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Come il Belgio si è venduto al radicalismo islamico per il petrolio

Creato il 23 marzo 2016 da Redatagli
Come il Belgio si è venduto al radicalismo islamico per il petrolio

Perché il Belgio è diventato l’epicentro europeo del terrorismo jihadista? La risposta potrebbe nascondersi in un episodio di secondo piano avvenuto nel 1967 a Bruxelles.

Pressato dalla necessità di assicurare al Paese una fonte di approvvigionamento energetico di fronte alla chiusura di numerose miniere di carbone, l’allora re del Belgio Baldovino stipulò un accordo con il sovrano dell’Arabia Saudita Faisal, in visita nella capitale belga: in cambio di vantaggiosi contratti petroliferi, che avrebbero garantito a Bruxelles greggio a basso prezzo, ai sauditi fu concesso di allestire una grande moschea e di installarvi i propri imam, predicatori formati nello Stato del Golfo secondo i precetti estremisti del wahhabismo.

Nel 1978 i petroldollari della monarchia araba completarono la ristrutturazione del padiglione orientale, situato nel Parco del Cinquantenario e di cui re Baldovino aveva accordato l’affitto gratuito per 99 anni, e la sua riconversione nella Grande Moschea di Bruxelles. Non solo: l’edificio divenne anche la sede riconosciuta della cultura islamica in Belgio.

L’esito principale del patto diabolico di Baldovino con la dinastia saudita fu quello di inoculare nella già allora numerosa comunità musulmana, composta in prevalenza da marocchini e turchi, portatori di un islam tollerante, il germe del fondamentalismo.

«Per trent’anni, la Grande Moschea di Bruxelles è stata un rifugio attivo per i salafiti, offrendo terreno fertile perché la loro rete crescesse», ha scritto il quotidiano francese Libération pochi giorni prima degli attacchi di Parigi. Michel Privot, massimo islamologo belga, ha raccontato a Il Foglio che la propaganda wahhabita dell’Arabia Saudita in Belgio tramite i suoi imam è stata capillare e «ha offerto numerosi contributi alla seconda e terza generazione di giovani musulmani disposti ad andare alla Mecca e Medina per imparare le scienze islamiche», al punto che «oggi, a Bruxelles, il 95 per cento dell’offerta di corsi sull’islam è gestito da giovani predicatori formati in Arabia Saudita».

La penetrazione saudita nelle moschee belghe contribuisce anche a spiegare perché il Belgio, la cui popolazione di religione musulmana ammonta al 6% su un totale di 11 milioni di abitanti, sia il Paese europeo con la maggiore concentrazione di foreign fighters. Secondo un rapporto pubblicato dal governo il 28 gennaio, sono 451 gli individui identificati partiti per combattere in Siria. Di questi 117 sono tornati in patria.

Come il Belgio si è venduto al radicalismo islamico per il petrolio
Il radicalismo islamico attecchisce in particolare nella seconda e terza generazione di immigrati e in quartieri disagiati come Molenbeek: qui l’80% dei 90mila residenti è musulmano e la disoccupazione giovanile supera il 40%, anche a causa delle difficoltà linguistiche, dato che per molti lavori in Belgio è necessaria non solo la conoscenza del francese, parlata dalla minoranza vallona e dalle persone di origine maghrebina, ma anche del fiammingo.

Il piccolo Paese incastonato nel cuore dell’Europa si è così trasformato nel covo del terrorismo jihadista nel vecchio continente, e a Molenbeek sono in un modo o nell’altro connessi molti degli attentati degli ultimi anni, da quello al comandante Massoud, il leone del Panjshir avversario prima dei sovietici e poi dei Talebani, ucciso in Afghanistan nel 2001 da due killer con passaporto belga, agli attacchi di Madrid del 2004, cui prese parte l’organizzazione qaedista Sharia4Belgium, dall’attentato al Museo Ebraico di Bruxelles (2014) a quello sul treno Amsterdam-Parigi dello scorso agosto, per finire con le stragi di Parigi del gennaio e del novembre 2015 e con la cellula jihadista di Verviers stroncata nel gennaio scorso.

Il Belgio, d’altronde, per la sua posizione geografica (è a poche ore di macchina dalla Francia, dall’Olanda e dalla Germania), storicamente è sempre stato considerato strategico dal terrorismo internazionale: il Gia algerino, la Raf tedesca, l’Action Directe francese, l’Ira irlandese, l’Eta basca e diversi altri gruppi hanno in passato usato il Paese come piattaforma per condurre i loro attacchi.

Inoltre, la divisione di Bruxelles in 19 municipalità con ben sei dipartimenti di polizia differenti, ostacolati anche dalla separazione fra valloni e fiamminghi, non agevola la condivisione delle informazioni e produce invariabilmente l’estendersi di una zona grigia dove i traffici illegali riescono a prosperare.

Secondo il giornalista britannico Jason Burke, «Bruxelles è uno dei centri preferiti dagli intermediari. Con la sua storia di leggi permissive sulle armi e un commercio legale che ha creato un’abbondanza di ingegneri competenti nel settore, la capitale belga è al centro delle indagini sull’approvvigionamento di armi da parte dei terroristi» e «le strade malfamate intorno alla stazione Midi di Bruxelles sarebbero il centro nevralgico del commercio di armi».

I carichi di armi, kalashnikov soprattutto, convergono dai vecchi e apparentemente inesauribili depositi bellici dei Balcani e, una volta superata la prima frontiera dell’Unione Europea, circolano liberamente senza controlli nell’area di Schengen. Stando ad alcune stime, a Parigi è possibile acquistare sul mercato nero un fucile d’assalto Ak-47 per mille euro.
La grande facilità con cui è possibile reperire armi da guerra in Belgio ha messo in allerta le polizie europee. In Olanda, come in Svezia, stanno aumentando gli episodi di bande criminali che ricorrono ai kalashnikov per regolare i loro conti.

Dietro la scia di fumo, polvere e sangue lasciata dai terroristi a Bruxelles, vi è dunque una storia sporca fatta di affari, petrolio, armi e incompetenza.

Jacopo Di Miceli

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