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Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta - David Lipsky

Creato il 29 febbraio 2012 da Alboino
Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta - David Lipsky
Dopo più di tre anni dalla scomparsa del grande scrittore americano, approda nelle librerie “Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta”, la lunga intervista che lo scrittore concesse a David Lipsky nell’ormai lontano 1996 all’indomani dell’uscita del capolavoro “Infinite Jest”. Molti probabilmente si chiederanno se fosse necessaria la pubblicazione di un libro-intervista di oltre 400 pagine soprattutto dopo il suicidio di Foster Wallace quando lo si è vivisezionato per intero. Ebbene sì, di questo testo ce n’era bisogno e non solo per i cultori del “mito” Wallace, ma soprattutto per chi coltiva velleità di diventare un giorno uno scrittore. Il libro dipinge un ampio ritratto dello scrittore che per diversi giorni fu seguito ventiquattro ore su ventiquattro da un altro scrittore: David Lipsky e ci offre una intimità quasi imbarazzante in modo che il lettore ha la possibilità di conoscere un inedito Wallace fuori dagli schemi del “personaggio” e questo per uno come lui che non ha mai nascosto la difficoltà a esibirsi pubblicamente è già un grosso risultato. Il libro diventa allora una piccola-grande perla capace di dar voce a uno dei più rivoluzionari scrittori della nostra epoca.
Un Wallace che si impegna a fondo in questa lunga conversazione permeato da un desiderio più o meno nascosto di raccontarsi in maniera perfetta; nascono così analisi e giudizi, commenti e riflessioni sul quotidiano che i due affrontano mentre viaggiano in macchina, nelle tavole calde, ai reading per la presentazione di “Infinite Jest”, in aereo e soprattutto a casa. Scopriamo così i gusti di Wallace in campo cinematografico (Woody Allen non gli piace, Tarantino “è un cazzone totale”, Bruce Willis “mi ha sempre avuto in pugno”, Spielberg il rappresentante del processo hollywoodiano, David Lynch: un genio, “con il suo Velluto Blu mi ha salvato dall’abbandonare gli studi e forse anche dal mollare la carriera di scrittore”. Passa poi a raccontare degli scrittori: Stephen King con “una sensibilità quasi salingeriana per i bambini”, Updike, Breat Eston Ellis che “ha scritto cose bellissime” e tanti altri ancora. Ma non sono solo i giudizi di Wallace a tenerci legati a questo libro, c’è soprattutto la capacità dello scrittore di riflettere sulla letteratura, sulla televisione e il mondo dell’intrattenimento in generale, sulle dipendenze: “qualsiasi dipendenza”. Ci sono poi le discussioni fra due uomini che sono scrittori dei giorni nostri sul vizio dello sperimentalismo, sull’importanza del realismo, sui riferimenti alla cultura pop di cui Wallace non può fare a meno nonostante i professori insegnano ad evitarla perché banale.
Eppure detto ciò il filo rosso di questo libro è altrove, è nel rapporto tra vanità e autenticità; ed è su questo tema che incalzato dalle domande di Lipsky, Wallace riesce a dare il meglio di sé con risposte interessanti che ci fanno capire l’animo profondo e ciò che avverrà nel suo futuro. Un flusso di coscienza su quali punti deboli mostra la sua auto rappresentazione in cui si evidenzia lo straniamento generato dall’essere diviso tra il piacere inconfessabile di avere successo e la consapevolezza che il successo sia qualcosa di tossico per la scrittura e per se stesso. Nasce da questa dualità la difficoltà di Wallace di sentirsi a proprio agio nel sistema dell’editoria, delle feste e nei rapporti con gli intellettuali: fa di tutto per mostrarsi un elemento solitario che vive di solitudine e da cui può nascere il capolavoro esclusivo. Ed è proprio da questa lunga riflessione che nasce il titolo del libro “Come diventare se stessi”: riuscire a coniugare ambizioni, vanità e desiderio di riconoscimento con l’onestà e l’autenticità a cui secondo Wallace bisogna restare fedeli.
Da qui si intuisce ciò che sarebbe poi successo e in fondo per chi conosce la storia di David Foster Wallace ritrova tutta l’evoluzione della malattia, la depressione, che svuotò lo scrittore in un’angosciante storia di fallimenti clinici, con il disperato e disperante tentativo dello stesso di raggiungere se non la felicità almeno il benessere. In questo tentativo troviamo tutto il Wallace più puro con la continua tensione a rifiutare esperienze che hanno portato un dolore indicibile e il desiderio, invece, di costruirsi, preservarsi, puntare in tutto e per tutto alla propria autenticità: una autenticità che fa di questa intervista biografia la propria ragion d’essere.            

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