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“Col mitra scarico di sogni” di Francesco Aprile e Teresa Lutri

Da Lucianopagano

Francesco Aprile – Teresa Lutri
2011/01/12

Col mitra scarico dei sogni

“Col mitra scarico di sogni” di Francesco Aprile e Teresa Lutri
Uno. Due. Tre. Dieci. E ancora Uno. Due. Tre. Cento. Mille. Pensavano alla frase. All’uscita. Poi. Oggi il mare è diverso. Oggi ha il colore di niente. Si avvolge come onda.
Per strada_ dai finestrini dell’auto_ scorrevano il paesaggio come riflessi, ciglia macchiate della storia. Ancora. Oggi il mare è diverso.
- Io non vedo mare – disse uno di loro.
Era il figlio prediletto della storia. Cacciato allontanato. Dimenticato. Il figlio prediletto della storia. Eletto al rango di storia dimenticata.
- Io non vedo mare – disse ancora.
- Io non vedo che urla_ muoversi. Ho pestato ancora le mie mani.

“Io non vedo che urla_ non sento che mare. Non vedo mare/sento mare. Diverso mare. Diviso mare. Separato dal fievole anelito del mio ego. Quasi battuto. Con questo corpo quasi dissolto. Che possa straripare tutto questo mare. Che possano liberarsi queste_ intime onde di me. Di dentro. Questo sbattere all’impazzata_ aspetto_ saponificazione sacra_ di tutto ciò che non serve. Gli occhi continuavano_ a fissare urla nella testa”.

Ore 13. Aperitivo. Colazione distillata.
Ore 14. Nient’altro da urlare.
Ore 15. Approssimazioni.
Ore 16. _ _ _ _ _ _ _ _____ _ _ _ .
Trasmissioni interrotte. Bip.

Lo trovarono dismesso sotto il nero incancrenito di una carta d’identità. Il figlio prediletto della storia. Assunto morto. Contabile_Cristo_Cazzo_Cristo. Di nuvole.

- A fare i conti con la storia_ ci tocca il passo più lungo della gamba. – Apostrofò uno.
- È che siamo così.
- Non dire stronzate.
- Aleph ha solo bisogno di morire. Lasciatelo fare.

Ma stavano ancora dicendo stronzate_ mentre il treno che passava se lo portò via. E le colline, prossime al sole. E le colline_ rosse spremute di papavero_ rosse spille negli occhi. Rosse colline di schizzi di sangue_ rosse colline rosse_ di sole al tramonto_ di vita_ di fiore_ di cuore_ di colline. Rosse spremute di papavero|
sullo sfondo degli istanti – acerbi – del passare del treno. Che. Appena nati. Appena morti.

Corsero verso i binari. Corsero due. Corsero tre. Corsero ancora. Di Aleph. Niente. Tracce zero. Di vita annusata al km 120.470. Corsero via. Direzione opposta. Bar. In uno al bar. In due al bar. In tre al bar. Sulla sedia elettrica delle coscienze.

D i s a t t i v a t a .

“E proprio Aleph si rivelò_ in forma di sedia elettrica disattivata. Tacita ferraglia di coscienze_ tutte ancora da accogliere. In seduta/trauma. In frenata_ di corsa cieca. Silenzio di ferraglia/terrore_ intimidatrice di ritmi. Sostenitrice di pause. Obbligatorio fermarsi. Ci vuole responsabilità. Nel camminare e nel fermarsi. Nel portare proprio questa faccia. Nel fare la puttana o l’imbianchino. Nel dissolversi_ in una fabbrica. Nella fiamma rossa_ d’una qualunque rivoluzione. Responsabilità ci vuole_ a non vedere il mare_ a disattivarsi. Attesa di culi responsabili_ su seduta silenziosa consapevole di responsabilità. In uno a tentennare. In due a tentennare. In tre a tentennare. Fermata obbligatoria. Aleph non parla. Aleph/frenata”.

Sullo spettro delle inquietudini. Scesero in tre. Spazio. Spazio. Lasciate loro spazio. Si gridava attorno la folla del bar. Presto. Fate presto. Ne giunsero altri con loro. Attorno. Tutto attorno. Spazio. Fate spazio. Ne giunsero altri con loro.
Mentre urla. Contornavano il viso.
Mentre attorno. Lacrime e desiderio.
Mentre attorno. Il re ha perso la regina.
Mentre attorno. Ospiti si autoinvitavano al banchetto.
Mente attorno. Mentre urla mentre. Attorno. Crepe sui muri lasciavano spazio al vento.
Mentre attorno. Gridava il vento_ sono libero di fischiare.
Mentre attorno. Non grida l’uomo che ha morso il serpente.
Mentre attorno. Non grida l’uomo che lascia cadere la mela.
Mentre attorno. Grida l’asfalto forato ché s’è fatto tempo.
Mentre attorno. Non dorme l’occasione. E si svuotano bianche lastre di case. Di tufo. Di pane. Di bianca cera_ crema di luna.

