte sete (Pisa, ETS, 2006) e il romanzo Il farmacista di Auschwitz, trad. it. di T. Cavallo, prefazione di C. Magris, Milano, Garzanti, 2009.
(20) Cfr. C. MATTIOLI, Il Crocifisso della Basilica di San Miniato al Monte, testi poetici di Luciano Fintoni e Dieter Schesak, a cura di F. Donfrancesco, Firenze, Tipografia Piccardi & Martinelli, 1990. Inoltre il poemetto Orfeo, poi rifuso nel Libro di versi, fu all’origine pubblicato nel catalogo della mostra dei Nudi di Carlo Mattioli che si tenne a Bolzano nel 1989. Scrive a questo proposito Donfrancesco: “Orfeo intanto mi era divenuto familiare: vita e mito vi trascorrevano come s’intessono ordito e trama. Lo spedii a Carlo Mattioli, al quale avevo già fatto conoscere i sonetti. Al telefono lo sentii commosso, mi chiese d’incontrarci tutti e tre nel suo studio. Ci mostrò i nudi per una mostra a Bolzano, disse che per essi aveva posato Lina, sua moglie, scomparsa cinque anni prima. Era una mostra per la donna amata, per la donna perduta; e in un autoritratto c’era lui che affiorava dal buio, appena. I due poeti si capivano, entrambi tornati dal paese dei morti, e Orfeo fu dedicato a Mattioli” (F. DONFRANCESCO, In limine, premessa a L. FINTONI, Libro di versi cit. , pp. 5-6).
(21) L. FINTONI, Libro di versi cit. , p. 119.
(22) L. FINTONI, Libro di versi cit. , p. 149.
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