(Movieplayer)
“Con sé questo mattino reca una lugubre pace; il sole, pel dolore, non vuole mostrare il suo volto; partiamoci di qua, per più dire di queste cose tristi; qualcuno sarà perdonato, e qualcuno punito: mai ci fu storia infatti più luttuosa di questa di Giulietta e Romeo”. E’ la chiusura, sulle parole del Principe di Verona, di una delle più famose tragedie di William Shakespeare, Romeo e Giulietta (The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet, 1594-1596): il bardo inglese, che fra le sue indubbie doti non possedeva certo quella della preveggenza, era ben lungi dall’immaginare come la cinematografia, hollywoodiana in particolare, si sarebbe impegnata nel tentativo di superare la soglia dell’afflizione delineata nell’opera citata, magari sostituendo al tema della rivalità fra due famiglie quello della disparità di classe con annesso male incurabile a scapito di uno dei due amanti. Il “superstite” lo ritrovavamo mesto ed afflitto a meditare su come “amare significa non dover mai dire mi dispiace” (Love Story, 1970, Arthur Hiller, sceneggiatura di Erich Segal, autore anche dell’omonimo romanzo).
Ansel Elgort e Shailene Woodley
All’interno di tale sottogenere (cancer movie) della commedia romantica propriamente detta, dovrebbe inserirsi anche il recente Colpa delle stelle* tratto dal bestseller di John Green (The Fault in Our Stars, 2012), ma il condizionale è d’obbligo, almeno a mio parere, perché la suddetta pellicola se ne distacca piacevolmente, evitando o mitigando accuratamente tanto il sentimentalismo ricattatorio quanto le varie didascalie di contorno affogate nella melassa, volte a suggerire lezioni morali neanche tanto velate.
Ovvio che dietro vi sia l’intento di sfruttare ulteriormente il successo del romanzo di Green, come d’altronde è reso evidente dal pressoché fedele lavoro di trasposizione messo in atto dagli sceneggiatori Scott Neustadter e Michael L. H. Weber, assecondato a sua volta dall’anodina regia di Josh Boone, strettamente di mestiere e spesso didascalica, volta essenzialmente alla visualizzazione della pagina scritta con qualche leziosità sparsa nel corso dell’iter narrativo (la grafica degli sms che si anima sullo schermo -un tempo si sarebbe ricorso allo split screen- o il plateale e roboante uso del rallenty per sottolineare il climax di una scena particolarmente drammatica).
Elgort e Woodley (Movieplayer)
Tale relativa ignavia registica, permette però, non è dato sapere quanto l’effetto sia voluto, di lasciare grande spazio ai due protagonisti principali, l’intensa Shailene Woodley (basta un suo sguardo o sorriso a dar senso e profondità ad ogni sequenza) nei panni di Hazel Grace Lancaster, sopravvissuta ad un cancro alla tiroide ed ora convivente con “una colonia satellite” ai polmoni, che la rende dipendente da una bombola di ossigeno, e l’altrettanto efficace Ansel Elgort ad interpretare Augustus, Gus, Waters, ex asso di pallacanestro al liceo, con una protesi in luogo della gamba che le metastasi gli hanno portato via, in attesa di prendersi tutto il resto. Mi è molto piaciuta la modalità assunta nel portare in scena una storia d’amore fra due adolescenti entrambi colpiti dal cancro, idonea a far sì che il tema della malattia non prenda mai il sopravvento: è qualcosa che Hazel e Gus conoscono bene, ma ambedue appaiono intenzionati a non accettarla supinamente, ricorrendo anche ad un sarcasmo a tinte forti, sospeso fra cinismo e disincanto, tanto nei confronti di se stessi che di quanti gli stanno vicino, valido succedaneo ad una quanto mai fatua speranza (non a caso l’integrazione all’interno del gruppo d’ascolto intitolato al “cuore di Gesù” cui i due prendono parte è del tutto di superficie).
(Movieplayer)
Convivono quindi nella consapevolezza delle conseguenze che il male porterà nelle loro vite al momento attuale e una volta morti, paventando al riguardo paure diverse: per Hazel è rappresentata da quello che lei definisce “effetto granata”, ovvero quanto inciderà la sua dipartita sulla vita dei genitori o di coloro cui vuole bene, ecco perché il suo modus vivendi appare improntato a “minimizzare le vittime”, nell’intenzione di mantenersi distante da possibili coinvolgimenti emotivi, mentre Gus teme l’oblio, la dimenticanza assoluta una volta che non ci sarà più.
In fondo desiderano la stessa cosa, dare un possibile seguito a quanto loro è legato, al proprio mondo, evitare una brusca interruzione, una sorta di ponte verso il nulla, come avviene alla protagonista, anch’essa malata di cancro, del libro che Hazel legge continuamente, An Imperial Affliction , opera dello scrittore Peter Van Houten (Willem Dafoe) che i due avranno modo d’incontrare nel suo buon ritiro ad Amsterdam. Ad unirli definitivamente sarà il prendere coscienza, e conseguente accettazione, di come il loro personale “per sempre” (sostituito da un reciproco okay) possa essere validamente compreso dentro “un numero finito”, costituito da un piccolo insieme di giorni.
(Movieplayer)
Sì, “vi sono vari modi di raccontare una storia triste” per riprendere le parole di Hazel e Colpa delle stelle lo fa con un certo riserbo, non cerca il facile pietismo o la condivisione volta all’immedesimazione, riporta il dolore nell’alveo di una possibile convivenza con esso, approfittando di ogni attimo “per succhiare il midollo della vita” (Robin Williams/John Keating ne L’attimo fuggente, Dead Poets Society, Peter Weir, 1989) così da non esserne sopraffatti, come succede allo scrittore Van Houten, cui Dafoe offre una rappresentazione fisica diversa dal bolso omonimo del romanzo, forse un po’ da catalogo nell’interpretare il “maledetto con un motivo”, ma che alla fine costituirà opportuno trait d’union fra le varie vicende. La suddetta regia del tutto aderente al testo, tanto da riportarne i dialoghi senza alcuna mediazione cinematografica, incline poi ad assecondare alcuni stilemi propri di un teen drama televisivo (uno su tutti, l’uso coreografico delle musiche), farà storcere il naso a molti “addetti ai lavori”, ma sicuramente non al pubblico d’elezione cui il film è essenzialmente rivolto, per quanto l’evidente tono realista, la delicatezza del tocco (esemplare al riguardo la sequenza della “prima volta” fra Hazel e Gus, tra impacci e timori), l’ineluttabilità sapientemente ammantata d’ironia e l’alone di “sano” romanticismo, potrebbero scalfire il duro cuore di molti adulti, che, forse, faranno fatica a trattenere qualche lacrimuccia. Okay…
*(…) Se la ragazza stesse meglio o lei fosse più ammalato, allora le stelle non sarebbero così terribilmente avverse, ma è nella natura delle stelle essere avverse, e Shakespeare non si è mai sbagliato tanto come quando fece dire a Cassio “La colpa caro Bruto non è nelle nostre stelle ma in noi stessi”. Facile a dirsi quando si è un romano patrizio (o Shakespeare!), ma c’è invece colpa in abbondanza da trovare nelle nostre stelle. (…) (Lo scrittore Van Houten, estratto dal capitolo sette del romanzo Colpa delle stelle, John Green, Ed. it. Rizzoli)