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Colombia: 180 bambini stuprati e uccisi, la storia del serial killer che potrebbe tornare libero

Creato il 27 gennaio 2014 da Eldorado

Per quelli del paese dove era nato era Trivilín, il Pippo dei fumetti di Walt Disney. Magro, allampanato, con i pantaloni che sembravano cascargli da un momento all’altro, il passo incerto, lento, dovuto ad una malformazione al piede, Luis Alfredo Garavito era il remissivo peón che si prestava a qualsiasi lavoro. Un tipo dall’aria innocua, lento di comprendonio, che spariva spesso da Genova, cittadina del Quindío, per accettare lavoretti nella Colombia rurale. Nessuno avrebbe mai pensato a lui come al serial killer più letale dell’America Latina, uno spietato predatore sessuale capace di macchiarsi di quasi duecento delitti. Con quell’aria stranita e quel carattere schivo, l’avesse ammesso nessuno gli avrebbe creduto. Un’arma, quella, che gli serviva per adescare le vittime, per conquistarne la fiducia perché Garavito attaccava solo bambini e in special modo i bambini di strada, quella legione di diseredati di cui abbondano le strade non solo della Colombia ma di tutto il continente americano. 

La storia di violenze di Trivilín comincia negli anni Ottanta, ma è dal 1992 che gli inquirenti cominciano a rendersi conto di trovarsi di fronte ad un caso eccezionale. Il primo omicidio –documentato come tutti gli altri, perché Garavito terrà un diario dettagliato delle sue efferatezze- avviene in un paesino della valle del Cauca. Il posto si chiama Jamundi, poi tocca a Tebaida, Río Frío, Tunja, Florencia, Villavicencio e anche a Pereira, un grosso centro di mezzo milione di abitanti dove la polizia inizia a sospettare che la scomparsa e l’uccisione di ragazzini dagli 8 ai 14 anni, tutti ragazzi di strada e con segni di violenza sessuale, siano legati alla stessa matrice, all’operato di un gruppo. Le congetture sono varie: si parla di traffico di organi, di rete di prostituzione infantile, di satanismo, ma è ancora lontana l’idea che si possa trattare di un serial killer. In quei tempi, la figura dell’assassino seriale veniva percepita come una deviazione della società statunitense, che entrava nelle case attraverso i film di Hollywood.

Nella provincia di Risaralda, di cui Pereira è il capoluogo, affiorano dal 1993 al 1998 nove fosse comuni contenenti 42 scheletri di bambini. I giornali bacchettoni parlano di castigo divino piovuto a punire la dissolutezza della città, la cui gioventù in mancanza di opportunità affonda tra droga e prostituzione. Mancano le opportunità di lavoro e l’economia della città si dibatte in uno stantio commercio con i paesini della provincia e gli alti e bassi dettati dal prezzo internazionale del caffè. Ci sogno grandi fortune a Pereira, come quella dei Gaviria, ma anche grandi miserie. I bambini di strada sono i più esposti e sono la merce più ambita per i frequentatori delle decine e decine di bar e discoteche che fanno di Pereira “La città della notte”. Trivilín si ferma per mesi e ci si trova a proprio agio. La città è relativamente grande e tra le sue strade si può passare come a lui piace, da invisibile. Perché poi questa era la qualità di Trivilín, così peculiare nella terra del realismo magico: era invisibile. Altrimenti, non si spiega come per anni possa avere agito indisturbato, percorrendo la Colombia da nord a sud, violentando, uccidendo e sparendo nel nulla. La polizia, poi, conterà le città dove Garavito ha compiuto i suoi riti di violenze e di morte: cinquantuno. Trivilìn era invisibile; i bambini erano invisibili. Quando Luis Alfredo entrava in un bar a muoversi era un’ombra o un fantasma. Le persone non riuscivano a fissarselo in mente. Evanescente, insignificante, si muoveva impercettibile tra i tavolini. In strada, era la sua figura inoffensiva a proteggerlo: claudicante, quelle poche volte che gli rivolgevano la parola si inventava frate o mendicante, rappresentante di sconosciute istituzioni o infermiere. Chi gli si avvicinava si sentiva obbligato ad aiutarlo, ma come si aiuta uno sfortunato, un poveraccio: si cerca di dimenticarne in fretta il volto e le fattezze. Per i bambini era la stessa cosa. A renderli invisibili era l’indifferenza. Tutti uguali, quei volti imberbi: mocciosi che si guadagnavano la vita con l’elemosina altrui, che sopravvivevano con le monete che mani anonime, mani senza volto, offrivano loro.

