Anno: 2012
Durata. 172′
Nazionalità: USA, Germania, Singapore, Hong Kong
Regia: Andy Wachowsky, Lana Wachowsky, Tom Tykwer
Distribuzione: Eagle Pictures
Uscita: 10/01/2013
Pare che l’aggettivo più usato dalla stampa di tutto il mondo per descrivere Cloud Atlas sia stato “ambizioso”. Effettivamente questo è il termine che è venuto in mente anche a me, all’uscita della sala. L’ultima opera dei fratelli Wachowsky ( i creatori di Matrix) e di Tom Tykwer, tratta dall’omonimo romanzo di David Mitchell, è ambiziosa e complessa. Una storia che si sviluppa su più livelli, abbracciando un arco di tempo che va dal 1849 al 2300. Un filo rosso che collega passato, presente e futuro attraverso sei storie, su una linea temporale infinita, in cui si rincorrono ricordi, dejà vu, memorie del passato e del futuro, profezie ed epifanie.
Un avvocato di San Francisco offre rifugio a uno schiavo in fuga durante un fatale viaggio di ritorno dalle isole del Pacifico nel 1848; un compositore di talento nella Scozia degli anni Trenta cerca di comporre la sua opera suprema prima di dover pagare il conto di un grande errore; nel 1973 una giornalista fa di tutto per evitare un disastro nucleare; un editore di oggi, alla vigilia del suo più grande successo, viene tenuto prigioniero in una casa di cura; nell’anno 2144 una clone operaia avverte il proibito risveglio di una coscienza umana; nel futuro remoto e post-apocalittico del 2300, un pastore di capre combatte contro i demoni interiori per ciò che ha fatto per sopravvivere.
I passaggi da una storia all’altra sono fluidi, rivelando in modo più o meno esplicito, le connessioni tra loro. Ciascuna storia si riflette sulle altre e le determina. I personaggi sono sempre gli stessi; un gruppo di persone ritorna all’infinito, riconfigurandosi in nuove identità e situazioni, la loro coscienza si evolve attraverso il tempo. L’anima di ognuno di essi trascende i limiti della corporeità e sceglie di volta in volta un involucro, un corpo diverso. Al centro del film c’è la questione dell’umanità, che svincolatasi dal tempo, dallo spazio, dai confini di razza e di genere, trova il suo senso più profondo nell’incontro con l’Altro e nella reincarnazione. Ogni essere umano si rispecchia e si espande nell’altro, così come ogni evento o scelta trova il proprio compimento, la propria risposta in una dimensione successiva.
L’abisso temporale e spaziale, la distanza, ci suggerisce la voce narrante, “ è solo un’illusione”. La libertà è sempre la verità da perseguire e l’amore è sempre al di là del bene e del male e realizza l’impossibile: fa cambiare direzione al “viaggio”, sopravvive alla morte e rimedia agli errori.
L’idea base del film è quella di raccontare le sei storie simultaneamente, in modo che confluiscano l’una nell’altra, senza soluzione di continuità. Una meta-narrazione che è una vera e propria sfida cinematografica: un film epico che racchiude dramma, thriller politico, sci-fi, commedia, azione, melò e lo fa mantenendo sempre viva l’attenzione del pubblico e con scenari visivamente nuovi ed emozionanti.
Cloud Atlas è come la sinfonia composta da Tykwe per il film (Cloud Atlas Sextet), musica che ha un peso rilevante in una delle sei storie (quella del giovane musicista scozzese del 1930); si percepiscono le singole parti anche se il brano è unico, appare meraviglioso e comprendi che ti trovi di fronte a una qualche sorta di magia, ma per qualche motivo misterioso non ti resta impresso nella mente, sfugge, anche se è un leitmotiv continuo, un tema che si evolve e cambia colore e genere musicale.
Forse la questione risiede nel fatto che il film è stato girato in due unità di riprese ben distinte: una con i fratelli Wachowsky e l’altra con Tykwe, sebbene gli interpreti restano quelli durante tutta la narrazione (Tom Hanks,Halle Berry, Susan Sarandon, Hugh Grant, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Jim Sturgess, Doona Bae, Ben Whishaw, James D’Arcy, Zhou Xun, Keith David, David Gyasi) cambiando aspetto e invecchiando grazie al lavoro degno di nota di costumisti, truccatori e acconciatori. E’ come se la scelta di due team di lavoro diversi e separati abbia compromesso il risultato finale del film, un dato non identificabile in qualcosa di preciso, piuttosto una mancanza di coesione, o se preferiamo, di alchimia.
Colpisce che dietro Cloud Atlas non ci sia una grande major, ma una rete di piccoli imprenditori che hanno finanziato il film più costoso nella storia del cinema indipendente (100 milioni di dollari) e colpisce la passione dei grandi attori (due nomi su tutti: Tom Hanks, straordinario e Susan Sarandon, magnetica) che hanno abbracciato questo progetto anche come una sfida personale.
Non so se l’idea di far partire tutte le storie contemporaneamente, per quanto fedele al libro, sia stata la scelta migliore, perché all’inizio lo spettatore è disorientato e ci mette un po’ prima di capire le singole storie e le interconnessioni tra loro ( e comunque in una sola visione è impossibile comprenderle tutte!) In ogni caso credo che Cloud Atlas suggerisca, senza volerlo, un modo di fruizione del cinema del futuro: chissà dopo l’era del multitasking e della comunicazione web 2.0, potremmo assistere a una visione multipla delle opere cinematografiche, un film multigenere o con diverse opzioni e livelli, in cui ogni storia sia la chiave di accesso o la porta verso un’altra storia.
Per ora preferisco l’incanto di un cinema puro, senza alcuna pretesa o aspettativa, senza la strenua ricerca dell’effetto a tutti i costi, con qualche incursione come questa di Cloud Atlas, a patto che resti un esperimento, l’ibrida creatura di qualche “mad doctors” che con coraggio e fede segue un’intuizione o un’illusione, meravigliosa in linea teorica ma fugace e imperfetta nella pratica.
Maria Cristina Locuratolo