Come gli struzzi: l’Italia e l’Europa di fronte alla crisi egiziana
Creato il 19 agosto 2013 da Giuseppe Lombardo
@giuslom
Probabilmente ha ragione Caracciolo, quando – in merito agli avvenimenti egiziani – specifica come ormai sia impossibile rintracciare pompieri in grado di domare l’incendio: troppo tempo è trascorso dal momento dell’esplosione, troppo alte risultano le fiamme in uno scontro che ha il profilo tipico della guerra civile. Inoltre la storia si dispiega in mille rivoli, in storie private di ordinaria crudeltà, piccole miserie perpetrate talvolta in nome di Allah, talora per conto della laicità dello Stato. Atti di violenza più o meno gratuita che esasperano il clima, lacerando il tessuto sociale di un paese ridotto sull’orlo del baratro. E su questo dato si possono spendere ben poche parole: l'assalto alla moschea da parte dell'Esercito non lascia molto spazio ai dubbi di sorta.Forse, però, ha parimenti ragione Giuliano Amato, quando sul Sole 24 Ore avverte la necessità di stimolare gli attori internazionali, di responsabilizzare le forze che possono incidere nel processo di pacificazione affinché la popolazione del Cairo non sia abbandonata a se stessa, alla barbarie dei due fronti: “prima di arrendersi all’apocalisse, la comunità internazionale, l’Europa e la Turchia possono fare moltissimo per stringere la loro pressione attorno alle parti in causa e spingerle verso quell’accordo, che esse di sicuro oggi non vogliono”. Già, l'Europa. L'assenza dell'Unione nei momenti di crisi testimonia la fragilità della costruzione comunitaria. Non c'è stato passaggio epocale nella storia dell'integrazione che non abbia visto molteplici tentativi, condotti da minoranze illuminate, orientati a dare alla casa comune una politica estera condivisa. Tutto vano. Non è stato possibile registrare progressi a causa dei freni e delle resistenze al processo proprie di quelle realtà nazionali che, per vanagloria o pseudo-indipendentismo, concepivano e si ostinano a concepire la politica di potenza come la cifra fondante degli interessi statali. A nulla valgono i moniti del Parlamento europeo, costanti dai tempi di Spinelli.Certo, nell'ambito di questa crisi l'Europa non potrebbe mai seguire la linea del Venezuela di Maduro, rinunciando ai rapporti col Cairo tramite un netto richiamo all'ambasciatore. E tuttavia se da un lato si ripudia la spettacolarizzazione da caudillo della tradizione chaveziana, in egual misura si può censurare la linea declaratoria tipica delle principali cancellerie del vecchio continente. Emma Bonino, l'esempio a noi più prossimo, giura e spergiura da giorni un "intervento immediato", una "risposta tempestiva" a questa escalation di violenza. Frattanto si limita ad osservare, senza indicare alcuna scaletta, alcuna iniziativa, neppure lo straccio di una road map per risolvere lo spinoso contenzioso. Non esistono soluzioni facili, per carità, ma dal ministro degli Esteri del nostro paese ci aspetteremmo un profilo più alto. Anche perché, almeno a parole, la proiezione mediterranea dell'Italia è uno storico cavallo di battaglia sia dei radicali, sia dell'attuale premier Enrico Letta.
Un governo serio in un'Europa matura partirebbe da strategiche considerazioni. In tal ottica si dovrebbe prendere atto di un dato centrale: il ricorso facile alle armi attraversa, in questo delicato frangente storico, il mondo mussulmano. Come ha scritto Tahar Ben Jelloun su Repubblica, “In Siria un dittatore compiaciuto di sé massacra quotidianamente civili con il pretesto di combattere il terrorismo; ha distrutto Aleppo e i suoi monumenti patrimonio dell’umanità. La Libia è precipitata in un marasma tribale e religioso. La Tunisia è scossa da omicidi e attacchi violenti dei salafiti”. Non parliamo poi dell'Iraq e dell'Afghanistan, terre stuprate dalla presenza militare occidentale, una presenza ingombrante che in pubblico chiama i nemici "terroristi", salvo poi etichettarli come "insorti" nei documenti riservati.L'Egitto non fa eccezione: rappresenta semmai la tessera più importante di un mosaico frastagliato. Di fronte a questo scenario è fin troppo evidente constatare come il realismo americano non paghi e sia dettato, piuttosto, da interessi squisitamente interni. Juan Cole, professore dell’Università del Michigan, ha fatto presente come i sussidi militari concessi da Washington abbiano il vincolo di dover essere spesi, almeno in quota parte, per armi prodotte da imprese statunitensi. Olio per far girare i pistoni dell'economia, insomma. Il paese, inoltre, è una pedina troppo importante nel risiko mediorientale e la sua funzione moderatrice è indispensabile se si intende restare saldamente vicini alle esigenze di sicurezza avvertite da Tel Aviv.Con una simile scala di valori, il governo americano è "costretto" ad assistere impotentemente al massacro. Neppure un premio nobel per la pace riesce ad abbattere le mura di Gerico dell'imperialismo d'oltreoceano. Ma l'Europa che interessi ha? E soprattutto a cosa va incontro? E' lecito porre certe domande, tanto più se l'emergenza umanitaria si sposa col tentativo dichiarato da parte della leadership militare di distruggere la Fratellanza. Elementi, questi, che porteranno presto o tardi a fughe ed esodi di massa. L'Italia si troverà allora ad essere terra di frontiera. A quel punto cosa faremo? Staremo a guardare? Manderemo Salvini a discutere di protezione dei rifugiati? O rivendicheremo i legami familiari con lo zio del vecchio regime? Letta, forse, dovrebbe rispondere in Parlamento.
G.L.
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