Non saper rimediare a un errore è cosa peggiore dell’errore stesso.
Lo scriveva Baltasar Gracián y Morales nel 1647. Nessuna invenzione, dunque, quella sull’importanza del correggere gli errori. La letteratura è piena zeppa di citazioni che ci ricordano quanto sbagliare sia umano, ma perseverare addirittura diabolico.
Nel lavoro, le cose andate male, spesso non sono nemmeno errori. Cambia il contesto, si presentano imprevisti, e ciò che era stato pianificato non funziona. Accade spesso e se non accadesse sarebbe da preoccuparsi, perché significherebbe che non si avanza, che siccome tutto è andato bene, tutto rimane invariato. In un certo senso, nella mia esperienza, gli errori o i problemi o gli intoppi o le cose andate male sono sempre un segnale che qualcosa si muove, sono una nuova opportunità, sono un aggancio per innovare e per crescere.
Per questo motivo affronto il de-briefing nel mio mestiere con entusiasmo, perché esso offre davvero un’occasione di cambiamento e di crescita.
Il calendario annuale
Prendo ad esempio la Coppa del Mondo di Sci in Val Gardena. Finito l’evento, dopo delle meritate vacanze per tutta la squadra, parte la macchina dell’analisi.
Come funziona? La Coppa del Mondo ha luogo da 46 anni ogni anno a dicembre. Il calendario delle macro-attività è regolato in modo abbastanza rigoroso:
- gennaio e marzo > analisi
- da aprile a luglio > pianificazione e fattibilità
- da settembre > implementazione.
La squadra non è coinvolta totalmente in tutte le fasi, anche perché – ad esclusione di 2 persone presenti tutto l’anno – gli altri (circa 10 responsabili delle diverse funzioni) si mettono a disposizione della manifestazione, ma nella vita fanno altro e dunque non è possibile averli sempre “sul pezzo”, né francamente è necessario.
Cacciare gli errori è innaturale
È curioso che occuparsi dell’analisi post evento non è una cosa naturale. Naturale è piuttosto partire subito con nuovi progetti per il futuro. Sono frequenti le frasi del tipo: “il prossimo anno facciamo questa cosa qui” oppure “la prossima volta aggiungiamo anche questo servizio” o ancora “per la prossima edizione chiamiamo anche tizio …”.
È naturale perché con la testa siamo già tutti là, alla manifestazione dalla quale siamo appena usciti. Perché siamo ancora pervasi da quell’adrenalina che ci tiene dentro, siamo ancora troppo carichi per osservarci da fuori. Per questo motivo è importante che ci sia una regia del de-briefing, e che questa regia sia severa. Ai miei collaboratori consiglio sempre di scriversi tutte le idee per il futuro su un post-it e di cacciare i biglietti in una vecchia scatole di scarpe. E di svuotarla, poi, solo dopo che le analisi saranno terminate. Si scoprirà che molti biglietti sono obsoleti, altri invece saranno utilissimi per correggere errori o problemi analizzati. Altri ancora saranno materia per un futuro più lontano.
Devo però confessare che io “non sono nata imparata” e che questo delicato processo l’ho acquisito negli anni, modificandolo in una sorta di meta-analisi: l’analisi del processo di analisi.
La mia storia del processo di analisi
All’inizio inizio, infatti, non facevo nemmeno l’analisi, e partivo subito dalla fase 2: pianificazione. L’esito a lungo andare è stato negativo, perché pianificavo con un deficit di informazioni, che creava – in fase esecutiva – corto circuiti e incomprensioni.
Cosi ho imparato a gestire i de-briefing e a inserirli in modo chiaro dentro un calendario annuale delle attività. Convocavo una riunione con tutti i capi funzione e ognuno doveva raccontare cosa non aveva funzionato. Altro errore, perché:
- unire tutti i settori impedisce di entrare nel dettaglio del singolo (e fare riunioni con gente che si annoia è tempo buttato via)
- le persone, in pubblico, preferiscono non raccontare i problemi avuti, per un misto di vergogna e orgoglio
Da alcuni anni ho trovato una formula che per ora mi pare funzioni molto bene:
- incontro singolarmente i capi settore in modo da poter entrare nelle pieghe dei dettagli e poter discutere – senza timore – di eventuali criticità vissute,
- insieme ai capi settori, spesso, incontro anche i collaboratori più stretti. Chi lavora al “front desk” si confronta con la vita vera dell’evento, raccoglie umori, disagi sulla propria pelle che non sempre vengono “passati” al capo,
- se la “frizione” avviene nel contatto fra più settori (cosa plausibile, perché le funzioni sono solo parti dello stesso organismo), organizzo in un secondo tempo un incontro inter-settoriale.
L’errore va ascoltato
Tutto questo occupa molto tempo e ci vuole molta lucidità e, alla base di tutto, una sincera capacità di ascolto. La negatività, che da un problema può svilupparsi, va ascoltata e va compresa e va contestualizzata. E dentro questa comprensione ci vuole anche un occhio severo con sé stessi. Dedicare, inoltre, tempo alle persone è ancor più necessario in un’organizzazione non profit che non lavora con dipendenti, ma con collaboratori volontari. Alla Coppa del Mondo in Val Gardena arriviamo ad essere 800 persone in azione durante l’evento. Naturalmente non le ascolto tutte, ma potete immaginare quanti feed-back possono arrivare da questo piccolo esercito.
Questo è il lavoro che mi terrà occupata nei prossimi mesi. E anche se a naso, conosco già alcune criticità, io per prima dovrò essere serena e ben disposta. Mettere da parte il mio orgoglio di montagna e ascoltare. Perché inizia così, realmente, la pianificazione di un evento. Dalla sua storia recente. Dai suoi errori.
> Nel prossimo post racconterò quali sono le domande più importanti nella caccia all’errore. Stay tuned!
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Immagine: Illustrazione di Tang Yau Hoong