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Come distinguere il piccolo editore dall’editore che è solo “nuovo”

Creato il 09 gennaio 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Quando parlo di piccoli editori, e in particolare quando dico che Autodafé è una piccola casa editrice, so di espormi al rischio del fraintendimento. Cosa che mi viene puntualmente confermata da alcune reazioni e commenti, anche privati, che mi giungono quando parlo delle potenzialità e delle capacità di investimento di un piccolo editore. Troppo spesso, infatti, capita che Autodafé vega “potenzialmente” paragonata a case editrici che piccole non sono affatto, o che lo sono soltanto transitoriamente. E, perciò, credo sia il caso di fare un po’ di chiarezza.
L’equivoco più recente riguarda la confusione tra piccolo editore e nuovo editore. Una casa editrice non è un essere umano, non è destinata a un’inevitabile crescita e a un successivo invecchiamento, più o meno felici: si può nascere piccoli e restare tali, così come si può nascere con l’ambizione di essere fin da subito dei medi editori e di aspirare a un ruolo ancor più importante. Certo, non si può nascere colossi, così come è vero che un processo di crescita è comunque nell’ordine naturale delle cose. Ma può essere un processo minimo, che in ogni caso non sposta dall’ambito dimensionale in cui si è scelto di giocare la propria esistenza.
Bisogna quindi evitare di confondere il piccolo editore con il “nuovo” editore. Ci sono su piazza piccoli editori che hanno decenni di attività alle spalle, che si barcamenano in un’oculata gestione senza correre rischi inutili. Così come tra gli editori che nascono ogni anno ve ne sono di ambiziosi o di ambiziosissimi, che mettono subito sul tappeto risorse in grado di far decollare il nuovo marchio verso una dimensione tutt’altro che marginale (e, fin da subito, anche le strutture organizzative sono pensate di conseguenza).
Per non cadere nell’equivoco non bisogna essere degli indovini né conoscere chissà quali torbidi retroscena. Basta essere dei buoni dietrologi, nel senso nobile del termine (che, comunque, è termine nobile: infatti chi viene accusato di dietrologia è di solito uno che non si accontenta della verità di comodo fornita dal potere ma vuol controllare e ragionare di persona) e utilizzare i normalissimi mezzi di informazione oggi disponibili, a cominciare dalla rete. Diventa allora facile scoprire che dietro la grande visibilità di una casa editrice giovane e già famosa ci sono magari i denari e le relazioni del Tale (o dei Tali) che da decenni hanno un ruolo importante nell’editoria e/o nella finanza e che da qualche mese si sono costruiti un nuovo giocattolo. Nulla di male, intendiamoci: ma si tratta di nuove case editrici che puntano a ritagliarsi un ruolo tutt’altro che marginale, hanno mezzi notevoli, una solida rete relazionale ed entrature garantite, come si scopre guardando le biografie degli amministratori. Sono, in tal senso, totalmente altro rispetto al piccolo editore.
Il piccolo editore non nasce con l’ambizione di condurre una stentata e marginale esistenza, ma ha la consapevolezza di non poter compiere il passo più lungo della gamba. Le sue caratteristiche sono la scarsa disponibilità di risorse finanziarie e la limitata possibilità di mettere in campo relazioni (o, comunque, una rete di relazioni in grado di indirizzare e consigliare, ma non di sponsorizzare e promuovere), compensate dalla ricchezza di professionalità e dalla buona conoscenza del settore (il lavoro, infatti, è la vera forma di investimento che un piccolo editore può permettersi). Peraltro, quest’ultimo elemento non si declina in egual modo per tutti i piccoli editori: c’è chi ha magari una buona conoscenza e pratica del mondo della distribuzione, chi proviene dalla promozione e dalla comunicazione, chi (come nel nostro caso) lavora da sempre nel settore redazionale e nella realizzazione del prodotto.
Proprio per questo, insisto nel sostenere che il mondo della piccola editoria potrà fare, nel suo insieme, un vero salto di qualità solo se saprà unire le forze. Non in senso sindacale o corporativo, esprimendo rivendicazioni unitarie, ma attivando iniziative concrete capaci di convogliare più soggetti, diversi per competenze e storia, attorno a progetti condivisi. Le differenti professionalità, oltre alla diversificazione nei contenuti e nei generi, mi portano sempre più a considerare gli altri piccoli editori (o almeno alcuni di essi) non come i diretti competitori cui contendere la stessa fetta di mercato ma come potenziali partner per allargare questa stessa fetta, per accedervi con maggiore facilità e per offrire un’alternativa alla proposta dei grandi gruppi. Si tratta di operazione non facile ma necessaria, come mi è già capitato di sostenere. Certo, nel perseguire questa via, il primo errore da non commettere è quello di fraintendere le analogie e le differenze, le convergenze di interessi e le finalità contrapposte.


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