Le recenti elezioni hanno rimarcato un evidente cambiamento delle modalità di confronto tra le forze politiche in Italia.
BREVE CENNO SULLA SITUAZIONE POLITICA
Nel centrosinistra, a un gruppo dirigente predisposto ad incassare passivamente i colpi, a preservare uno zoccolo duro di elettorato sempre più risicato ne è subentrato uno, dopo l’esperienza algida e distruttiva dei due governi tecnici e di emergenza nazionale di Monti e Letta, capace di offrire una prospettiva al paese, di attuare un radicale cambiamento della classe dirigente impegnata sullo scenario politico, di prospettare un programma articolato di riforme e riorganizzazione. La remissività e la promozione de “l’usato sicuro” ha ceduto il posto ad un atteggiamento decisamente più aggressivo e propositivo che ha portato in dote allo zoccolo duro tradizionale, ampiamente trattenuto nel proprio grembo, una buona quota di elettorato del centrodestra transitato temporaneamente nella Scelta Civica di Mario Monti oppure, più marginalmente, passato direttamente al “rottamatore”, nonché un parziale recupero di elettorato tra gli astensionisti ed il M5S. Renzi, per il momento, è riuscito a realizzare quel miracolo che non avevo escluso ma sul quale mi ero dichiarato piuttosto scettico alcuni mesi fa; ha saputo creare su di sé una aspettativa e, in aggiunta, con l’ulteriore neutralizzazione e complicità di Berlusconi anche per via giudiziaria, al momento ha ridotto praticamente Forza Italia ad una sua forza collaterale. Mi pare evidente che Renzi sia ormai sulla buona strada di una costruzione, ormai avviata da tempo, di solidi legami con i settori profondi dello stato e di centri vitali del paese, di una convinta investitura da parte dei nostri protettori d’oltreoceano tali da garantirgli qualche margine di manovra e di trattativa con i partner regionali e di una qualche possibilità di ricostruzione di un blocco sociale. Una posizione ancora più determinante nel caso le incrinature interne all’Unione Europea e le tentazioni autonomistiche latenti in Centro Europa rendessero ancora più strategico il controllo statunitense del nostro paese, già piazzato nel bel mezzo del Mediterraneo. Del PD, dei partiti istituzionali, del bersaglio grosso quindi, nonché delle possibilità del paese di rimediare qualche vantaggio residuale in cambio di una totale subordinazione geopolitica, parlerò in un articolo successivo. Per il momento mi preme sottolineare che ad un calendario e ad un programma ormai abbastanza delineati, l’azione politica del PD sottende un retroterra culturale povero ma sostenuto da decenni di argomentazioni e battage istituzionale politicamente corretti.
Cosa che non può dirsi certamente per la costellazione delle forze alternative o presunte tali allo schieramento istituzionale. Le espressioni politiche che esprimono assai parzialmente queste forze hanno appena avviato un processo di radicale rifondazione che in altri paesi europei, in particolare la Francia, è partito diversi anni fa e soprattutto sulla base di formazioni politiche di impostazione nazionale.
Su tutti spicca il Fronte Nazionale francese, sottolineo Nazionale, il quale, grazie anche all’apporto significativo proveniente dalle fila socialiste, dell’UMP, di intellettuali e funzionari di spessore anche della vecchia sinistra radicale, è riuscito a rimuovere le radici razziste ed eversive dell’OAS antigollista del suo periodo fondativo ma non è ancora riuscito a raggiungere, non ostante la vulgata giornalistica, un radicamento rassicurante, attestandosi attualmente ancora su circa il 13% effettivo dell’elettorato.
Niente di paragonabile in Italia, sia per la fragilità che per la ambiguità delle proprie formazioni politiche appartenenti a questo campo.
La Lega di Salvini mi pare la formazione che sia riuscita a ricrearsi meglio una identità con indicazioni politiche più chiare ma con un retaggio ancora pesante di forza localistica e una fronda interna ancora in grado di influire se non determinare il cammino. La strada mi pare comunque diversa da quella del Fronte Nazionale, suo modello ispiratore.
