“Mi odio e voglio morire” non era soltanto inchiostro su un foglio e voce su un nastro. Era la volontà più profonda di Kurt Cobain, evidentemente, che è poi diventata il suo destino. Lui odiava le luci della ribalta, non sarebbe voluto diventare lo stereotipo della rockstar che si arrangia come può per risolvere i problemi che ne hanno accompagnato l’adolescenza e compensare le carenze di affetto e i troppi rifiuti ricevuti. Che muore a 27 anni, come qualche celebre predecessore successore. Lo è diventato comunque, processo che Cobain – Montage of Heck cerca di spiegarci con quella che sembra la giusta distanza dai fatti e un’equilibrata ricerca giornalistica, senza tralasciare la carica emotiva che un’icona del rock può portare con sé. Nonostante sia una biografia autorizzata, che non per forza deve voler dire condiscendente.
Guardare questo film vuol dire fare un viaggio anche doloroso nella mente disturbata di un ragazzo, e poi di un uomo, che non è stato abbastanza forte da resistere a tutte le pressioni sociali ed emotive che lo schiacciavano. Gli è mancato quello che si suppone debba essere il supporto più importante: una famiglia unita, in cui il suo compito doveva essere quello più spensierato e non troppo complicato (ma comunque complesso) di fare il figlio. Anticamera dell’onere, questo sì più complicato, di costruirsene una sua, di famiglia, di dover essere lui l’esempio da seguire e non solo un’autorità da contestare.
Gli sono mancati gli amici, spalla più disinteressata dei parenti, e solo la sua musica riusciva a tenerlo ancora in vita, pur essendo il luogo in cui sfogava tutte le sue frustrazioni, le sue paure, che però gli servivano per continuare a scrivere. Quant’è difficile essere – voler essere – un’artista e allo stesso tempo voler essere un uomo comune?
Cobain, montage che affida proprio alla giustapposizione d’immagini di repertorio e all’accompagnamento sonoro la sua forza espressiva, costruisce un personaggio alternando sapientemente alti e bassi, solo talvolta prolisso e troppo voyeur (ma c’è un altro difetto, in coda alla recensione). Un film da guardare soli, se si vuole riflettere un po’ malinconicamente sui luoghi comuni del rock e su quanto sia difficile non deragliare. In compagnia, la sofferenza si può alleviare abbandonandosi al ricordo di quello che i Nirvana hanno rappresentato per i ragazzi della mia generazione, che li hanno scoperti circa dieci anni dopo la loro fine. Tutti gli adolescenti che non abbiano difficoltà a sopravvivere, però hanno molto in comune: dall’odio generalizzato verso il mondo alla smania di distinguersi pur rimanendo confinati in un determinato cortile, come il punk rock. Mettetevi comodi, ma fatevi una domanda – la grande lacuna di questo film: dov’è Dave Grohl?
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