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Colonia penale.

Creato il 09 maggio 2011 da Enricobo2
Colonia penale.Vivere serenamente in comunità non è cosa facile e forse bisogna apprenderlo fin da bambini, diversamente o si assumono atteggiamenti di insofferente prepotenza oppure, in caso di carattere remissivo si subisce soffrendo in silenzio. Forse io ero un bambino troppo mammone, fatto sta che, quando in famiglia si decise che era bene farmi cambiare aria, per il mio benessere, si decise che sarei andato in colonia estiva a Limone Piemonte. Io, che non ero assolutamente convinto di questa necessità, pur avendo solo cinque anni tentai una sorta di resistenza passiva, assicurando che l'aria campestre di Valle San Bartolomeo, ferace borgo  a 5 km da Alessandria dove trascorrevamo le estati dai nonni, andava benissimo come sempre, ma non furono sentite ragioni e ai primi di luglio, munito di tutto punto, come da lettera del Dopolavoro Ferroviaria, tot di mutande, tot di calzini, ecc. munito di cappellino a campanula di ordinanza, fui messo sul treno che portava una dolente umanità di ragazzini col broncio verso il purgatorio del campo estivo.
Avevo solo cinque anni e appartenendo al fenotipo di bambino grassoccio (tanto per cambiare), le difficoltà di adattamento si mostrarono subito in tutta la loro tragica evidenza. Naturalmente non mi ricordo quasi più nulla. Come spiegano infatti gli psicologi comportamentali (ne conosco personalmente uno, anche se veterinario, ma la zuppa è la stessa) l'autodifesa della mente rimuove le esperienze negative o peggio le lascia nei meandri del subconscio a condizionare tutti i futuri disagi, ma probabilmente non ebbi vita facile. Abituato com'ero alle amorevoli cure materne di figlio unico, abbandonato alle distratte attenzioni di maestre ragazzine a cui quel periodo serviva da tirocinio per il futuro inserimento nella scuola e a donnoni montagnardi (queste me le ricordo benissimo) che si occupavano dei servizi, in pratica fui lasciato come gli altri in balia degli eventi. In questi casi, i più grandi e i più prepotenti la fanno da padrone e io penso mi rintanassi in un angolo del praticello con qualche altro reietto nelle ore d'aria. Naturalmente tra le attività imposte c'erano anche gite ai vari laghetti del circondario.
La triste fila indiana dei coscritti, al canto fioco del mazzolin di fiori, percorreva faticosamente i tratturi alpestri, aspettando soltanto il momento di abbandonarsi imbronciati sui massi spigolosi e puntuti tra le vette, dopo aver invano zigzagato tra i residui organici del bestiame al pascolo in cui finivano inevitabilmente i più piccini piangenti e disperati. Di certo da qui è nata la mia avversione viscerale per il trekking montano e le gite en plein air. Più o meno a metà del tormento era prevista una visita dei genitori ai detenuti. Ma se ricordo bene, questi venivano tenuti al di là del reticolato, anche se non c'era passaggio di corrente elettrica ad essere sinceri. La mia muta richiesta di essere salvato e quindi portato via dal lager rimase naturalmente inascoltata e, come da foto allegata, io sono il secondo da sinistra, naturalmente col panino in mano, rimasi muto e dolente a vedere i miei che si allontanavano irrimediabilmente nelle brume della valle con gli altri genitori, mentre noi, i prigionieri, rimanevamo come Papillon al di qua della rete metallica. L'anno dopo, con mio sommo giubilo rimasi a casa, ma non c'è dubbio, i segni dell'esperienza li porto ancora adesso.
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