Di Fratelli d’Italia non sono in grado di valutare gran che. Posso solo dire che la convivenza a pieno titolo di personaggi largamente compromessi con le scelte politiche peggiori degli ultimi tempi (Libia, riorganizzazione forze armate) e la forzatura della “questione sociale” rispetto al potenziamento e alla riorganizzazione delle strutture portanti del paese lasciano presagire un ruolo largamente collaterale.
Il M5S, anche se ridimensionato, ha mantenuto una posizione di tutto rispetto, ma ha accentuato la propria fragilità; l’esito deludente nelle amministrative ha rivelato l’evanescenza della propria struttura intermedia; ha accentuato il proprio carattere protestatario e moralistico tentando di tamponare gli attacchi del PD, ma perdendo altri consensi dall’altra parte senza punti forti qualificanti. Le ambiguità sull’Unione Europea e sulla collocazione internazionale del paese, la scelta di alleanza con l’UKIP dell’inglese Nigel Farage piuttosto che con il Fronte Nazionale francese lasciano presagire un ruolo importante della formazione ma complementare rispetto al PD di Renzi, nel caso di una crisi dell’attuale assetto comunitario europeo e della creazione con il patrocinio americano, come opzione di riserva, di un asse anglo-italiano da bilanciare con quello tedesco.
Sono analisi da approfondire in un secondo momento, ma con maggiori elementi disponibili.
IL RETROTERRA CULTURALE DEGLI ALTERNATIVI
Queste formazioni politiche sono, comunque, espressione del tutto parziale di un movimento e di una importante corrente di opinione che fonda sul recupero della sovranità del paese, in particolare di quella monetaria e sulla critica all’Unione Europea i propri giudizi politici e che si alimenta del contributo intellettuale di pochi studiosi quali Alberto Bagnai, Antonino Galloni, Emiliano Brancaccio e Diego Fusaro.
Si tratta di un movimento dall’impronta prevalentemente economicista che ostacola la maturazione di una forza politica capace di offrire una prospettiva credibile; su questo aspetto gli intellettuali citati esercitano, in diversa misura, una responsabilità precisa.
Di Galloni ho parlato un anno fa; oggi vorrei soffermarmi su Diego Fusaro, (https://www.youtube.com/watch?v=FqgLAKzDvQQ , con l’avvertenza di far scorrere il cursore nei due punti nei quali si interrompono le immagini) con l’avvertenza che la puntualizzazione delle divergenze di punti di vista debba favorire l’individuazione di quegli obbiettivi e di quei tracciati su cui costruire una azione comune, piuttosto che accentuare i particolarismi.
LA SINTESI POLITICA DEL PENSIERO DI FUSARO
Tornando quindi al merito, lo studioso fonda le sue considerazioni politiche su questi assunti:
il capitalismo non è più soltanto un rapporto sociale per regolare l’attività economica dell’uomo; è diventato una forma di dominio assoluto sia nello spazio, sia nella natura stessa degli individui; può affermare e consolidare il predominio abbattendo ogni limitazione nello spazio e riducendo la complessità della natura umana alla semplice propensione al consumo di merci; può permettersi questa strategia perché è ormai deterritorializzato, privo quindi di radici territoriali e in grado di quantificare sempre più ogni aspetto della vita e delle necessità umane e renderle quindi cose commerciabili; sono processi resi possibili dal predominio assoluto del sistema finanziario rispetto a quello industriale del capitalismo; il motore di questa dinamica si situa nell’assenza di limiti intrinseca alla logica capitalistica e nell’abbattimento di ogni limite e regola; la conseguenza è l’assunzione dell’economico come determinante, invasivo prima e sostitutivo poi di ogni aspetto della vita individuale e sociale; dalla politica, alla cultura, alla famiglia, alla religione, alla natura ed esistenza stessa dell’uomo.
Le vittime designate sono quindi lo Stato e la natura umana; attraverso la riaffermazione di questi si può tentare di ribaltare il predominio capitalistico e fermare “la sua corsa verso il nulla”.
