Le rotaie scorrono sotto di me. Un movimento lento e cadenzato che mi strappa il respiro. I campi di grano, alla mia destra, sono graffi gialli sul territorio. Il sole scivola su di essi e inonda i miei occhi, obbligandomi a socchiuderli. Torrenti artificiali attraversano la campagna, un blu che si confonde a quello del cielo. La carrozza è quasi vuota, la gente sembra svanita in una nuvola di fumo. Un bambino, qualche sedile dopo il mio, fissa il paesaggio in silenzio. Ha gli occhi assorti e la carnagione ambrata.«Stai bene?»La domanda mi arriva in un’eco distorto alle orecchie. Volto appena il viso e osservo Stefano senza dire niente. Le sue iridi cineree si fondono al nocciola delle mie. È un viaggio lungo, questo. Interminabile. Annuisco e torno a osservare il panorama. C’è il mare adesso e scogli frustati dalle onde. Non mi dispiacerebbe gettarmi da lì e sentirmi libera, lontana da tutto, soprattutto dal dolore che mi appesantisce l’anima. «Quanto manca?»Parlo ma la mia voce è simile a un sussurro. Lui esita prima di rispondere; scorgo, attraverso il riflesso del vetro, le sue sopracciglia aggrottarsi e i denti stringersi. Lo fa sempre quando pensa. «Credo poco.»Dice e sfiora la mia mano, posata sul grembo. Lo sguardo indugia sulle dita. La mia carnagione bianco latte dà l’impressione di risplendere contro la sua, olivastra e lucida d’estate. Sospiro. Adagio la nuca contro il sedile e tolgo gli occhiali, lasciandoli sul tavolino davanti a me. Vorrei dormire. Dormire e dimenticare. Ma non posso. Giocherello con una ciocca di capelli. Il ragazzino ha cambiato posizione. Adesso si è sporto in avanti e mi guarda. Deglutisco e d’istinto mi stringo nelle spalle. Quasi mi ritiro nel fondo del mio posto, mettendo una spalla contro il finestrino.Stefano rivolge l’attenzione al bambino. Ne studia i lineamenti per qualche minuto. Serra i pugni sulle cosce. Si gira verso di me. Tace ma è inutile. Io so a cosa sta pensando in questo momento. Piego il busto e nascondo la faccia tra le mani.«Scusami, Sam.»Bisbiglia, accostando le labbra al mio orecchio. «No, stai zitto.»«Sam…»«Non dovevo partire.»«Lo stiamo facendo per noi.»«Non serve a niente.»«Ti sbagli.»Mi accarezza i capelli, baciandomi tra di essi. Il cuore accelera i battiti. Il suo profumo di salsedine arriva al naso come un pugno nello stomaco. Feroce e insopportabile. Il fiato viene meno. Tremo. «Sam?»«Non è niente. Ora passa.»Biascico mentre cerco di riprendere il controllo di me stessa. Apro la bocca e respiro piano. Sollevo la testa e vedo ruotare tutto. Se fossi su una giostra soffrirei meno. «Vuoi bere?»«No, non serve. Dammi cinque minuti e mi riprendo.»Frugo nella borsa. La boccetta del tranquillante è in un angolo, la tocco e mi sento subito al sicuro. Ne verso qualche goccia sulla lingua. Lentamente il mondo si ferma ed io torno a rilassarmi contro lo schienale. Stefano mi osserva con apprensione. Abbozzo un sorriso.«Sto bene, non preoccuparti.»«Sicura?»«Sicura.»Il paesaggio è di nuovo cambiato. Il treno attraversa case colorate, edifici di un verde e un arancione vivace; la luce piomba su di essi, riflettendosi contro le vetrate. Alberi di limoni e acacie gettano ombre sulle strade. La gente cammina avvolta nei teli da bagno, i bambini si rincorrono diretti in spiaggia, il mare, dall’altra parte, è una superficie piatta e immobile. Ho quasi l’impressione di sentire lo sciabordio delle onde ma so che è un’illusione. Il frastuono delle rotaie copre ogni rumore esterno. «C’è il mare anche da me, potrai farti il bagno.»Annuisco all’affermazione di Stefano e gli tocco una guancia, adagiando la fronte contro la sua. «Lo so, me l’hai fatta vedere in foto casa tua.»«È un bel posto, ti piacerà.»Rimango per un attimo in silenzio. Il contatto con lui è morire ogni minuto, per me. Ma è una morte dolce.«E se poi non volessi andare più via?»Stefano mi circonda con le braccia. Alzo gli occhi e lo vedo irrigidire la mascella. «La tua vita è altrove.»«Io non sento di averla più, una vita.»«Non dire assurdità.»La sofferenza ti annienta, tutto diventa complicato, persino alzarsi dal letto la mattina e prepararsi la colazione è un’impresa titanica. Me ne sono resa conto da poco. Lui non vuole accettare che la Samantha che conosceva si è persa in un giorno di marzo. Eppure dovrebbe farsene una ragione. Come ho fatto io.Chiudo gli occhi. Detesto questo viaggio ogni minuto di più. E detesto me stessa per aver accettato di partire.Il treno rallenta la sua corsa. Entra in stazione e in uno sbuffo si ferma. Il bambino dalla pelle ambrata mi lancia un’ultima occhiata interrogativa e poi si avvia fuori dalla carrozza tenendo la mano di sua madre. Scompare oltre la soglia. Esito, restando seduta per qualche minuto, poi inforco gli occhiali e mi alzo, dirigendomi verso l’uscita. Stefano è al mio fianco, glielo leggo in ogni singola increspatura del volto l’emozione di essere arrivato nella sua terra. Lo scalo è semi deserto. Sono pochissime le persone scese e quelle che vedo in giro. Il caldo scioglie il sudore. I vestiti si appiccicano sulla schiena. «Andiamo.»Stefano parla indicando un cancello immerso nel verde. Ci avviamo in quella direzione. L’odore dell’erba appena tagliata si fonde a quello della salsedine e mi avvolge. Stringo la maniglia del trolley. In pochi passi siamo in paese.
Foto di SP8254 - Catching Up
Licenza Creative Commons
http://www.flickr.com/photos/sp8254/
Il testo è protetto da una licenza Creative Commons.