“Crema di luna. Ora bianca di calce_ di case di sogni. Proiettati in alto_ stagliati in cielo. In cerca di_ un quarto di luna da colonizzare. Che le distanze partoriscono funi. Che le distanze partoriscono_ liane di desiderio. E giù_ in picchiata. Urla. Stonate di vuoti. Urla stonate di pieni. Luci e ombre disegnano. Dei tre_ silhouette di pensieri_ danzanti come fiammelle acide. Alla luna giunge. Un bavaglio d’urlo distratto. E rotola_ in crateri. Di non/tempo. Non avverte_ alcuna forza. Di gravità. Fisica”.

E rotola giù dalla fune il desiderio.
E rotola_ via dagli anni il tempo.
Hanno addossato tutto alle pareti. Spazio fate spazio. Dategli spazio. Gravide urla di terrore al bar. Gridavano gli uomini. Spazio. Sia fatto spazio. E intanto_ addossavano tutto alle pareti. Loro. Che erano nel tempo. Nel tempo restavano. My guitar wants to kill your mama. Gridava uno che nel tempo c’era morto. My. My. My my my my…loop…giro di loop loop disco incantato. My my my. My guitar wa…wa…wants.
E grida il nesso che ne toglie la vita.
E moriva il grido che al nesso dava vita.

E lui. Il figlio prediletto della storia. Ritornò uomo. Ma il tempo gli si sfaldò fra la testa e la schiena. Ruppe l’ultimo scafandro temporale. Se ne liberò_ con appena una scrollata di sensi_ tutti intonati_ ad evacuare. Il corpo evacuato. La testa calibrata. L’essenza in volo. Celebrò ciascuna morte fisica. Ciascuna accensione interna. Dal collo ai piedi tutto rotolò. Come urlo imbavagliato. E con lui. Ogni desiderio. Che a vivere. Basta
liberarsi.
Ciascuna liberazione/librarsi. Questo videro. Al chiaro di luna. Volare l’essenza A/Temporale. L’orologio a impazzire.

La condizione preliminare.
L’assenza. La cercavano. Nel passo di danza. Tra la folla stranita del bar. Spazio fate spazio. Hanno bisogno di spazio. Siano fatti loro spazio e tempo. Addossavano ancora tutto alle pareti. La condizione preliminare dell’assenza. Ritrovata mentre frugavano fra le carte, le astruse mezze misure di mezzucci farabutti. Mentre giravano, frugavano, inondavano ogni cosa di urla di fate spazio spazio spazio. Uno dei tre, in uno, si allontanò. Due dei tre, in due, si allontanò. Il terzo non seguì che il terzo. E continuò liscio il suo spazio. Frugava frugava frugava.
Mentre ancora. Moriva il colosso di carta nel cervello.
Mentre ancora. Spendeva la giornata il vuoto scarto della storia.
Mentre ancora. Splendeva d’oro grido di dimenticanza.
Mentre ancora. Si moriva della distanza.
Mentre ancora. Sollecitava l’eco la rimembranza.
Ch’era scettro perso. La costola fratturata. La selva stella d’argento.
Ch’era strumento idolatrato. Il fusto vuoto già consumato.
Ch’era cosetta cantata. La virgola. Parola rimuginata.
Ch’era orgia. Lo spumante di natale_ il cristo morto infame.
Ch’era schiavitù morale. La chiesa_ la notte di natale.
Ch’era maggio i prati in fiore. Mentre oggi. Fumo e dolore.