Più volte Garavito violenterà ed ucciderà a Pereira.

Mentre la polizia crea le più disparate ipotesi, un medico forense, Carlos Hernán Herrera, che ha avuto la possibilità di studiare i resti delle vittime, detta una conclusione precisa ed invia la sua relazione alla direzione centrale della polizia a Bogotà. Dietro i massacri di Pereira c’è una sola mente assassina. Herrera ritiene di aver trovato il modello seguito dall’omicida: usa solo armi da taglio, ferisce le sue vittime sempre nelle stesse parti, le violenta e ne causa la morte attraverso un colpo finale alla gola, separando infine la testa dal resto del corpo.

Sono passati sei anni dal primo assassinio quando finalmente la polizia comincia a setacciare i profili di centinaia di persone implicate in violenze sessuali su bambini. Herrera, nel frattempo, ha un colpo di fortuna. Sul posto di un nuovo omicidio sono stati trovati gli indumenti dell’assassino. Qualcosa lo ha disturbato e così ha abbandonato in tutta fretta un paio di occhiali, un pettine, le scarpe e dei pantaloncini. Da questi pochi indizi, il forense può determinare alcuni dati che servono per tracciare un primo, sommario, identikit: il ricercato è un uomo di circa 1,65 di altezza, di complessione magra e, soprattutto, zoppo.

La segnalazione viene consegnata alla polizia, che trova almeno due persone, con precedenti penali per reati sessuali, che corrispondono alla descrizione presentata da Herrera. Uno dei due è Luis Alfredo Garavito, che era stato arrestato già una volta a Tunja. In questa cittadina era stato fermato perchè sospettato dello stupro e dell’uccisione di un ragazzino a cui erano stati tagliati la testa ed il pene. L’omicidio aveva scosso la comunità; ciò nonostante Trivilín era apparso ancora una volta come un inoffensivo forestiero che era finito in un guaio più grosso di lui. Per la sua scarcerazione si mobilita perfino l’ombudsman locale, che dimostra come non esistino prove sufficienti per mantenerlo in prigione. Garavito esce, ringrazia e se ne va per la sua strada, a compiere le sue crudeltà altrove. L’unico dato positivo è che, da questo momento, viene registrato ufficialmente negli archivi della polizia.

Sulla segnalazione di Herrera, gli agenti si presentano a casa di Garavito. È l’aprile 1998. Ad accoglierli c’è la sua convivente, una donna che cade dalle nuvole quando gli inquirenti presentano le accuse. Nella stanza dell’uomo, la polizia trova una quantità impressionante di agende con appunti di viaggio, biglietti di bus, ritagli di giornale, ricevute bancarie, note a piè di pagina.

“A Luis piace viaggiare” dice la ragazza, che si chiama Luz Mary.

“È un uomo buono, che non ha mai fatto male a nessuno” aggiunge.

Incredibilmente, dopo aver letto e studiato il materiale sequestrato, la polizia propende per l’altro sospettato. Gli sforzi per la cattura, quindi, si dirigono verso l’altra persona.

