Fin dal 2008, cioè fin dall’inizio della crisi, mi riferii per analogia a quella 1873-96. Anche quella era mondiale ma non del tutto generale, riguardando specialmente i paesi di più “maturo” sviluppo capitalistico, in particolare europei (e l’Inghilterra). Non era una crisi del tipo di quella che poi si verificò nel 1907 e, successivamente, nel 1929 in piena epoca di scontro policentrico. Era una crisi di sostanziale stagnazione, con anche periodi di ripresa di quello che oggi chiamiamo Pil, ma sempre con un senso di galleggiamento e di trend di crescita piuttosto piatto, diciamo orizzontale all’asse delle ascisse (se questo indica lo scorrere degli anni e quello delle ordinate gli aumenti del prodotto nazionale). Vi era soprattutto deflazione dei prezzi, che per il momento oggi non constatiamo; è però meglio aspettare, quelli che cianciano di prossima robusta ripresa sono sempre meno e continuano ad accanirsi intorno alla crisi finanziaria, dimenticando volutamente, e spesso in perfetta mala fede, quella reale.
Gli ultimi decenni del XIX secolo – ma solo con il senno di poi – sono considerati quelli in cui inizia il declino della centralità (imperiale) inglese; allora anche centralità coloniale nel senso del colonialismo d’epoca. Tuttavia, se ci portiamo con la memoria a quel periodo, era appena finito il regolamento di conti interno agli Usa, che diede impulso al crescere inarrestabile della potenza statunitense, divenuta effettivamente di primaria importanza con la prima guerra mondiale, ma definitivamente la principale con la seconda (80 anni dopo la guerra civile o di secessione). All’epoca della grande depressione ultraventennale, gli Stati Uniti avevano da pochi anni concluso l’atto cruento e decisivo di lancio della loro futura potenza, da meno ancora la Prussia (nucleo essenziale della Germania nata ufficialmente nel 1871) aveva strabattuto la Francia; ed era ancora abbastanza lontana la guerra russo-giapponese, pur essa paletto storico segnalatore dell’entrata del “Sol Levante” nel novero delle potenze in lotta policentrica per la supremazia mondiale.
A fine ‘800, non era deciso irreversibilmente il destino dell’Inghilterra; a meno di non credere che quanto ricostruiamo a posteriori (post festum) dell’andamento storico sia sempre un percorso obbligato, strettamente indirizzato da cause d’ordine strettamente deterministico. Si poteva solo constatare che l’Inghilterra vedeva crescere intorno a sé altri paesi, ancora meno potenti di lei, dotati però di capacità già sufficiente a creare difficoltà a quello che – diciamo, grosso modo, a partire dal Congresso di Vienna in quanto sanzione della rovinosa sconfitta della Francia napoleonica – era stato il predominio inglese, da considerarsi centrale ma non totale e indiscusso. E andò accentuandosi un certo disordine nella conduzione degli “affari mondiali”, pur se non va dimenticato che la fase storica intercorrente tra la guerra franco-prussiana e la “grande guerra” (una quarantina d’anni o poco più) è stata di sostanziale pace.
Di pace, però, si poté parlare guardando soltanto agli eventi nel mondo europeo (e capitalistico in genere). Fu l’epoca della più completa e definitiva affermazione internazionale del capitalismo borghese, con le classi dominanti dei vari paesi capitalistici in apparente intreccio reciproco, con il francese lingua comune delle stesse e Parigi luogo di formazione e ritrovo dei loro rampolli, ecc. In fondo, proprio come si è cominciato negli ultimi anni a parlare di una classe dominante transnazionale, unita dalla lingua inglese e dalla frequentazione delle Università anglo-americane; processo che assicurerebbe ormai un’era di pace e collaborazione tra tutti i dominanti del mondo. E anche i prossimi decenni (penso ne basteranno un paio) metteranno fine a queste futilità di un ceto intellettuale sempre abituato a ripetere a pappagallo quanto gli viene suggerito (con gli opportuni “incoraggiamenti” onorifici e danarosi) da furboni matricolati che si preparano ai “giusti” affrontamenti per la supremazia.
Pur restando sempre attenti alle differenze tra diversi periodi storici, e senza immaginare una pedissequa ripetizione di questi, non vi è dubbio che il passato ci insegna comunque qualcosa di utile per l’interpretazione del presente e la previsione dell’immediato futuro. Non è sicuro al 100%, e tuttavia mi sento di affermare che si riveleranno fondamentalmente stolte le speranze di una ripresa globale dei “mercati”; secondo l’ideologicamente sviante terminologia dell’economicismo liberale oggi imperante, che mai si riferisce ai vari e complessi sistemi socio-politico-economici, tra i quali si va instaurando gradualmente un nuovo disordine e scoordinamento, una volta finito sia il mondo bipolare (con la semplice eccezione della Cina a fare da terzo incomodo, ma ancora non particolarmente scomodo) sia il breve intervallo prevalentemente monocentrico seguito al crollo “socialistico” e sovietico.
Attualmente, non si può forse parlare ancora di autentico multipolarismo (antecedente del policentrismo conflittuale aperto) poiché sembra che gli Usa abbiano arrestato quel processo piuttosto somigliante ad un loro declino. Tuttavia, il loro modo di riprendere l’iniziativa in mano e la loro apparente concentrazione di forza nell’area del Pacifico – mentre, in effetti, le più elaborate politiche vengono messe alla prova attualmente proprio nell’area europea, nordafricana, mediorientale e fino ai confini della Russia – non sono in grado di dare vita ad un centro coordinatore dell’insieme. Il paese predominante deve assicurarsi l’iniziativa tramite mosse strategiche, basate su alleanze flessibili e mutevoli, provocando un gran subbuglio in aree (tipico proprio il nord Africa e il Medioriente) dove prima sembrava fossero saldamente installati regimi piattamente succubi degli Stati Uniti. Oggi, il predominio deve essere riconquistato tramite operazioni molto più “ardite” e articolate, tuttavia pericolose per eventuali smottamenti e allentamenti di date alleanze.
