Magazine Diario personale

Come lacrime, nella pioggia

Creato il 07 dicembre 2012 da Povna @povna

Qui e qui. La ‘povna, di suo, ne aggiunge un altro, con tutto l’amore del mondo. E poi lascia parlare le sue splendide parole.

L’originale di Giorgia
di Paolo Zanotti

Le prima telefonata di Leo, partito all’inseguimento ormai da un anno, ci sorprese (casualmente) tutti insieme e (colpa nostra) tutti impreparati. Dal nostro lato delle Alpi non avevamo saputo niente di nuovo riguardo a Giorgia, e in più ci rendemmo subito conto di avere le idee piuttosto vaghe in fatto di geografia dell’Europa. Se, come prometteva, Leo avesse continuato a tenerci aggiornati, al più presto sarebbe stato necessario procurarci un atlante. Ci parlò di Anversa, Lille, Klagenfurt, ripercorse in autostop una lagnosa landa mitteleuropea, ci commosse rievocando una notte sul mare di La Rochelle dove aveva scavato un buco sulla spiaggia e ci aveva trovato solo una gran disperazione. Alla fine, forse, ci chiese di come stava sua madre, ma a questo punto la friabilità della linea l’aveva avuta vinta.
Ci trovavamo a casa mia quando il telefono era squillato, quindi un po’ pigiati. Alla fine della conversazione, una volta riassunti a uso di tutti i passaggi più importanti, calò un silenzio come un ombrello che si chiude. Per un buon quarto d’ora nessuno ebbe il coraggio di aprir bocca. Un anno. Bisogna dire che neanche noi eravamo più tanto uniti, e quindi era un puro caso che Leo ci avesse trovati tutti e sette (che numero sbilenco, incompleto come un punto interrogativo), o forse non era davvero un caso, ma il richiamo lontano del gatto di sogno, già, ci doveva essere qualcosa di preordinato dietro. Perché, ammettiamolo, ci eravamo persi un po’ di vista, poco sapevamo di cosa avevano fatto gli altri negli ultimi mesi, ed era chiaro quello che ora tutti ci stavamo chiedendo, quello che stavamo rimuginando, mentre cercavamo di passare in rassegna gli occhi degli altri (io), ci accendevamo una sigaretta (Tommy), chiedevamo una sigaretta (Renato), tamburellavamo con le dita sulla tavola di formica (Ivan), ci avviavamo verso il frigo in cerca di una birra del tutto ipotetica (Diego), confabulavamo nell’angolo un minimo più in disparte (i gemelli, forti del loro rapporto privilegiato al quadrato). Già, chissà, chissà in quanti avevamo già tradito, in quanti ci apprestavamo a tradire l’amore della nostra giovinezza. Il piccolo cielo prigioniero della finestra non sapeva dare indicazioni. Leo. Giorgia. Rosapesce. Gattoserpente.

È sempre una buona regola cominciare delimitando i confini. A maggior ragione ora che Leo sembrava non averne più. Che c’entravano Anversa, Lille, Klagenfurt, gli autostop, il buco nero nella spiaggia con la piccola università francese in cui l’avevamo lasciato? E che c’entravano Anversa, Lille, Klagenfurt e anche la piccola università francese col nostro mondo, girino convesso sguazzante nelle risaie, pioppo ben piantato a una distanza imprecisata dalle Alpi (per l’occhio vicinissime, di fatto irraggiungibili come la luna)?

Cresciuti tutti qui, con Milano come unica speranza, un tempo il futuro ci era sembrato attraente solo perché lontano, ma questo allora ci bastava. Lo sentivamo chiamarci come un tonfo nell’aria, o una specie di respiro rotto nelle notti di stellato, o come inedito cielo di madreperla sulle linee rette dei treni e del canale Cavour, o magari era invece quella nube grandiosa che irrideva i piloni dell’alta tensione, equidistanti come i passi di un gigante.
