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Com’è la vita in Giappone? Lo vorrei tanto sapere…

Creato il 30 dicembre 2015 da Nebbiadilondra @nebbiadilondra

Oggi sono stata in Giappone. Beh, non proprio in Giappone. Ho lavorato nella sala dedicata all’arte giapponese, la Toshiba Gallery che ha riaperto al pubblico da poche settimane, dopo una chiusura durata sei mesi per rinnovamento. Woman at Mirror from Edo Beauties by Kikukawa Eizan (early 19th century). Photograph: © Victoria and Albert Museum

Non l’avrei mai pensato, ma da quando, qualche anno fa, nella mia vita è entrata la mia collega giapponese di Tokio, mi è salita un’incredibile curiosità per questo incredibile paese. Ed ora quella del Giappone è una delle mie sale preferite nell’intero museo. Siamo diventate amiche, io e la mia collega. D’altra parte abbiamo la stessa età e lei come me è cresciuta con Heidi, Candy Candy e Il Grande Mazinga. Le chiedo se li conosce. Mi dice che li conosce e che si chiamano Manga. E mi sembra incredibile che nello stesso momento, in due punti diversi del pianeta due bambine di sette anni stavano guardando Goldrake. Potere della globalizzazione… Ma a parte Goldrake e Candy Candy, qualche film di guerra americano in cui i kamikaze giapponesi bombardavano Pearl Harbour e i Sette Samurai di Kurosawa che non ho mai guardato fino alla fine addormentandomi sempre prima (ok: chi lo ha fatto DAVVERO, guardare la fine di quel film??) il Giappone è sempre stato per me un universo sconosciuto.

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Samurai suit of armour, c1800. Victoria and Albert Museum, London

Un’universo che, ad essere onesti, non mi hai mai particolarmente incuriosito (Giappone= Panasonic, Honda, Fuji) innamorata come sono sempre stata del Sud America, io (Sud America=Inca, Machu Picchu, Ande). E contro tale mancanza di curiosità a nulla era servito neppure la lettura di quel capolavoro della letteratura di viaggio che è In Asia del meraviglioso Tiziano Terzani. Ma sto cercando di recuperare il tempo perduto perlopiú leggendo a tappeto tutto quello di Haruki Murakami che mi capita sotto mano, abbuffandomi di Sushi con la mia mica giapponese ad ogni possibile occasione. Mi incanta sentirla ordinare in quella sua lingua così dura ed espressiva, piena di inchini e piccole riverenze. Mi incanta vederla padroneggiare le bacchette come se fossero estensioni delle sue mani – io che non chiedo una forchetta per puro orgoglio. Come molti connazionali abituati come siamo ad una cucina tra le migliori al mondo, ho sempre avuto seri pregiudizi sul pesce crudo e ho dovuto attendere i miei primi quarant’anni per poter cambiare idea. Ti senti rigenerato, con ogni boccone ti senti più in salute, con lo Jing e lo Yang riequilibrati. Ti senti quasi più buono… Ma a parte il sapore, forse quello che mi piace del sushi è la sua bellezza, l’equilibrio di forme e colori, l’eleganza della sua semplicità. Ogni piatto è un piccolo capolavoro di armonia che si deve magiare con la dovuta reverenza. E quando avrò imparato ad usare bene i bastoncini, conto di farlo anch’io…

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Fortunatamente il rinnovamento della Toshiba Gallery non ha fatto scomparire dalle teche vecchie conoscenze come le armature da Samurai e le Katana, le elegantissime quanto letali lunghe spade ricurve dalle magnifiche impugnature e dalle lame così taglienti che (mi si dice) i restauratori sono stati addestrati nel combattimento da uno dei curatori del dipartimento del Sud est asiatico. Non mancano poi le bellissime scatole di legno laccate e i meravigliosi netsuke, le piccole sculture in legno o avorio che si usavano come contrappeso per i contenitori porta monete, porta tabacco, porta spezie che i giapponesi si portavano appesi alla cintura con una corda per evitare che scivolassero via, visto che i kimono non avevano le tasche. Queste piccole sculture mi hanno sempre affascinato, ma da quando ho letto il libro di Edmund de Waal Un’eredità di avorio e ambra desidero ardentemente possederne uno…

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Carved wood netsuke in the form of a curled rat, 1850-1900. Victoria and Albert Museum, London

Ma ci sono anche altre novità che raccontano l’evolversi storico e sociale di questo enigmatico Paese, dalle solite radio, aspirapolveri, calcolatrici all’immancabile Sony Walkman (anch’io ne avevo uno negli anni Ottanta, quando esser cool era davvero faticoso) ad una pentola per cuocere il riso rosa confetto di Hello Kitty.

Devo dire però che il mio preferito, per la sua bizzarra giapponesità, è un manichino che indossa uno dei nuovi outfit stile “Lolita”, un abito rosa e azzurro, tutto pizzi e volant del marchio Baby, The Stars Shine Bright che dal 1988 crea moda ispirata alla storia di Alice nel Paese delle meraviglie. Il mio primo incontro con questa corrente di abbigliamento è avvenuta nel 2011 quando, proprio nella stessa sala del Giappone il dipartimento del Sud Est asiatico aveva allestito una piccola mostra dal titolo Kitty and the Bulldog che esplorava i collegamenti tra la street style inglese e quella giapponese. Ma attenzione! Che se nel mondo occidentale il termine Lolita ha indibbie connotazioni sessuali  per via del (bellissimo) libro di Vladimir Nabokov, nella cultura giapponese essere kawaii ha davvero poco a che fare con il fascino e il sex appeal e molto invece con l’essere carina e modesta – una reazione alla sessualizzazione delle donne nella cultura giapponese. Per questo chiamarla moda è inesatto, che essere una Lolita non è solo un modo di vestire, ma una vera e propria filosofia di vita che comporta assomigliare ad una bambola di porcellana vittoriana o rococò, con cerchietti con il fiocco, zainetti a forma di animaletto, spillette, ombrellini di pizzo, baschi, ogni genere di gadget alla saccarina e con capelli sono spesso acconciati in boccoli o codini.

Sweet Lolita outfit, Japan, 21st century. Photograph: Victoria and Albert Museum, London

Sweet Lolita outfit, Japan, 21st century. Photograph: Victoria and Albert Museum, London

Ma la mia amica mi racconta che la metropolitana di Tokio impiega personale specializzato per spingere ben benino i pendolari all’interno dei vagoni (‘Studenti…’ mi spiega allegra, fosse la cosa più normale del mondo) per evitare ritardi alle chiusure delle porte di un sistema di trasporto tra i più efficienti del mondo, la guardo con gli occhi sgranati, che a Bologna non c’è neppure la metropolitana, figuriamoci i pigiatori-di-persone. Aurea mediocritas diceva Orazio. Chi troppo chi troppo poco (sto pensando all’Italia…). E comincio a capire perché anche la mia collega se n’è andata. Che a volte anche troppa efficienza può dare ai nervi…

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Train pusher at the Yamanote line, Tokio

 



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