Magazine Diario personale

Coco Pops (un racconto)

Da Chiagia

Il primo ad accorgersi che non c’ero è stato il mio maestro.
E’ entrato in classe e ha borbottato un saluto senza staccare gli occhi dalla Gazzetta. Si è seduto, ha allungato la mano verso il registro, ha battuto le dita sulla scrivania per far capire che era il momento di sedersi. Poi finalmente ha alzato lo sguardo sugli alunni e, atteso qualche istante che gli ultimi prendessero posto, ha cominciato a leggere i nomi.
Presente, presente, presente, finché è arrivato il mio e non ha risposto nessuno. Il maestro ha lanciato un’occhiata verso il mio banco, ha arricciato il naso per un impercettibile istante e poi ha continuato l’elenco, dopo aver appuntato la mia assenza.
Quando è arrivata la ricreazione quasi non pensava più alla cosa, se non avesse incrociato nel corridoio la segretaria. Si ricordò che era amica di mia mamma e distrattamente le chiese se avesse mie notizie.
Niente.
Il maestro alzò le spalle e si allontanò nel corridoio. Ma ormai il meccanismo era messo in moto.
La segretaria rientrò in ufficio e mentre sorseggiava il caffè della macchinetta digitò rapidamente un sms a mia mamma. Tutto ok, chiese, Gabriele sta bene?
Certo, rispose mia mamma, ci sono problemi? C’è che non è a scuola, rispose quella, e in un attimo nella testa di mia mamma cominciarono a girare le rotelline.
Provò a ripensare alla mattina, scorrendola all’indietro come un film. La riunione con l’odiosa direttrice, e prima il collega che ci provava con lei aspettandola in ascensore, e prima ancora l’autobus con la vecchia sudata che spingeva alle spalle.
E prima? Il portone, e prima ancora la colazione in casa, la rassegna stampa in tv, lei che pensava alla riunione che ci sarebbe stata nel pomeriggio e… aspetta, ma Gabriele non c’era a colazione, pensò all’improvviso. Nella sua mente distratta e affollata c’era il fotogramma con la tavola apparecchiata per due ma, boh, mancavo io. E non ricordava neppure, se è per quello, di essermi venuta a svegliare, di aver insistito due o tre volte come ogni mattina, di avermi sollevato di peso per portarmi in bagno.
Niente.
Dopo un attimo di panico mia mamma, alla quale si può riconoscere una certa distrazione ma certo non la mancanza di autocontrollo, cominciò a mettere ordine nell’improvvisa anomalia che le metteva sottosopra la giornata.
E individuò l’unica risposta possibile. Doveva essere colpa di mio padre.
Prese il telefono e lo chiamò immediatamente. Non poteva venire, disse la segretaria, stava devitalizzando. Allora mia mamma urlò come sa fare lei e lui smise di devitalizzare.
La cosa buona di mia mamma, oltre all’autocontrollo, è la sua capacità di sintesi. Bastò sentire il suo tono e decodificare le parole “Dove hai lasciato Gabriele, coglione” e a mio padre si aprì una voragine di senso di colpa.
Perché lui è fatto così. Prima ancora di realizzare che quel giorno era giovedì (e io il giovedì dormo sempre dalla mamma, perché lui il mercoledì sera ha il tennis), prima ancora di capire cosa stesse succedendo iniziò a cercare la scusa che avrebbe minimizzato il danno.
Ma questa volta, purtroppo, non c’era nessuna possibile via d’uscita. Papà non aveva nessuna idea di dove fossi.
Semplicemente sapeva, e se ne sentiva inconsciamente sollevato, che non ero con lui. La sera prima era al cinema con Marina, anche se doveva dire che era andato al tennis. Poi aveva dormito e stamani era venuto di filato al lavoro.
Giusto per togliersi l’ultimo dubbio scostò la tendina dello studio e guardò verso la sua auto, ferma nel parcheggio. Il seggiolino era vuoto, notò tirando un sospiro di sollievo. Non era uno di quei padri che dimenticava il figlio in macchina, almeno.
La telefonata, a quel punto, divenne convulsa. Papà e mamma si urlarono addosso usando i tradizionali argomenti dei loro litigi.
Lei tirò fuori le donne, il calcio, quella volta sulla superstrada (che non mi hanno mai spiegato cosa fosse successo, perciò la devo prendere così com’è). Lui maledisse la fissazione maniacale di mamma per il lavoro, che la distraeva da ogni altra cosa – figli inclusi! – e si vide costretto a ricordarle di quando mi mandò a scuola con il pigiama sotto i pantaloni, il che forse non era pertinente alla discussione ma si sa che quando si litiga si dicono cose poco sensate.
Poi mamma fece una specie di singhiozzo, e allora per la prima volta si resero conto che non sapevano dov’ero finito e smisero di litigare. Papà mollò a metà la devitalizzazione e la raggiunse.
A casa chiamarono le mamme di un paio di miei amici, che qualche volta mi avevano ospitato, ma nessuno aveva notizie. I loro figli erano a scuola, io non c’ero andato? Non è che potevano dirgli che non lo sapevano, quindi presero tempo.
Chiamarono i nonni, usando il tatto necessario per non spaventarli troppo. E si beccarono i loro insulti, che ai loro tempi i bimbi non si perdevano mica, che è colpa di questi computer, che le donne devono lavare i piatti a casa, che sono degli irresponsabili, eccetera.
Niente. Dai cuginetti niente. Dalla vicina di casa niente. Niente.
Alla fine per disperazione tornarono a scuola, che era quasi l’ora di pranzo. Arrivarono alla porta della mia aula, bussarono ed entrando mi videro, seduto al mio posto.
Mamma disse qualcosa tipo “ora facciamo i conti”, anche se io non capivo per cosa, visto che ancora non sapevo nulla di quello che era successo. Papà le chiese se ora poteva tornare alla devitalizzazione, il cliente doveva essere infuriato. Mamma disse di tacere e di aspettare.
Il maestro approfittò dell’attimo di impasse per dare un’occhiata alle probabili formazioni della giornata successiva, ma fu prontamente investito da mamma che lo tacciò di incompetenza per non sapere nemmeno se suo figlio fosse in classe o no. Aveva detto che era assente e invece suo figlio era qua.
Assente?, disse il maestro, che aveva già dimenticato quanto accaduto solo poche ore prima.
Assente?, dissi io. Veramente non ero assente. Sono stato nella quarta fino alla ricreazione perché il maestro mi aveva detto di seguire la lezione sulla guerra di Troia, in modo da raccontarla ai miei compagni nelle ore successive.
Giusto, disse il maestro, che ora si ricordava perché non c’ero all’appello.
Tutto, alla fine, era chiaro. Mamma liberò papà che scomparve in un attimo in direzione dello studio. Poi attese fuori che suonasse la campanella.
Quando uscii la vidi, in fondo al corridoio, che mi fissava con una faccia strana, come se ancora le mancasse qualcosa da capire.
Si accucciò per arrivare alla mia altezza, mi avvicinò al mio orecchio e mi chiese, in un sussurro, cosa avessi mangiato a colazione.
I soliti Coco Pops, risposi.
Fece sì con la testa e mi sembrò rassicurata.



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