Ci conoscevamo tutti fin dalla preistoria, dall’infanzia delle castagne, perché abitavamo sulla stessa strada, erano gli stessi i cortili che frequentavamo. D’inverno faceva freddo e le risaie si prosciugavano, poi arrivava l’acqua, arrivavano le libellule, le risaie diventavano prati, Tommy, Leo e i gemelli andavano a pescare le rane con tecnica infallibile; quanto alla nebbia, quella era un po’ una costante. Del gruppo aveva iniziato presto a far parte anche una bimba-ginocchia bucate. Oltre che femmina, era nuova del posto, e certe differenze a quell’età si notano: il suo ingresso era stato approvato solo dopo una votazione combattuta. Comunque alle biglie e al pallone ci giocava bene, anche se un po’ troppo spesso aveva l’abitudine di correre dietro al gatto. Quello che voglio dire è che non fu un amore di latte e ovomaltina, il vento di quei giorni spazzava il cielo e le Alpi e ci impediva anche solo di concepirli, certi pensieri. Per noi Giorgia era una del gruppo, un po’ diversa dagli altri ma mica poi troppo.
Esistono addirittura delle foto, di quei primi anni. Anche se in nessuna ci siamo proprio tutti, è come se gli altri fossero rimasti fuori inquadratura solo per caso o inadeguatezza tecnica e, a volte, riguardandole, ho l’impressione di vedere un’altra mano, un altro ciuffo di capelli che cerca di farsi strada sul margine sinistro. A casa mia di queste foto ce ne sono tre. La prima è una foto di classe. Leo, più alto, è nella fila in fondo, in piedi sulla panca, con i capelli lisci e una di quelle dentature compatte e spropositate che si vedono solo tra i bambini o tra gli attaccanti sudamericani delle squadre di calcio. Ivan è quasi davanti a lui, biondiccio e un po’ allucinato, col colletto del grembiule macchiato d’inchiostro (o magari era una grossa mosca). Io sono al centro del gruppo, con la testa come al solito inclinata a sinistra, inequivocabile per il mio sguardo obliquo da piccolo criminale che non corrispondeva a nulla ma io ne andavo tanto fiero. Mio cugino Tommy non c’è. Sarà stato malato (gli capitava spesso in terza elementare), o per rane, o che so.
La seconda foto è forse ancora più vecchia ed è un compleanno nella sterminata casinfanzia di Diego. Qui siamo quasi al completo, disposti attorno a una tavola stracolma. Leo, Tommy, Ivan e io siamo seduti vicini a sinistra (solidarietà di classe). Il lato destro è meno compatto: Renato ha la testa praticamente tuffata nella torta; Diego è girato dall’altra parte (cerca di chiamare la mamma in aiuto?); chiudono la fila i gemelli, che sembrano molto più piccoli degli altri, come chi sa già che tanto non è il caso di darsi troppa pena di crescere, perché c’è un soliloquio del sangue su cui potrai sempre contare. Al centro della foto spicca un vuoto nella disposizione dei posti. Sarà un’impressione, ma è un vuoto doloroso. Possibile che lì ci dovesse essere Giorgia? Di quando sarà la foto? La conoscevamo già la nostra futura principessa? Non sarà mica che lei in quel momento era sotto la tavola e, non riuscendomi a ricordare e non potendo per ovvie ragioni sbirciare dietro la tovaglia, non sarà mica che già allora stavamo per perderla nel modo più idiota ancor prima di averla trovata?
Giorgia, eccoti nella terza foto. È l’anno delle grandi piogge, quando la via centrale è stata sommersa dall’acqua, e insieme a essa anche la bottega del mio nonno panettiere, dove io avevo l’abitudine di rintanarmi dopo la scuola. Non riesco proprio a capire chi mai ci avesse potuto scattare questa foto, e comunque eccoci qui, io e Giorgia e Leo e Tommy, che la stradafiume quasi trascinava via e però contenti con i nostri stivaletti. Dietro di noi, un portone semispalancato lascia intravedere uno dei cortili che frequentavamo poco, e che ora ha tutta l’aria di uno di quei posti che da grande ti ricorderai solo vagamente e che avrai paura di non trovarlo più perché te lo sei inventato. La foto, per essere onesti, non è affatto buona, è un po’ mossa, difficile dire che aspetto avesse Giorgia a quell’età. Anche i colori devono essere un po’ troppo saturi. L’indizio non sta nel mondo, che è tutto nero e grigio e marrone per la pioggia, ma lo si può capire dalle trecce di Giorgia che sbucano da sotto il berretto. Specialmente quand’era bimba, era sempre stata un po’ portata a quel colore rischiosissimo che è il rosso, ma questo rosso è sicuramente troppo rosso.