Si tratta di un vero e proprio manifesto, ormai ben introiettato in questi ambienti, indirizzato di fatto a neutralizzare ogni seria possibilità di nascita di un serio movimento politico.
Per non scoraggiare i lettori meno pazienti ed interessati alle questioni filosofiche e teoriche, riserverò alcune considerazioni generali alla fine del testo e mi soffermerò, invece, sui gravi errori di analisi e di impostazione politica conseguenti di tutte queste affermazioni.
- Non è vero che lo Stato sta vivendo una crisi generale di indebolimento e da estinzione dovuta alla globalizzazione del capitalismo. La possibilità di relazioni sempre più estese e complesse nel mondo ne sta cambiando l’organizzazione e la modalità operativa, la presenza in organizzazioni internazionali dove i diversi stati hanno un peso specifico molto diverso, nonché il livello di applicazione delle gerarchie tra di essi. Le competenze si stanno addirittura estendendo spazialmente sui mari, nei cieli e nel sottosuolo e si stanno articolando in maniera diversa tra controllo ed operatività diretta
- Nel mondo vi sono Stati che stanno mantenendo la loro capacità operativa, altri che la stanno recuperando e rafforzando, altri ancora che la stanno impoverendo o smarrendo del tutto. Non a caso Fusaro cita esclusivamente esempi di stati europei, di un continente che ha perso, ormai da oltre settant’anni, la propria capacità egemonica e l’esperienza dell’Unione Europea, organizzazione scaturita da una sconfitta militare e da una sudditanza politica manifesta. La stessa UE è più che altro un veicolo attraverso il quale si esercita la sovranità diseguale dei vari stati aderenti e della potenza egemone americana.
- La contrapposizione astratta tra capitalismo e Stati non fa che raccogliere in un unico calderone Stati altrimenti diversi tra loro, in cooperazione e conflitto tra di essi secondo pesi e gerarchie differenziate. Non riesce quindi a cogliere la natura delle strategie e dei conflitti presenti tra di essi e la loro articolazione; crea sodalizi velleitari e mistificatori atti ad aumentare la confusione interpretativa degli avvenimenti e limitare le possibilità di azione politica efficace
- La riduzione del conflitto del cosiddetto capitalismo assoluto (finanziario) lungo due uniche direttrici, lo Stato e la natura umana, non fa che semplificare artificiosamente realtà molto più complesse e frammentate; porta a rappresentare il conflitto come uno scontro tra una quota irrisoria di detentori del potere ed una massa indistinta propensa all’opposizione e al rivolgimento. Tende quindi a generalizzare processi come la crisi distruttiva dei ceti medi e la pauperizzazione i quali riguardano solo alcuni paesi, in particolare quelli in declino o in posizione subordinata, rispetto ad altro con dinamiche opposte
- Il settore finanziario non è la forma dominante ed autoreplicantesi di un capitalismo che “va verso il nulla”; è un ambito di azione di centri dominanti a volte prevalente, a volte complementare. Segue dinamiche interne spesso distruttive, ma assolve fondamentalmente alla funzione di trasferimento di ricchezze tra paesi e settori dell’economia e delle formazioni sociali; negli ultimi trent’anni ha garantito il predominio politico e tecnologico e la coesione sociale di alcuni paesi, in primis gli Stati Uniti, a scapito di altri. È il veicolo e lo strumento più agile di strategie politiche tramite e dentro le strutture economiche; ha contribuito a provocare il fallimento, la disgregazione, l’assoggettamento di alcuni stati, formazioni sociali e strutture economiche come anche, in alcuni casi, l’esito opposto
- Il capitalismo, anche nella sua forma più mobile e liquida, ha comunque bisogno di un centro e di una direzione, di regole ed istituzioni, di uno Stato cui appoggiarsi. Tende a condizionarlo, modificarne funzione ed organizzazione ma non a distruggerlo o estinguerlo se non, parzialmente, nelle realtà periferiche soggette a predazione. Punta a modificare le regole, non ad eliminarle. L’UE e il TTIP (Trattato Transatlantico) sono esempi tipici di tentativi di definizione di nuove regole secondo rapporti di forza e logiche di schieramento, non di soppressione di esse
