di Alessia Ingrasciotta
Sono sola, accompagnata esclusivamente da una borsa piena di fotocopie e alcuni libri che ho portato con la diligente ma poco credibile intenzione di studiare e che in realtà non ho alcuna voglia di leggere. La loro utilità al momento si palesa sotto forma di scudo protettivo contro i venditori di junk food che passano davanti a me. Spingendo un carretto di legno che sfoggia coloratissimi e luccicanti pacchetti di patatine speziate e altro cibo simile, un venditore urla con tono cantilenante le solite parole «CHIPS, SAMOSA!» e, irritato per il caldo, sposta con un colpo di testa il lembo del turbante bianco che continua a penzolare davanti alla sua faccia sudata.
Mentre passeggio avanti e indietro sulla banchina, mi fermo da un venditore di libri e riviste di gossip sperando di trovare una qualche lettura interessante e vengo colpita da una copertina familiare: “Harry Potter”, scritto interamente in alfabeto devanagari. La traslitterazione del nome del giovane maghetto mi strappa un sorriso: Hairi Potar.
Possibile che non ci siano due orologi in questa stazione che segnino la stessa ora? Ho i piedi così sudati che mi sembra che le infradito si stiano trasformando in spugne. La batteria del cellulare è quasi scarica e manca ancora un sacco. Spengo il telefono e mi siedo.
Caldo. Troppo. Lego i capelli in uno chignon distratto e metto in borsa la dupatta che tengo sul salwaar suit. Adoro i vestiti indiani. Sono larghi, colorati… Lasciano passare l’aria… ma che dico? Basta, devo bere. Chioschetto avvistato! «Ji, pani chahye» chiedo dell’acqua sfoggiando con finta naturalezza una hindi tutt’altro che perfetta sapendo di suscitare comunque meraviglia e stupore nel mio interlocutore che puntualmente si complimenta e mi chiede da dove vengo, cosa faccio, dove vado e soprattutto perché studio hindi. Tre-quattro uomini si voltano rimanendo ad ascoltare a una vicinanza tale da far pensare a chiunque guardi che stiano partecipando anch’essi alla conversazione.
Fatto un pieno di autostima a basso costo, mi allontano in una direzione a caso, tanto mi tocca aspettare ancora un bel po’. Gli orologi continuano a non essere sincronizzati ma tutti concordano su una cosa: un certo treno che sarebbe dovuto arrivare a un certo orario non è ancora dove dovrebbe essere. Guardo un tizio che ha steso un telo a terra vicino a una colonna ma che dorme ad almeno 20 cm da questo. Deve evidentemente essersi spostato nel sonno. Ma come diavolo fa a dormire in mezzo a tutte queste persone? E come fa a dormire con questo caldo? Un anziano vestito di arancione mi tocca col suo bastone e in maniera insistente mi chiede soldi con l’altra mano. Un sadhu? Uhm… non sono convinta. No, niente soldi.
È quasi ora, mi avvicino al binario e incappo in due studenti che hanno scommesso sulla mia provenienza. Uno giurerebbe che io sia un’indiana del nord l’altro invece crede sia straniera. Nel dubbio mi porgono la domanda in inglese. Ho già fatto il pieno di autostima ma non resisto alla tentazione di rispondere «videshi», straniera. Sorrido e mi allontano.
Ancora monaci vestiti di arancione, ancora gente che dorme a terra, ancora bambini in cerca di elemosina, ancora venditori di libri e ancora carretti pieni di patatine.
Finalmente arriva il mio treno! Alla volta della Città della Luce! O “Il Grande Cimitero” a seconda dei punti di vista… Io ci vado per studio ma molti pellegrini terminano lì il loro viaggio attendendo la morte. È credenza diffusa tra i devoti induisti, infatti, che morire a Varanasi porti alla liberazione dal Samsara e quindi a non rinascere più in questo mondo illusorio fatto di sofferenza.
Non è necessario avvertire, la famiglia che mi ospita sa già che arriverò in ritardo ma riaccendo il telefono e mando comunque un messaggio.