È un po’ tutto così, come nelle foto. Uno va in cerca di presagi, indizi, premonizioni, o qualche dritta sul futuro. Ma è solo dopo, è solo nei ricordi che il gioco funziona per davvero. Nessuno avrebbe potuto intuire, in quegli anni di vento e libellule e Alpi lontane, il tema di fondo di questa storia. Che in realtà è semplice: la natura collettiva dell’amore. In una notte qualsiasi, notte di nuove inquietudini e scuola media, Giorgia sognò una rosapesce quasi perfetta. La notte successiva noi tutti sognammo un gattoserpente rudimentale (la coda di pelo e quella di scaglie erano legate con lo spago). Da quel momento Giorgia per noi non fu mai più una bimba-ginocchia bucate.
Cosa diventò, dunque? Difficile dire se fosse esattamente la stessa per ognuno di noi. Io avevo perfettamente memorizzato la sua voce e ora ne cercavo traccia in tutte le parole che sentivo pronunciare, a scuola a casa per strada, in modo da imparare a riassemblarla, per ogni evenienza. Tommy era particolarmente fissato con i capelli, che siccome era portato per il disegno provava incessantemente a riprodurre all’acquerello, ma era sempre disperato e insoddisfatto (dal che noi altri tirammo la facile conclusione che sarebbe diventato un artista, cosa che poi non avvenne). Renato (meno romanticheggiante di noi) scrutava cocciuto lo sbocciare del suo corpo, sicuro che fosse percettibile come lo spostarsi di una nuvola. Leo affermava che mai nessuna ragazza aveva camminato il mondo con passo più elegante. Diego che non era per il passo che si distingueva, ma per come incrociava i piedi quando stava ferma. Ivan (poco disposto a dar soddisfazione) ogni tanto ammetteva che aveva degli occhi non male, e che comunque prima o poi sarebbe diventata una gattara persa come quella semimentecatta di sua madre. I gemelli, loro, vedevano in lei qualcosa di più indefinito, da qualche parte sulla strada che porta dalla mamma alla luna.
Durante le vacanze il nostro stato degenerò. Quando non eravamo con lei – nel qual caso ce ne stavamo tutti ebeti e poco collaborativi – cercavamo sollievo sulla terrazza di Diego, da cui scrutavamo il cielo per seguire le battaglie tra le forze della terra e le astronavi di Vega; sui cigli dei fossi ci dedicavamo a sterminati m’ama-non-m’ama usando premeditatamente le bocche di leone al posto delle prataiole; Tommy e Leo abbozzarono uno smaccato e complicatissimo piano di suicidio che non merita neanche di essere ricordato. Il mondo insomma non ci era più amico. Le Alpi erano una chiostra di denti digrignata. Le nuvole, dei parallelepipedi più pesanti e artificiali delle automobili. Le rane e le libellule si erano fatte troppo smaliziate per noi. Una volta che vidi per caso un rododendro, la prima cosa che mi venne in mente fu un dodecaedro.
Mammaluna, treccerosse, gambe-a-scale. Rosapesce.