- Il capitalismo, nel suo esercizio economico, deve tener conto della cultura, delle strutture sociali, della rappresentazione della vita e della realtà che si fa un individuo inserito comunque in una comunità, in una famiglia, in una formazione sociale, ect. La stessa semplice vendita di un prodotto deve, ad esempio, tener conto del bagaglio culturale di un gruppo oltre che delle capacità persuasive e di controllo delle tecniche di marketing e di creazione artificiale di necessità. Gli stessi ambienti più avanzati di studio dell’economia dedicano ormai parecchie energie a studiare l’influsso delle consuetudini, della cultura e delle istituzioni basilari( es. la famiglia) di una comunità e formazione sociale sullo sviluppo economico e sulle sue modalità organizzative. Per inciso, stranamente ma non troppo, continuano a trascurare la funzione delle strategie politiche operanti all’esterno ed all’interno dell’ambiente economico, facendone di essa uno strumento ed un veicolo interagente con gli altri ambiti dell’agire umano. Più che annichilire e ridurre la cultura e le istituti sociali basilari, tende quindi a trasformarli e ad esserne a sua volta condizionato
- Piuttosto che di “illimitatezza della prospettiva” dell’azione capitalistica, parlerei di tentativo di superamento continuo e successivo dei limiti prefissati e prefissatisi, compresa la possibilità di regresso e di abusi. Del resto nei vari millenni, compresi gli ultimi due secoli, le profezie apocalittiche si sono succedute; ma tra tante disgrazie siamo ancora qui con i piedi per terra a caccia di ulteriori disastri
- In realtà, l’interazione accennata nei tre punti precedenti e la concorrenza indotta dalla logica capitalistica tra i vari gruppi dovrebbe indurre a parlare piuttosto di capitalismi che di una sua forma assoluta; ad essere più precisi, di formazioni sociali diverse con modalità di organizzazione capitalistica diverse della struttura economica secondo modelli dettati dalle formazioni egemoni o da formazioni aspiranti ad alternative autonome
Queste considerazioni dovrebbero quindi far rifuggere lo studioso delle dinamiche politiche e sociali, per non parlare delle élites impegnate nell’azione politica, dall’indugiare voluttuosamente sulle categorie assolute di interpretazione, siano esse l’illimitatezza, l’unicità, il nulla, l’assoluto. Spesso e volentieri sono il veicolo di punti di vista reazionari e di immobilismo contemplativo che spingono a difendersi dalle nefandezze e dalle opportunità del nuovo con modelli, rappresentazioni, aspirazioni e obbiettivi regressivi, improponibili e velleitari. Possono, tutt’al più, servire a trascinare le masse nei momenti di inquietudine; ma è la direzione verso cui esse sono condotte che fa dei loro leader dei condottieri oppure dei demagoghi.
La critica rivolta è però ancora incompleta.
Fusaro conclude la sua prolusione con una affermazione categorica: l’economia tende a dominare gli altri aspetti della vita sociale per finire, infine, con il sostituirsi ad essi, compresa la politica. Compie questo processo attraverso l’utilizzo del calcolo matematico e la riduzione ad esso di ogni valutazione, la reificazione (riduzione a cosa) dei soggetti, la riduzione a consumo e merce di ogni attività umana e a mera sete di possesso l’utilità degli oggetti in uso.
I PARADOSSI E LE INCONGRUENZE
Intanto non riesco a comprendere questa demonizzazione del calcolo; è un semplice strumento di conoscenza in funzione di obbiettivi i più diversi; se si dovesse scoprire un giorno una chimica ed una matematica dei sentimenti, il problema non sarebbe la conoscenza della quantità e delle dinamiche, ma le ipotesi su cui sono costruite e l’utilizzo che se ne potrebbe fare.
