di Iannozzi Giuseppe
“Respirare”, questo è il trucco. Quando sei fatto di qualcosa, l’importante è ricordarsi di respirare, perché se te lo dimentichi, amico, sei fottuto.
Davanti all’Ospedale ci stava un suo amico infermiere: era lui a passargli la roba, l’uomo col tamburello… in cambio chiedeva solo che gli staccasse un pompino. Stava bene al mio amico fatto e all’infermiere suo amico. Non era brutto, il mio amico, semplicemente non ci sapeva fare con le donne e staccare pompini non gli creava problemi, anche se l’incapacità di provarci con le donne si traduceva in manifestazione di generale indifferenza da parte degli altri nei suoi confronti. Morrison lo chiamavamo noi.
Ma meglio è raccontare dall’inizio per arrivare alla fine. Si era imberbi, o quasi, e Jim, Re Lucertola, era un mito ed era tornato di moda e noi lo si imitava come potevamo con i nostri pochi mezzi rubati alla povertà. Ma i soldi per uno spino ce li avevamo sempre, in un modo o nell’altro. Poi, Morrison, il più giovane e il più sensibile e il più intelligente di noi, si è spinto oltre: lo spinello non era abbastanza, voleva di più, e questo di più era l’ero. Non l’aveva mai provata, ma a sentir lui sembrava che tutti ne dicessero un gran bene, ma noi non ci fidavamo, perché sapevamo che Morrison banfava, che aveva parlato con un paio di tossicomani all’osso prossimi a tirar le cuoia su una qualche desolata panchina di un qualche anonimo parco con tanto di statua innalzata in onore del solito Milite Ignoto. Morrison diceva e diceva che quei due morti-in-piedi sapevano il fatto loro, ma noi non gli davamo retta, o quasi. Viveva in noi l’illusione che Morrison fosse troppo intelligente per cascare nella trappola della droga pesante. E così abbiamo ignorato la sua richiesta, quel suo grido d’aiuto in bilico fra il niente e un altro niente e in mezzo un burrone a precipizio lungo quanto l’Infinito. Quando ci accorgemmo che Morrison era fuori di melone e smagrito come una fotomodella anoressica, temo fosse già troppo tardi, ma noi ci provammo lo stesso a convincerlo, a farlo tornare indietro. Sapevamo che Jim aveva deposto lo scettro e che ora un pelatone del cazzo si era fatto avanti parlando di “Quelli di Trainspotting”. Non era male il pelatone, sapeva scrivere alla cazzo, e raccontava una sorta di storia stile “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, ma con la differenza che si era in pieni anni Novanta, e Douglas Coupland, in un angolo remoto dell’immensa America, tesseva la sua preghiera per Kurt Cobain suicida insieme a centinaia, migliaia di giovani spiriti sparsi dentro al mondo. Il povero grande Kurt si era dato la morte perché lo stomaco continuava a dolergli, perché la moglie non voleva scopare, perché il mondo era un alieno ignobile che succhiava la musica e le parole, e lui avrebbe voluto che una suora misericordiosa venisse e gli cantasse una preghiera lieve con la voce di rasoio di Leonard Cohen. Profumo. La morte ha un suo profumo particolare. Il cadavere puzza prima che sia sottoterra. I cadaveri, almeno alcuni, camminano ancora un po’ prima di cadere a terra per non rialzarsi mai più. Morrison sapeva d’essere “Un morto che cammina”, uno Zombie (in)volontario, Dead Man Walking, perché colpevole d’aver ceduto, ma la sua colpevolezza era anche la nostra che non l’ascoltammo quand’era il momento giusto. Adesso, noi sapevamo che Morrison, un giorno non lontano, si sarebbe seduto su una panchina per prendersi il tempo di morire. Noi sapevamo e non potevamo più farci niente. Aveva provato pure con il metadone, ma era stato inutile. Sapeva solo ingollare ogni sostanza allucinogena, ogni fottuta droga, non c’era niente che non avesse provato. L’ecstasy fu la sua ultima scoperta, ma non gli fece poi troppo male, perché il cervello doveva avercelo in pappa già da un fracco di tempo. Si era fatto gli ultimi sette anni a farsi di tutte le droghe presenti a questo mondo, e gli studi universitari erano marciti, diventati sanie addosso a un Gesù Cristo inchiovato sulla croce, tradotto giù a terra e obbligato dalla droga nelle vene a camminare nonostante desiderasse solo un sepolcro e una Resurrezione investita di leggenda. Quando Morrison scomparve per più di due settimane, capimmo che era andato, che se non era morto era al limite. Lo trovammo in soffitta, un corpo mummificato, due settimane di stagionatura, e il volto era lo stesso, disperatamente giallo, ossuto, quello del tipico drogato, e solo i capelli erano stopposi color topo. Alla fine aveva dimenticato la prima regola: “Ricordarsi di respirare sempre e comunque, in ogni caso, anche quando polmoni e bronchi sono una fossa scavata sotto lo sterno, sotto la costola che Dio strappò ad Adamo per creare la compagna Eva.”
Morrison probabilmente morì vergine, perché staccare pompini a un uomo non è proprio il massimo di niente. Morì così, e nessuno pianse, nemmeno sua madre. Non ho mai visto Morrison piangere o spararsi una sega, non l’ho mai sentito dire “Che bel culo c’ha quella!” o “Quanto è figa!”… in camera sua solo immagini di Morrison, Cobain e Sex Pistols. E’ un brutto modo di andarsene, senza neanche spararsi l’ultima sega, ma solo l’ultima dose ferale. No, Morrison non ha mai versato una lacrima. Mai una. Neanche quando è morto in solitudine. Il suo diario era niente, un lungo calendario di appuntamenti con la morte, un totale disordine: questa è la sola eredità di Morrison, che quando era giovane e innocente giocava con me a nascondino e voleva sapere il nome di tutti i fiori e poi li sniffava per ricordarseli bene, proprio bene. E questa è forse la fine di qualcosa. Dell’Innocenza.