«Una volta a Messina a Punta Faro, c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva: Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce? E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:Cola! Che tu possa diventare un pesce! Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno; in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana [...]». Quella che vi abbiamo appena raccontato è solo una leggenda, mentre ciò che vi stiamo per narrare è una storia reale, anch’essa tutta siciliana, una storia all’insegna della buona musica. Il nostro eroe si chiama Colapesce (all’anagrafe Lorenzo Urciullo), nato in una giornata di settembre del 1983 in quel di Siracusa; e il suo primo progetto da solista, Un meraviglioso declino, ha da poco spento la prima candelina. Il disco è una raccolta di racconti autentici, semplici e diretti, che evocano stralci di situazioni comuni a tutti, impregnati di riflessioni personali e sociali. Il brano d’apertura si intitola Restiamo in casa, un sussurro tremante d’amore che incalza lento, amaro e pungente. Una melodia sottile, disegnata da un semplice pianoforte e una chitarra classica, accompagnati da timide parole come «Restiamo in casa, l’amore è anche fatto di niente [...] ma quanta luce i tuoi occhi, sento tremare i ginocchi». Ed è subito magia. Satellite, secondo pezzo in ordine di tracklist, ci parla melanconicamente di mare, di estate e di baci salati. Di quegli amori che tutto scacciano via, che riempiono cuore e cervello, ma forse per una stagione solamente. Se la terza traccia, La zona rossa, pone l’accento sulla disillusione dei giovani d’oggi e sulla disastrosa situazione politica in cui sono costretti a vivere quotidianamente, ancora più tagliente risulta il testo di Un giorno di festa, un mix di citazioni allusive, in cui si passa dai festini porno alla corruzione dei palazzi, per culminare nella frase «[...] sembriamo nel far west / ma non ci sono stelle né speroni / la nostalgia è un vortice / nel tuo splendore piovono le rane».
Ad avvolgerci nuovamente d’incanto ci pensa Oasi, con il suo lento vibrare ed un giro malinconico di organo a raccontare la Sicilia. Un brano colmo di tenerezza, dove i due protagonisti non hanno nulla, solo caldo ed uno stipendio da niente. La più immediata del disco risulta invece la traccia numero sei, Le foglie appese. Si tratta di una ballata dolce, romantica, quasi surreale, una vera e propria «cura contro il panico». In una sola parola: bella. Subito dopo ci sorprende quella che potrebbe essere una canzone a metà strada tra Niccolò Fabi e Max Gazzè: Quando tutto diventò blu che, insieme alla seguente, I barbari, offre uno spunto di riflessione sulla tematica attualissima della disoccupazione giovanile. Argomento che si insinua nella mente dell’ascoltatore all’udire strofe accusatorie come «hai cercato i tuoi sogni / hai studiato per chi ti darà la quota per restare a galla» o ancora «i barbari stanno per arrivare / muniti di lauree / dottori di ghiaccio [...] conoscono bene le loro prede / si nutrono dei tuoi fallimenti». Sonorità pop per la prima, più scure per la seconda, ma entrambe con un piacevole pizzico rétro. L’atmosfera mantiene i toni cupi con La distruzione di un amore, che omaggia ma allo stesso tempo capovolge La costruzione di un amore di Ivano Fossati. La canzone racconta di un amore solo sfiorato, lambito, accarezzato, il tutto edificato su una serie di metafore di disagio ed un’avvilita chitarra classica. Si passa poi a Sottotitoli, una modesta poesia dalle sonorità chic che racconta un viaggio a due in un universo parallelo fatto solo di pellicole. Un brano che funge da tramonto, perché dopo viene l’alba e tutto S’illumina. Un suggestivo paesaggio estivo siciliano. Barche che si vedono dalla finestra, signore che fanno la spesa e una piazza che profuma di mare; un ritorno ai sapori agrodolci e visioni di ordinaria quotidianità.
Segue Il mattino dei morti viventi: flemmatico racconto di un pigro risveglio in una giornata oziosa, che ci accompagna verso la traccia finale. Versi che sanno di fiacca ed un finale musicalmente pungente e cacofonico, ma nello stesso tempo perfettamente contestualizzato che dà all’aria un lieve sapore che sa di Pink Floyd. Sulla porta d’uscita di questo meraviglioso declino, troviamo invece Bogotà. Una struggente lettera ad un ipotetico fratello, che spiega in versi le fasi della vita di ogni uomo. La spensieratezza del bambino che passa le giornate tra biciclette e soldatini, poi la giovinezza con le sfide dei vent’anni e infine l’ingresso nell’età adulta dove «adesso dispersi cerchiamo la pace nelle ombre degli altri», il tutto contornato da una malinconica melodia che porta fino alla fine l’ascoltatore con il cuore pieno di emozioni e gli occhi lucidi. Un disco intimo quello di Colapesce, carico di sentimentalismo e di consistente realtà, a cui non manca quel pizzico di spensieratezza tipico dei suoi trent’anni e delle preoccupazioni di un uomo che comincia ad affacciarsi alla vita vera; uno spaccato di realtà che mira a far riflettere ed emozionare l’ascoltatore. Perfetto. Col nuovo anno Urciullo è tornato un’altra volta in campo con la versione deluxe del suo primo album, uscita proprio lo scorso 25 gennaio. Due cd e trentadue tracce complessive: le tredici del declino, la versione di Satellite realizzata con la cantante Meg, il brano Talassa composto appositamente per far da colonna sonora al documentario di Greenpeace Thalassa: uomini e mare, i sei brani ormai introvabili contenuti nel primo EP del 2010, un riadattamento de Gli anni degli 883 ed infine il brano ingiustamente scartato alle selezioni sanremesi Anche oggi si dorme domani.
Anche questo un pezzo profondo ed intimo, scritto dal cantautore in un momento di crisi personale. Racconta del vuoto che abbiamo dentro, del futuro che manca e di come ogni certezza può facilmente diventare dubbio: «uno di quei testi che non possono rimanere chiusi in un cassetto», precisa Urciullo. Il viaggio di Colapesce si conclude in un clima carico di plausi, proprio come il viaggio del Cola leggendario, che scese nelle acque messinesi mandato dal Re a scovare i segreti più profondi degli abissi, e lì rimase. Quando si accorse che tre colonne sorreggevano la Sicilia ed una di queste stava per crollare, decise di sostenerla per l’eternità. Un po’ come il nostro giovane cantautore, che sostiene e promuove con decisione un tipo di musica intima ed innovativa che fa onore alla sua terra. C’è chi dice che Colapesce è ancora in fondo al mare e lì vi resterà per sempre, e chi, invece, crede che tornerà in terra quando tra gli uomini non ci sarà più nessuno che soffra per dolore o per castigo. Nel frattempo Urciullo ci racconterà non di sirene, né di mari; ma di vita e di amarezze, le stesse che un giorno Cola di Punta Faro spera di non vedere più per poter ritornare a casa.