Posto finestrino, quello giusto. È quasi il tramonto. Il sole sembra sempre più grande a queste latitudini, o forse è solo la mia impressione. Un fascio scuro si riflette sul lago, accanto alla palla infuocata. È la pioggia monsonica. O la ami o la odi. Io non ho con me il k-way e non ho ancora imparato ad amarla.
Biglietti! Sì, ce li ho. Il “Super Fast Train” su cui viaggio al massimo potrebbe raggiungere i 60 km orari in discesa. Attorciglio la borsa al corpo con un nodo degno di un marinaio e chiudo gli occhi. C’è quasi silenzio, gli sguardi incuriositi degli altri passeggeri non mi turbano più di tanto e la presenza di un’altra donna sul sedile di fronte mi rassicura. Il rumore metallico del treno è in qualche modo costante e, sommato alla stanchezza e al caldo, mi assopisce.
Sembra passata un’eternità quando sento una voce chiedermi «Posso sedermi?». Apro gli occhi e mi volto, un alto signore sulla settantina, canuto con la barba folta e curata, indica il posto accanto al mio. Rispondo con un non molto convinto “sì”, non sono sicura di aver afferrato la domanda. Il cielo si è ormai colorato di arancio e le piogge sembrano seguirci a distanza.
«Così lei sa la hindi!»
«Un po’» rispondo intontita sistemandomi sulla mia porzione di sedile. Non credo di voler intraprendere questa conversazione.
«È una bella lingua la hindi. Viene dal sanscrito, sa? La lingua degli dei» Lo dice in inglese.
Io annuisco col capo e mi giro verso il finestrino.
«Lei conosce il sanscrito?»
Lo guardo. I suoi occhi, grandi, hanno gli angoli esterni tendenti al basso, l’iride così scuro da non distinguersi dalla pupilla curiosamente contornato da un colore tendente all’azzurro.
«Non proprio» Rispondo. «Ho studiato un po’ di letteratura e un po’ di grammatica ma certamente non posso dire di conoscerlo».
Il mio vicino a questo punto prende fiato e comincia con occhi socchiusi e tono solenne a recitare qualcosa. Fantastici gli indiani! Non ne ho ancora incontrato uno che non ami mettersi in mostra per una qualche abilità. Ormai ha catturato la mia attenzione e divertita chiedo retoricamente: «Bhagavad Gita?» Tiro a indovinare. Non ho idea di ciò che abbia farfugliato, ma al 90% ci azzecco. Nell’assopimento generale nessuno si aspetta la reazione del vecchio che schioccando i palmi delle mani l’uno contro l’altro esclama: «Arey!». Mi spavento anch’io. Il volume della sua voce è altissimo! Sorrido e chiedo se anche lui sia diretto a Varanasi.
«Proprio così. E lei cosa va a fare lì?»
«Sono ospite da una famiglia di brahmani e prendo lezioni di hindi». Il rumore della città è sempre più forte, siamo quasi arrivati.
«Ah bene, bene… Legga tanto. La aiuterà a perfezionare la lingua.»
«Cosa mi consiglia? Premchand?»
«No, no… i suoi racconti sono belli ma per nulla semplici. Legga qualcosa di più nuovo, di attuale. Anche il giornale!»
«Lo farò. Lei invece cosa fa?»
«Sono del Punjab. Lì ero uno scrittore. Di poesie. Ma adesso non scrivo più» Guarda davanti a sé, non sembra triste, più che altro pensieroso.
«Fantastico! Non ho mai conosciuto uno scrittore». Accenno un sorriso ma lui continua a non guardarmi. «Mi dispiace, ma tra poco dovrò scendere». Mi alzo e lo fa anche lui. In un primo momento penso che lo faccia per farmi passare e invece prende la sua valigia e si avvicina anche lui alla porta del treno.
«Anche lei scende alla prossima?» gli chiedo.
«No, vado a Godaulia, scendo dopo.»
Fischio del treno, porte aperte, mi precipito velocemente dalla scaletta prima di essere travolta dalla folla che aspetta di salire. Riguardo indietro verso il mio anziano compagno di viaggio che è ancora lì sulla porta e gli chiedo: «E lei cosa farà a Varanasi?»
La risposta arriva inaspettata.
«Vado a morire».