Il film devo averlo visto decine di volte, e non sempre con grande interesse. La sistematicità con cui lo vedevo ne stava distruggendo la bellezza. E' come poter osservare la Primavera di Botticelli tutti i giorni. La prima volta rimani a bocca aperta, la seconda volta dici che è bello. Immagino che per i custodi degli Uffizi sia diventato un quadro come un altro. E' un po' come ripetere velocemente una parola: dopo un po' quella parola non ha più un senso compiuto, viene svuotata di ogni significato, perde ogni allusione e contraddizione semantica. Lo stesso vale per i film. I film che riteniamo belli non dovrebbero essere visti in continuazione, neanche una volta l'anno. Dovrebbero essere visti una volta ogni quattro anni, come le olimpiadi, sperando ogni volta di arrivare sani e salvi alla visione successiva.
Grazie alla Nexo Digital, che per un giorno ha redistribuito la pellicola, ho finalmente soddisfatto il desiderio di vedere sul grande schermo il viso ammiccante e malinconico della protagonista, la schiva Holly Golightly interpretata (ma devo veramente dirvelo?) da una Audrey Hepburn il cui talento è rimasto però costretto nelle maglie delle case produttrici che la volevano immacolata come una Madonna; il suo atteggiarsi a donna vissuta, nonostante il taglio sostanzialmente satirico che il regista ha voluto dare al film, è stemperato dalla classe, dall'assoluta mancanza di volgarità propria della commedia sofisticata.
Per questo motivo la Holly di Audrey è diversa dal magnifico personaggio di Truman Capote. Audrey Hepburn nel caratterizzare Holly perde quell'ambiguità sessuale, mai scoperta fino in fondo, che ne caratterizzava anche una certa irrequietezza esistenziale. Audrey Hepburn non avrebbe mai potuto interpretare la parte di una bisessuale o di una lesbica senza venir meno alle aspettative del pubblico. Proprio in quello stesso anno la Hepburn gira anche Quelle due (The Children's hours) insieme a una grandissima Shirley MacLaine. La regia è di William Wyler. Anche in questo caso la Hepburn rinuncia ad interpretare perturbanti ambiguità sessuali e lascia questo compito a una ispirata Shirley MacLaine, la quale infatti surclassa l'affascinante Audrey in coraggio e bravura.
Leggendo Colazione da Tiffany infatti non ho mai pensato alla Hepburn, piuttosto a Marylin Monroe. Ho scoperto leggendo la recensione sul Mereghetti che il film è stato proprio pensato per lei. Insomma, è un'altra di quelle occasioni mancate di cui è pieno il cinema. Peccato, perché se quel pudore puritano si fosse dissolto in nome della grande capacità narrativa di Truman Capote, avremmo visto un film diverso, forse migliore. Avremmo perso un po' della classe di Audrey Hepburn per acquisire quella disperata ricerca della felicità che si rifletteva negli occhi di Norna Jeane e che nascondeva sotto la maschera di "Marylin", affiancata magari a un attore meno ingessato di George Peppard, forse un Marlon Brando ombroso e altrettanto ambiguo e irrisolto. Perché tra le altre cose ciò che voleva dirci Capote è che non c'è nulla di definito e definitivo, soprattutto riguardo la sessualità.
Non c'è un finale triste o lieto in questo romanzo. A differenza del film è un finale che rispecchia una continua ricerca di se stessi, aperto e agro. Un io eternamente in viaggio per il mondo che lascia dietro di sé pezzi di vita.