Esasperati, in una notte di sagra e di autoscontro ci mettemmo tutti in fila per provarci, facendoci gli auguri a vicenda ma dentro di noi intuendo che in fondo sarebbe stato meglio se ci avesse rifiutati al completo. Così avvenne. Disse che per lei eravamo come dei fratelli. Il suo rifiuto e l’autunno ovattato portarono un po’ di sollievo, ci aiutarono a capire cos’era che si agitava in noi, a capire cos’era che ci teneva uniti. Ogni volta che Giorgia spariva nella nebbia a giocare col gatto noi iniziavamo a parlare di lei, della sua galassia, ed era veramente difficile capirci qualcosa, era veramente impossibile dire che uno di noi ti amasse in modo più sincero degli altri. Sai, questa non so se fosse una cosa bella o brutta da pensare, ma ci servì a rafforzare il patto. Il nostro in fondo fu un caso particolarmente acuto di quella legge senza nome degli amori adolescenziali che si manifesta, per esempio, nell’intercambialità delle sorelle. Fu in quel momento che iniziammo a scrutarci, se non a pedinarci. Sapevamo che nessuno di noi avrebbe potuto tollerare di trovarsi una ragazza che non fossi tu, a pena di perdere la propria identità, o, se anche fosse successo per un qualche momento di debolezza, non avrebbe osato presentarla agli altri. Ci controllavamo, ci fiutavamo, ci temevamo come gatti in pena (anche se, beh, a questo punto lo scopo era diverso). Facevamo comunque in modo di non diventare del tutto ossessivi con il nostro spiarci a vicenda: qualche esperienza dovevamo pur concedercela, bastava non si sapesse in giro.
Trascorsero così gli anni del liceo, durante i quali io litigai con Tommy perché aveva iniziato subito a fumare, e Giorgia andò sviluppando una qualche somiglianza con Patsy Kensit. Il gruppo c’era ancora, ma il magnetismo originario si era un po’ perso, procedevamo per forza di volontà, come uccelli che migrano in mezzo a una tempesta. Gli intoppi insomma erano tanti, e anche i gatti che invitavano Giorgia ad assentarsi. Noi allora le facevamo la ramanzina, puntualizzavamo che solo un gruppo ti mette al riparo dalla nebbia e i brutti incontri, ma lei non ci dava più retta come una volta.
A ripensarci, l’unico avvenimento davvero notevole fu una festa alla fine dell’ultimo anno, prima che iniziassero gli esami. Quella notte a casa di Diego avevamo invitato quasi tutti i nostri compagni di classe, ma noi ci distinguevamo perché ci capitò di pensare tutti all’immortalità: Diego ascoltando gli U2; Ivan ascoltando gli Smiths; Renato ricordandosi di una scena di Fino alla fine del mondo che aveva appena visto; Tommy sigaretta in mano a scutare il cielo alla ricerca di Sirio e Andromeda (che non aveva neanche la minima idea se fossero visibili); io perché allora ci pensavo spesso; i gemelli rendendosi improvvisamente conto che sembravano più giovani di tutti gli altri; Leo (c’era una luna baldanzosa) baciando Giorgia. Dico subito che fu scaricato il giorno dopo, e questo servì a evitare la crisi di gruppo. L’episodio merita tuttavia qualche parola in più, perché credo che lui ci rimase male. Cos’era successo? Erano là, l’aveva abbracciata, e aveva visto i suoi occhi tondi che si sollevavano a guardarlo (lei non era tanto alta, Leo invece sì), e un calore venuto su da non si sa dove, e lei che non aveva propriamente detto niente, solo qualcosa a metà tra un singhiozzo e un tossicchiare subacqueo, metà risatina e metà sasso nello stagno. Cos’aveva pensato lui? Qui le parole, mi ricordo, gli erano venute meno, si era limitato a sorridere, rivolto a noi disposti in cerchio come inquisitori, e sì, a scuotere la testa. Giallo. Fotosintesi. Filogenesi. Meiosi. Mitosi. Africa. Croce del Sud. Ma è solo un’ipotesi la mia.
Con questo, non vorrei dare l’idea che Leo fosse speciale rispetto a noi. Un po’ magari lo era anche, ma solo nel senso che aveva meno pudore, meno freni, era insomma uno che in generale si buttava di più, sempre pronto a battersi per un’idea o per una sorella. Ma a parte questo fu un puro caso: resto convinto che chiunque di noi avrebbe potuto trovarsi al suo posto. Comunque, la cosa non portò rancori, e oltre tutto, subito dopo gli esami, la notizia che Giorgia sarebbe partita e andata a studiare in un’altra regione (un’altra regione sul serio, mica a Milano) ci colpì e ci lasciò secchi.
L’addio avvenne in un piccolo parco di periferia. Seduta sull’altalena, Giorgia rispondeva a poco più che monosillabi (doveva essere commossa anche lei, ci illudevamo):
– Ma tornerai spesso?