Mentre scendeva ancora la sera. Mentre le labbra. Inumidite dalla nebbia. Serravano spezie. Rimarcate dal nero pesto della sera. Di un nero asfalto di sete. Di un nuovo dolore serrato fra le gambe. Qualcuno si avvicinava al bar. Altri ne uscivano intimoriti. Altri. Correvano a chiamare altri per continuare a fare spazio. E urla. E botti. E fottìo di gente. E la sera_ mascherava un neo stilizzato di rosso colorato. E la sera_ che scendeva come sale la nebbia fra i capelli. Fra ciocche sfibrate d’amianto. Le tue lastre. Distaccate immagini del cuore. Dell’anima. Del dolore. Sulle foto appese alle pareti. E scendeva la sera. Cara. Avevi la testa poggiata sulla mia spalla. Avevi gli occhi grandi chiusi di sonno. Avevi dolci. Linee di luce e perle e guance sferzanti. Avevi dolci. I capelli sui miei avanzi.
E scendeva la sera. Cara. Colorava la nebbia i nostri teneri sbagli.
E scendeva la sera. Cara. Ammaestrava in ultimo. Tutti i nostri ritardi.
E scendeva la sera. Cara. Filtrava la luce dei tuoi sguardi, la nebbia il gesto il suo sfiorarti.
E scendeva la sera. Cara. Dimenticava l’ora tarda il sussulto del cuore.
E scendeva la sera. Cara. Distillava gli appetiti. Consumati troppo in fretta.
E scendeva la sera. Cara. A rincuorare. Oggi. Quel che abbiamo dimenticato. Ieri. Tutto il peso. Il prezzo. Il senso. Il gusto disgusto. L’odore imbavagliato fra le gambe. Dell’ultima umida sera. Dell’umile schiena divelta, peraltro scoperta, amarezza sterile. E scendeva ancora la sera. Cara. A coprire coi suoi nei spicchi gialli sul nero. A coprire coi suoi nei. Cara. L’odore tiepido di ieri fra le gambe e poi. Waiting for. La chitarra in mano. Sigaretta fra le dita. Penguine serenade. E Amprhey. Sassiyl. Franky. Henry. L’odore del palco. La sensazione greve del suono cupo. La lontananza del mare. Il verso scarno della chitarra. Sarebbe andata così. Mentre il suono rivoltava la stanza.
Mentre il suono rivoltava il tormento cupo dei buchi sulle braccia.
Mentre il suono accendeva i fumi della pace.
Mentre il suono. Condensava l’aspro di ogni sera. In un caldo ricordo da far male.
Mentre l’attesa sbuffava sul conciliare rumore sordo del suono che tardava.
Sarebbe andata così. Sarebbe salito sul palco. Mentre il respiro gonfiava.
E rubava tempo alle immagini. Alle parole. Alle canzoni. Alle note. Alle emozioni in riverbero. Mentre il silenzio sgonfiava. I suoni dell’attesa.
Poi. Avrebbe gridato. Che è tutta colpa della poesia. Che a noi non ce ne frega niente. Che a noi non importa un cazzo. E avrebbe violentato la chitarra. Le assi del palco. Strappandole dai chiodi. Strappando i chiodi dalle assi. Le corde dalla chitarra. Sputando sull’amplificatore. Ché non amplificava se stesso. Lanciando al muro un urlo. Che nemmeno il microfono. Avrebbe immaginato. E saremmo andati via. Dopo ancora ancora ancora una sigaretta. Poche parole stonate dal suono. Rivolte agli amici. Poche parole crepe di emozioni versate. Sulle feritoie esistenziali, sulle nostre barricate emozionali, sulle nostre strenue difese da macellai. Da contabili disoccupati in calore. Da ragazzi in fila per un posto al callcenter delle speranze. Col mitra scarico dei sogni. E la pazienza_ barriera ultima da varcare. Tra fremiti intorpiditi. Di balene bianche lungo le strade. E nuvole. Nuvole nuvole. Nuvole che deragliano_ sempre_ ancora ora_ la luce del giorno. Fra le immagini smunte dei nostri palazzi in rovina. Dal finestrino dell’auto. Guardavano|
- Ma io non vedo mare.
- Ma io non vedo sole ad accarezzare cullare abbracciare gli insicuri toccati attimi di tempo sul viso.
- Ma io non vedo mare.
Di Aleph più nessuna traccia.
Stavano ancora dicendo di malinconie, di sussurri sbagliati. Lanciati senza il vento di un sospiro alle spalle. Scongelati dai peggiori incubi. Stavano ancora dicendo di un giorno che. Appena nato. Appena morto.
Che scesero. Dall’auto ad inseguire persone.
Che scesero. Dall’auto e non trovarono persone.
Che scesero dall’auto_ nel bianco stanco di uomini monocromi.
Che scesero in strada. Fra saluti seriali di genti uguali.
Che scesero. Fra la puzza di piscio. Vagabondo dietro cassonetti incendiati.
Che scesero. Fra la puzza del delirio. Di politici ladri non curanti. Iniziarono a correre. Senza meta lontano lontano lontano. Strapparono via sacchi dell’immondizia. Cacciarono via un paio di lattine. Per dei palloni improvvisati dietro le perdite_ sconfitte affisse dei loro diritti. Bruciati. Stuprati. Incatenati.
Scalcinati. Umidi tetri sospiri appassiti. Che un’auto che passava. Portò via uno di loro. Tre dico tre. Ne rimasero due. Fra il rosso sangue sulla strada. Fra il rosso sangue di auto impagliate. Fra il rosso smacco della vita. Fra il rosso sangue come di rose. E avevi ragione a dire di no. Alle nostre ferite. Lasciate sulle schegge di bicchieri vuoti, rotti.
E avevi ragione a dire di no. Al destituire dei nostri sogni_ ormai randagi, come gatti soli nello sporco delle strade.
Un’ultima sonata di violino sfiorava. Nuvole di rose_ appassite nel cielo. Da annaffiare nei vasi.
Sui nostri balconi decrepiti.
Sui nostri cieli offuscati.
Sui nostri sui nostri.
Sui nostri ormoni dilatati.
Mentre s’annuvola_ di rose, la nostra anima. Stuprata di tenebra. Scendeva la tensione del giorno. Di un sole distorto. Di un sole nascosto. Di un sole adombrato da carceri di cemento.
Sui nostri ciechi momenti non brilla che la miseria.
Sui nostri istanti mancanti_ non nasce primavera.
Dove non sorge che pianto.
Dove non sorge desiderio d’amore.
Mentre grida il verso s’è fatto spento.
Mentre smuove, l’ora, la piazza in rivolta.
Mentre neve. Sfiniva ancora la sera. Di una notte. Che idruntina volgeva al termine, imbiancava l’incavo stomaco di luna, una sagoma appesa di neve, poca luce di stelle nel cielo. Una grondaia di nuvole spessa come il fondo del mare.

§

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