Mi sono sempre tenuta lontana dalle
lotte e dalle smanie di potere. Quando le vedevo - sul lavoro - provavo
sofferenza e vergogna per chi le praticava, per chi sgomitava, per chi
cercava di vincere e 'prendere tutto': io piuttosto me ne stavo fuori e osservavo, o
davo informazioni agli altri anche contro il mio interesse personale. Dove questo "non trattenere per me" non significava per forza che fossi generosa, caritatevole, ingenua - piuttosto ho sempre oscillato tra l'idea karmica del bene che ti viene restituito dopo un giro lungo e il bieco menefreghismo per cui so che alla fine il sistema è omeostatico indipendentemente dalle mie azioni - ergo Ei Ja Nai Ka! (ええじゃないか).
Lo stesso quando mi trovo in situazione d'amante, perché anche qui, di fatto,
se uno mi prende in quel ruolo già lo vedo come un poveretto cui mi sto
concedendo nella speranza d'una sua evoluzione mentale ed emotiva, e
quindi l'ipotesi di competizione con un'altra donna - che guarda caso è
sempre brutta dentro e fuori, mediocre, di cuore misero da far
raccapriccio - per quel modesto trofeo mi fa parimenti cadere le
braccia. La mia lotta, in questo caso come in qualsiasi altro, è piuttosto
per far aprire gli occhi ai miei interlocutori, ed è il fallire in
questo che mi fa molto male.
Oggi ripenso all'affermazione di un mio amato ex fidanzato (che probabilmente è la persona più
acuta con cui ho avuto la fortuna di entrare in contatto nella vita) a commento di questo mio atteggiamento: "combattere per il potere è da perdenti - i vincenti non ne hanno bisogno: lo esercitano e basta".
Ovvero ciò che io sono, e continuo ad essere, è la dimostrazione che tanti altri (che pur ancora respirano) hanno già perso. E per quanto non ami il pensiero di lasciar indietro nessuno, non posso continuare a trainare un carro con gli occupanti che mi chiedono di farlo mentre lo tengono frenato.