– Non so. All’inizio non credo. Poi…
– Poi?
– Poi dopo che mi sarò ambientata…
– Magari anche noi potremmo venirti a trovare…
– Eh! Magari sì…
– Ti voglio bene, neh.
Una risatina, e la testa sempre più color ranuncolo che annuiva. Non era proprio il massimo, nel genere dialogo d’addio, ma anche lei a sentirsi ripetere otto volte le stesse cose si sarà ben stancata.
Partì insieme ai suoi genitori una mattina di settembre. Noi, acquattati dietro una staccionata, la vedemmo salire in macchina con la rassegnazione con cui si accoglie il vento che si leva. Secondo Tommy somigliava a un batuffolo; secondo Diego a un falco pellegrino; secondo Leo allo spiumarsi dei soffioni; secondo i gemelli a qualcosa che non avremmo rivisto mai più. Quella notte, dopo aver fantasticato di un palloncino rosso che sarebbe planato ai nostri piedi con legato al cordino il suo nuovo indirizzo, nei sogni il gattoserpente si precisò. L’insieme era più coerente, e soprattutto rognoso come un groppo in gola.
Tornò, certo, anche se non spessissimo, nessuno di noi era mai stato davvero del tutto pessimista come i gemelli. Però non era la stessa cosa. Lentamente, anche noi ci perdemmo quasi di vista, quasi offesi da un mondo che non si conformava alla nostra ragnatela di desideri. Chi studiava a Milano, chi aveva iniziato a lavorare. Le Alpi si allontanarono, le libellule cominciarono a non tornare più, per le rane più che altro a una certa età perdi l’interesse. A questo punto la notizia che Giorgia, finita l’università, era partita per specializzarsi in Francia non procurò più che una fitta attutita. Per esperimento provai a riassemblare la sua voce e scoprii di non esserne più capace. Chiamai mio cugino (l’unico con cui avessi tenuto contatti stretti) e tra una boccata e l’altra mi confermò che mai era stato più lontano dal riprodurre i suoi capelli (che oltre tutto erano già mutevoli di loro). Pazienza. Forse stavamo crescendo, o forse invece nel cuore non avevamo una rosapesce, ma ancora un girino rattrappito. Solo un mese dopo venni casualmente a sapere che Leo invece non ci aveva rinunciato. Aveva deciso di partire anche lui, per ritrovarla e magari anche convincerla a tornare. Un tempo non sarebbe stato ammissibile lasciarlo andare da solo, ma a questo punto ne aveva tutto il diritto. Passò un anno prima di risentirlo.

Le telefonate successive non furono più annunciate dal gattoserpente. Ora la cosa funzionava in modo più casuale, una volta telefonava all’uno, una volta all’altro, così che fummo quasi costretti a ricompattare il gruppo. Dov’era quando ci telefonava? Non era mai chiaro, ci teneva aggiornati solo sui fatti recenti, ma su se stesso non scendeva mai nei particolari. Qualche volta si intuiva sullo sfondo la pioggia che strofinava i suoi polpastrelli su una finestra friabile. Un’altra volta il rumore di fondo rendeva quasi indistinguibili le parole, come se ci stesse chiamando dal centro di un incrocio. Meno spesso – ma il risultato era molto più allarmante – il silenzio era perfetto, tondo e bianco, come se ci stesse chiamando dall’aldilà.
Le storie che ci raccontava appartenevano soprattutto al repertorio dei grandi classici degli inseguimenti d’amore. Zoo, musei, battelli, grandi metropoli, ponti, macchinette per fototessera – non mancava niente. Sì va bene – lo avevamo interrotto la prima volta non appena avevamo notato la sua tendenza a perdersi nei particolari, a confondere i tempi – però com’è che è iniziata? Com’è che sei arrivato lì? Quanto ci sei stato? Perché non l’hai trovata subito?