Riguardo all’economia lo studioso sembra inizialmente confondere il primato asserito della rappresentazione monocausale economica della realtà, una costruzione culturale ed ideologica quindi, con l’economia stessa per poi scivolare definitivamente sull’affermazione egemonica di quest’ultima, attraverso un processo di naturizzazione, di svolgimento quindi di una legge naturale (economica) imposto dal capitalismo dominante.
Questo processo, analogo a quello di sacralizzazione, è per altro una propensione di tutti i centri dominanti affermatisi nel corso dei secoli.
Questa affermazione rivela, in realtà, tutti i limiti di chi tende a spiegare l’attuale complessità con categorie insufficienti e per molti aspetti superate. Si rifà a Marx e Gramsci, vanta il proprio sforzo di collocarli storicamente; in realtà finisce per santificarli utilizzando astoricamente parti di brani dei due giganti secondo propria convenienza. Una operazione che aveva cercato di interrompere con qualche successo Althusser, ma che nel corso dei decenni, prima e dopo di lui, si è sempre riproposta con esiti sempre più sterili e nefasti, ritardando continuamente l’utilizzo di categorie più adeguate. Mi pare che Fusaro stia seguendo, purtroppo questo stesso percorso.
Con l’introduzione del rapporto capitalistico si è in realtà introdotto progressivamente anche nell’economia il conflitto strategico tra centri una volta riservato all’ambito politico-istituzionale ed ideologico con la conseguenza di un controllo competitivo sempre più stretto all’interno dell’ambito economico e di una compartecipazione a pieno titolo degli stessi centri decisionali economici alle dinamiche cooperative e conflittuali dei centri strategici decisionali. Lo stesso criterio del mini-max (massimo utile al minimo costo) non è un parametro così esatto ed univoco da ridurre a puro calcolo tecnico la gestione delle risorse produttive e dei gruppi operanti con esse. Quel criterio ha un tempo ed uno spazio dilatabile e flessibile tale da consentire diverse gestioni dei rapporti e dei gruppi, diverse strategie e diverse finalità comprese quelle non economiche nonché quelle economiche rispetto a fini politici. È sufficiente, del resto, dare una occhiata alle modalità di elaborazione dei bilanci, alle dinamiche di gestione della collaborazione e della conflittualità dei gruppi all’interno stesso delle aziende, in particolare quelle di dimensione rilevante, all’influenza nell’andamento e nella regolazione economica, della gestione politica e normativa in essere in altri ambiti per comprendere come la strategia politica sia ben presente nello stesso ambito economico.
Non è un elemento di disturbo e distorcente, come vorrebbe il pensiero liberale; non è quindi un fattore esterno oppure ai margini dell’agire economico, come ritiene lo stesso. L’interpretazione liberale, infatti, legge i fatti politici secondo un percorso parallelo rispetto a quelli economici, se non in particolari incidenti di percorso da risolvere quanto prima.
L’introduzione del concetto di strategia politica anche in economia e, conseguentemente, del conflitto/cooperazione secondo gerarchie di rapporti di forza serve a comprendere molto meglio le dinamiche tra stati e formazioni sociali e, soprattutto l’intreccio e l’interazione che si crea tra i centri nei vari ambiti operativi e tra di essi, attraverso gli Stati e le formazioni sociali stesse. Riesce quindi a rappresentare meglio e con maggiore coerenza teorica la complessità delle dinamiche sociali e collocare meglio, quindi, il problema stesso della emancipazione e del miglioramento delle condizione degli strati popolari ed intermedi.
Dell’importanza di questa visione olistica sono coscienti, in particolare, le stesse grandi aziende a struttura manageriale; tanto è vero che la prima misura di valutazione del valore di un manager è la sua competenza e capacità strategica.