Nel giugno 1998 Luis Alfredo torna a casa, a Génova, la cittadina dove è nato. Situata nel cuore delle colline del Quindío, Génova è centro di raccolta e smercio del caffè. Qui, tutto ruota attorno a questa industria, le piantagioni danno lavoro a tutti, bambini compresi, che trascorrono lunghe giornate di lavoro piegati in due sotto il sole. I bambini lasciati soli nei campi, in queste condizioni, sono un bersaglio facile per chi ha cattive intenzioni. I terreni destinati al caffè sono sterminati e le cronache dei giornali sono piene delle storie di bimbi che vi si sono avventurati per non essere mai più visti con vita. È quello che succede a Génova. Dopo pochi giorni dal ritorno di Luis Alfredo all’ombra delle piante del caffè vengono trovati i corpi, con segni di tortura e smembrati, di tre ragazzini di 9, 12 e 13 anni. La gente si interroga sull’orrendo crimine e qualcuno lo collega con il ritorno in paese di Trivilín, dello zoppo. La notizia della perquisizione della casa da parte della polizia ha fatto il giro della provincia. Eppure, per gli inquirenti il triplice omicidio è opera dell’altro violentatore. L’identikit incompleto di Herrera salva Garavito, anche se il forense non è convinto: non c’è infatti coerenza sul peso. La persona prigioniera ha infatti una tendenza all’obesità, nulla a che vedere con il profilo indicato dal forense.

Luis Alfredo potrebbe davvero farla franca anche questa volta, ma a tradirlo è il suo stesso istinto a violentare ed uccidere. Il 22 aprile 1999 a Villavicencio è un pomeriggio di piena estate. Il caldo e la fatica, nonchè la voglia di fumarsi in tranquillità una canna, hanno portato Brand, un ragazzo di sedici anni, a prendersi una pausa dal suo faticoso lavoro di sfasciacarrozze. Ha cercato un posto appartato per non farsi sorprendere dal padrone, quando sente delle urla. Incuriosito si avvicina e vede un uomo chino su un ragazzino nudo, legato mani e piedi. Brand interviene e chiede all’uomo che cosa stia facendo. La risposta è sbrigativa: “Non è niente, stiamo giocando” e per dimostrarlo Luis Alfredo prende un coltello e taglia la fune che tiene stretti i piedi del ragazzino. Appena libero, John Iván (questo il suo nome) si mette a correre con quanto fiato ha in corpo, seguito da Brand. Corrono per almeno un chilometro a rotta di collo, finchè giungono alle prime case. Chi li accoglie non riesce a credere ai propri occhi, di vedere la scena di un ragazzino nudo con le mani legate nel mezzo della strada. È così che John Iván, di dodici anni, riesce a sfuggire alla morte, l’unica vittima che sia riuscita a beffare la la presa del mostro. A quelli che lo soccorrono racconta la sua incredibile storia, di come, mentre stava vendendo biglietti della lotteria nella piazza prinicipale, gli si era avvicinato un signore zoppo che, con la scusa di comprare un numero, lo aveva poi portato nei campi. Trivilín viene fermato mentre, approfittando della prima oscurità, cerca di evadere le domande di due poliziotti. John Iván è però con loro: “È lui” grida. Garavito si mostra compassato, insiste sull’errore di persona, cerca anche di persuadere il ragazzino che si sta sbagliando. Quando però la polizia gli chiede di aprire lo zaino che porta con sè, i dubbi si dissipano: c’è la fune, c’è il coltello, c’è anche il tubetto di vaselina che gli sarebbe servito per compiere la violenza sessuale.

Quando finisce in carcere lui nega ogni addebito. È sicuro di sè, sorpreso di quello che gli sta succedendo. Le telecamere nascoste che lo riprendono nella cella lo mostrano tranquillo. Quando lo portano davanti al giudice continua a recitare la parte dell’innocente: non sono io la persona che cercate. Il pubblico ministero presenta la sua relazione. Garavito deve rispondere della sparizione e l’uccisione di 118 bambini. Nega tutto, naturalmente. Rimane tranquillo sulla sedia, mezzo piegato, cercando una posizione adatta per ascoltare meglio quello che gli viene spiegato.