In poche parole, mentre la supposta maggiore attenzione assegnata all’Asia e al Pacifico – una vera copertura delle proprie reali intenzioni – è sostenuta da molti “osservatori” (non sempre in buona fede), in realtà l’azione statunitense più penetrante è svolta assai più a “occidente”; e andrà interessando sempre più nei prossimi anni proprio l’Europa, che tutti danno per marginale, per ormai trascurata dalla grande potenza alla ricerca di una nuova centralità “imperiale”. Da qui nasce la nuova crisi, che non è più una recessione, bensì un’autentica fase depressiva legata al crescente, ed irrimediabile nell’attuale contingenza storica, scoordinamento del sistema mondiale, ma soprattutto della sua parte “eurasiatica”, mentre Cina ed India possono al momento proseguire nel loro, pur moderatamente disturbato, sviluppo.
Non assisteremo, almeno non credo, a chissà quali crolli, a parte l’uso dello strumento finanziario (e dunque delle “crisi di Borsa” e simili) come una abbastanza secondaria arma di battaglia della principale potenza nella sua lotta per riacquisire, almeno in larga parte, una posizione di centralità nel sistema globale. Nemmeno si verificherà una continua caduta del Pil. Si galleggerà e – alla fine di un lungo periodo, quello della successione di conflitti per riassestare appunto le prospettive di ripresa del “controllo centrale” da parte degli Stati Uniti; un periodo, sia chiaro, antecedente il vero scontro policentrico acuto, solo invece la sua preparazione “sul terreno” mondiale – si potrà constatare che il trend complessivo sarà stato grosso modo piatto; e ciò soprattutto, appunto, nella parte del globo in cui siamo situati noi, assieme al grosso dei paesi capitalistici avanzati (“maturi”) con le loro “vicinanze” africane, mediorientali, ecc. Qui si avrà il maggiore scoordinamento; qui si avrà la “prova generale” del multipolarismo e, infine, la conferma o la smentita del declino statunitense. Una conferma o una smentita che, con grande probabilità, esigerà comunque il deciso e robusto confronto policentrico.
L’Italia è assai meno irrilevante di quanto intendono farci pensare, proprio per poter agire senza eccessivi intoppi. Essa deve restare ancora per un certo periodo di tempo – difficile avanzare previsioni sulla sua durata – quella che venne definita spesso un’“espressione geografica”, priva di effettiva personalità nazionale. I liberali, come già detto, cianciano della necessità che il nostro paese s’integri nel “mercato globale” con la “giusta competitività”, quella nei settori dei “cotonieri”, nei settori di una industrializzazione d’altre epoche, in modo che il sistema Italia resti appendice di chi (Stati Uniti) ha bisogno del completo comando nella nostra area per la sua politica di supremazia lanciata in senso “eurasiatico” (sempre, ricordiamolo, sotto copertura dello spostamento della propria azione principale all’Estremo Oriente). Gli ultra e pseudorivoluzionari sono invece pagati dagli stessi “cotonieri” per raccontarci la fine degli Stati nazionali, l’affermarsi della transnazionalità che vedrebbe ergersi le Moltitudini a combatterla tutta in blocco.
Poi ci sono gli altri imbroglioni che predicano la decrescita, l’ecosostenibilità, il ritorno a ritmi di vita “più umani”; il tutto per rendere l’Italia un grande agriturismo adatto alle piacevoli vacanze dei miliardari dei paesi dominanti. Questo nella rappresentazione “teatrale” per il popolo; poiché, nella realtà, il nostro paese – tutto “orti e frutteti”, tutto “boschi e ruscelli”, tutto “artigiani e piccoli coltivatori” che ricreerebbero un sereno ambiente famigliare, ecc.; e con un ritrovato ardente spirito di comunità – dovrebbe appunto essere sempre pronto quale base di partenza per l’aggressività degli Usa e dei loro sicari, fra cui i subdominanti italiani. E se poi queste presunte comunità, un domani, potessero offrire un bel po’ di “carne da macello” popolare per i conflitti militari che punteggeranno il nuovo policentrismo, saremmo al massimo del nostro impegno per l’affermarsi di un “mondo migliore” (che è notoriamente quello costellato di mucchi di cadaveri per la gloria dei “popoli”).
Noi siamo grigi, siamo tediosi, ci piace turbare gli idilli pastorali. E siamo miscredenti circa le virtù della competizione in “libero mercato globale”. Invece di stravaccarci nella “rete” a vomitare le più insulse rappresentazioni del rammollimento cerebrale, invece di leggere “grandi giornalisti” e “competenti specialisti” (nonché “tecnici insigni”) che ci dimostrano come inetti e fatui “cotonieri” paghino lautamente scatole craniche piene di relè in costante cortocircuito, abbiamo l’insana pretesa di capire qualcosa del mondo caotico e insidioso cui ci troviamo di fronte e che, entro tempi non lunghissimi, sarà carico di eventi tragici. Questo mi sembra l’impegno più urgente di cui farci carico; e inviterei tutti noi, e gli eventuali amici, a sforzarci in questa direzione. A me sembra atteggiamento meritevole; non so se a voi pare lo stesso.