LE MIGLIORI INTENZIONI LASTRICANO LA STRADA PEGGIORE
Fusaro aspira nobilmente a ripristinare, salvaguardare e sviluppare la complessità della figura umana e, conseguentemente, quella delle società. Per realizzare il suo progetto propone di puntare alla realizzazione di questa natura attraverso soprattutto la riaffermazione della funzione della politica, quindi della scelta consapevole, soprattutto attraverso il recupero delle prerogative dello Stato, ormai non più strumento ottocentesco della borghesia, contrapposte alla dittatura economicista del Capitale Assoluto, in particolare quello finanziario.
Non fa che riconoscere e riproporre, quindi, il dominio fattuale di una visione economicistica e dualistica che dice di voler altrimenti combattere; in realtà queste ultime sono una mera rappresentazione in auge soprattutto nei paesi subordinati e remissivi quali sono, ad esempio, ormai quelli europei la quale induce a nascondere la reale complessità dei conflitti in corso tra centri strategici e sociali.
Con questa rappresentazione Fusaro non fa che inciampare negli stessi limiti interpretativi del pensiero liberale; quando parla infatti delle guerre e delle vicende politiche in corso, comprese quelle tra stati, non riesce a spiegare il loro nesso con le mire del presunto capitalismo assoluto a dominio economico. Lo stesso suo dualismo operante nel conflitto globale tende a ridurre drasticamente i poli in contrapposizione finendo, a sua volta, con evidenziare gli stessi limiti del dualismo operante nell’interpretazione marxista tesa a rappresentare le dinamiche attraverso la lotta fondamentale tra due classi con il corollario residuale di figure superstiti.
Nel migliore dei casi questa interpretazione tende a nascondere in una nebulosa, quindi nella confusione e nella paralisi, il confronto tra Stati, tra formazioni sociali e all’interno di essi tra centri in competizione e a non collocare correttamente lo stesso conflitto sociale. Un limite che i perdenti di un confronto tendono a pagare a carissimo prezzo.
Nel peggiore può portare all’accettazione di sodalizi “innaturali” o contrasti artificiosi, degni del peggior trasformismo.
Una domanda vorrei porre a Fusaro; giusto per toccare con mano i paradossi cui possono portare le sue prolusione. All’interno di questo presunto conflitto titanico tra capitalismo assoluto e Stati, come si può inquadrare l’attuale confronto tra Russia, Cina e Stati Uniti, tutte formazioni dotate di uno Stato di tutto rispetto? E il sodalizio dell’Italia con la NATO? E gli interventi militari, con bandiere nazionali che garriscono al vento?
Mi pare che Fusaro risolva alla fine il suo sforzo teorico in una sorta di critica economicista all’economicismo.
In questa ambiguità, purtroppo, non è solo. Negli stessi orizzonti di pensiero rischiano di impantanarsi altri intellettuali del calibro di De Benoist.
In altri, ma con diverse basi scientifiche, si rischia la stessa direzione e lo stesso paradosso. Alberto Bagnai, nella sua per altro pregevole opera, si spinge, ad esempio a preconizzare una alleanza dei paesi debitori contro i paesi creditori. Un altro bel calderone dove mettere, presumibilmente, Stati Uniti, Spagna, Grecia ed Italia, distinto da quello composto da Germania, Cina, Russia, Giappone e così via; un pugno allo stomaco rispetto alle attuali dinamiche geopolitiche e al peso effettivo di questi paesi contrastante rispetto all’entità del mero debito.
GLI IGNORATI
La chiave interpretativa più adatta, in Italia, pare essere prerogativa, purtroppo, di cavalieri solitari e misconosciuti come Gianfranco La Grassa, spesso citato ma dal quale si rifugge nel confronto teorico.
Purtroppo non solo da lui, ma da autori che parallelamente e attraverso altri percorsi, negli Stati Uniti, in Francia e in qualche altro paese stanno seguendo vie di ricerca simili. La differenza sostanziale tra questi e La Grassa, a detrimento di quest’ultimo, è la differente accoglienza che essi trovano negli ambienti istituzionali, specie legati alle università. È senza dubbio la cartina di tornasole che rivela il livello di conformismo, di provincialismo e di subordinazione codina culturale e politica di un paese: il nostro.