Infine, lo affronta un investigatore. Parla, Luis Alfredo, parla, sappiamo che c’è pena nel fondo del tuo cuore, sappiamo che nascondi il dolore. Sappiamo tutto, continua il commissario. Sappiamo il tuo vero nome, sappiamo in quali città sei stato, che cosa hai fatto, come abbordavi i ragazzini. Gli descrive come li conosceva, come conquistava la loro fiducia, come li portava in luoghi appartati e come li violentava ed uccideva. Luis Alfredo stringe un fazzoletto bianco ed ascolta come chi sta ascoltando la storia di un altro, ma quando il commissario gli parla della sua infanzia, di come era stato violentato da due ubriachi, l’uomo crolla. Piange, piange a dirotto, di un pianto lugubre che sembra provenire dal profondo del male, piange e confessa. Quando si calma, si rivolge al giudice. “Non ne ho uccisi 118” dice. “Ne ho uccisi molti di più” rivela ed estrae dal taschino una piccola agenda sdrucita. Sono 142 gli omicidi, tutti segnati per numero, luogo e data. La narrazione che segue dura sette ore e fa accapponare la pelle anche ai ben navigati giudici e poliziotti colombiani. Luis Alfredo racconta infatti i particolari del suo rito di assassino, ripetitivo, ossessivo. Trivilín abborda i bambini con una scusa: li invita a bere qualcosa, a controllare i numeri della lotteria, ad ascoltare insieme una canzone in un bar, li lusinga con la promessa di un lavoretto. Ad aiutarlo c’è il suo aspetto completamente innocuo, accentuato dalla camminata claudicante. Le vittime lo seguono, sono bambini di strada che non hanno nulla da perdere, abituati e, spesso, stregati dalle avventure. Luis Alfredo parla, possiede tanta fantasia e, mentre parla incanta i bambini come il flautista di Hamelin i ratti e li porta verso i campi della periferia dove li invita a bere e a fumare. Proprio quando sono più indifesi, storditi dal fumo e dal liquore, approfitta per legare loro mani e piedi. Stregati dal racconto, che è scivolato verso la descrizione di torture, violenze e morte, le vittime non sanno ancora che quello che di cui sta parlando Trivilín è la loro agonia. Dopo la violenza sessuale, il mostro non lascia loro nessuna speranza. Li accoltella poco sotto il cuore e poi procede ad un rituale che si ripete per ogni vittima, con i tagli sulle natiche, sulle mani e attorno alle costole, per poi recidere infine la testa della vittima ormai dissanguata. Ossessivo nel suo delirio, Trivelín aveva approntato anche un cimitero personale, nella periferia del grosso centro di Pereira dove, seguendo le sue indicazioni, la polizia rinviene i quarantadue cadaveri.

“È giunto un momento nella mia vita in cui ero annoiato dall’uccidere bambini: era troppo facile, troppo ripetitivo” dice quando si è tolto il peso di dosso.

“Però, era per me divenuto un dovere. Dovevo liberarli dal male”.

La sua storia è simile a quella delle sue vittime. Maggiore di sette fratelli viene presto seviziato dal padre, poi violentato da due vicini. Cerca di dimenticare, diventa alcolista ancora prima che maggiorenne. Quando lo mandano a studiare lontano da Génova, all’Istituto agricolo di Ceilan, nella valle del Cauca, viene di nuovo violentato ripetutamente. Luis Alfredo si rifugia ancora di più nell’alcool, cade in profonde depressioni, finchè si rende conto che solo rivivendo la sua drammatica esperienza riesce ad ottenere un poco di respiro. Violenta e tortura le sue piccole vittime ed infine le uccide perchè, in fondo, anche lui muore con loro ogni volta per liberare la sua anima dal peccato che gli ha macchiato l’intera vita. Uccide per poter morire ed invece rinasce, pronto a ripetere l’incubo ancora una volta. La condanna per Luis Alfredo è quella più severa che si possa comminare in Colombia: 24 anni di carcere. Intanto, appaiono altri cadaveri di bambini, uccisi con la stesso sistematico metodo di Trivelín, fino ad arrivare a più di 180 omicidi. Per mancanza di prove, però, non si può aprire un altro processo. Lui in galera studia. Si iscrive all’università e per ogni giorno di studio è uno in meno di carcere. Con la buona condotta riceve altri sconti di pena, Luis Alfredo Garavito potrebbe uscire dal carcere tra pochi mesi. Ha trovato Gesù Cristo, dice, e a chi gli chiede cosa farà una volta fuori non ha dubbi: il pastore di anime. Aprirà la sua chiesa e porterà il Vangelo per le strade della Colombia. La scorciatoia più semplice, in questa vita, per fare pace non solo con sè stessi, ma soprattutto con gli altri.


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