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Se uno ama la città in cui è nato, la lascia solo è costretto a farlo. La lontananza gli causa nostalgia. Vi ritorna ogni volta gli sia possibile, anche se solo per poco. Nulla di tutto questo nel caso di Pino Daniele. Lasciò Napoli per sua scelta, appena ebbe modo di comprarsi una casa altrove. Su quella decisione non tornò mai indietro, né diede modo di fare intendere gli fosse dolorosa. Andò a vivere ad appena due ore di auto da Napoli, ma per anni e anni evitò di metterci piede. Ancora nel 1993 diceva di non volervi neppure tenere un concerto e, quando nel 1998 si decise a farlo, nelle due settimane di preparazione all’evento, la sera preferiva tornare a dormire a Sabaudia. Poi, certo, tutto sta nel metterci d’accordo su cosa significhi Napoli. La sfogliatella di Scaturchio? Il Cristo velato del Sanmartino? Totò e il ragù? E allora sì, possiamo dire che Pino Daniele amasse Napoli. Se invece per Napoli intendiamo la stragrande maggioranza dei napoletani – il minimo comune multiplo e il massimo comun divisore di quei vizi morali che ne fanno il carattere trasversale alla più lercia plebe, alla più vile borghesia, alla più fatiscente nobiltà – non possono esserci dubbi: Pino Daniele non la sopportava, non la sopportava affatto. E teneva a marcare le distanze: «Io non sono figlio di Napoli… È un popolo che ha bisogno sempre di un re. O di un Masaniello» (Corriere del Mezzogiorno, 3.6.2011). Più di tutto, odiava come questa Napoli le si stropicciasse addosso e coi funerali in Piazza Plebiscito ha pagato con interessi salatissimi l’averla tenuta a debita distanza. Quando diceva: «Io amo e odio Napoli», parlava di due Napoli diverse: la prima era la città che non avrebbe mai avuto il bisogno di lasciare, quella che forse immaginava fosse esistita un tempo, e chissà quando, o quella che avrebbe potuto finalmente essere (fidava in Antonio Bassolino, povero Pino Daniele!); la seconda era quella reale, a cominciare dalla famiglia di provenienza. Coi funerali in Piazza Plebiscito a Pino Daniele è stata inflitta la punizione che era impossibile infliggergli da vivo: mummificarlo in icona della napoletanità, quel tappeto sempre più logoro sotto il quale si continuano a nascondere secoli di sporcizia. Un altro comodo pretesto di fierezza per gente che forse, e dico forse, avrebbe una pur minima speranza di riscatto nel cominciare col vergognarsi di se stessa.
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