A dire il vero l’inizio era stato anche abbastanza lineare. Nonostante avesse qualche soldo da parte, per risparmiare era arrivato a Mentone in autostop, e di lì aveva raggiunto Limoges in treno, passando il tempo tra il pensiero di Giorgia e lo stupore di una campagna così verde, vuota e praticabile, mentre da noi si sa che una volta passato il Ticino è tutto cemento, e anche sulle risaie non è che ci puoi camminare. Sceso a Limoges, si era probabilmente illuso di beccare Giorgia a botta sicura, ma non gli era andata bene, già, perché nel frattempo lei aveva conosciuto un italiano che faceva uno stage alla Comunità europea, e insieme – Leo aveva interrogato delle studentesse che si dicevano grandi amiche di lei – erano partiti per una vacanza in Bretagna. Senza neanche fermarsi a pensare, Leo aveva preso un po’ di treni a caso e si era trovato a Nantes. Fu qui, in una notte che doveva essere stata ben strana, che Leo iniziò a rendersi conto che poteva anche non essere facilissimo ritrovarla, lasciando perdere poi la questione di come patteggiare col rivale. Sdraiato ai piedi del monumento di Giulio Verne Leo ammise che la Bretagna non è poi così piccola, si rincuorò perché la notte era tiepida, alzò gli occhi verso un cielo che gli sembrò piuttosto diverso dal nostro, infine prese la decisione di giocare d’anticipo e correre a Bruxelles.
In Belgio all’inizio le cose si misero bene. Appena arrivato alla Gare du Midi fu incuriosito da una conversazione che si svolgeva alle sue spalle in una lingua sconosciuta ma che gli fece pensare allo yogurt al miele e a una buffa danza saltellante. Si voltò, e i due ragazzi greci dovettero vederlo così sperduto che se lo presero subito in simpatia e in casa. Iniziò così un periodo felice, almeno da un punto di vista pratico: feste, lavoretti, qualche soldo in tasca. Di Giorgia però nessuna apparizione. Leo vagava minuziosamente per la città ogni volta che aveva qualche ora libera, pattugliava le zone che lei avrebbe prevedibilmente dovuto frequentare. Una sera soltanto ebbe l’impressione di vedersela dall’altro lato della strada a braccetto con un tipo appuntito e in impermeabile. Era così sconvolto che dovette dirsi: su, dai, corri. Dirsi: ti scongiuro. E finalmente l’asfalto iniziò a scivolare sotto le sue scarpe. Giorgia era lì, tutta bionda, davanti a lui, quasi a portata di voce. Svoltò in una traversa col suo accompagnatore, ma una volta che anche Leo ebbe passato l’angolo si accorse che di Giorgia non c’era più traccia, e che la traversa aveva perfidamente deciso di travestirsi da vicolo cieco.
Voci raccolte grazie agli amici greci lo portarono all’identificazione del rivale italiano e alla notizia che aveva appena litigato con la sua ragazza, la cui descrizione più o meno poteva corrispondere. La ragazza in questione, inviperita, aveva sbattuto la porta ed era tornata a Limoges. A sua volta Leo fece i suoi addii e partì per raggiungerla con la velocità di un proiettile. A Limoges le stesse amiche, ormai incuriosite e maliziose, lo accolsero con la cronaca di una riconciliazione e di una partenza in coppia per Berlino. Anche a Berlino, Parigi, Amsterdam, Berna, eccetera, lo schema non sarebbe cambiato: Leo non avrebbe mai incontrato Giorgia, ma ne avrebbe ricostruito gli spostamenti basandosi su voci molto indirette (che la sua cattiva conoscenza delle lingue doveva ulteriormente intorbidire). Quell’ingenua sicurezza che nutriva alla partenza, diventata sfiducia a Nantes, ora si era trasformata in ossessione ma a volte anche in euforia. Avrebbe voluto acciuffarla. Avrebbe voluto abbracciarla e chiederle di ripetere quel suo tossicchiare sottomarino, metà risatina e metà sasso nello stagno. Avrebbe voluto sedersi di fronte a lei al tavolino di un caffè, dove, divisi da una tazzina innocente, avrebbero urlato i loro nomi: Giorgia Giorgia Giorgia, Leo Leo Leo. Rosapesce. Gattoserpente.
Se la vita somiglia a una partita a quattro cantoni (o a palla avvelenata) era una partita decisamente frenetica la sua. Passò una notte su una sponda del Neckar con un’ipotetica amica tedesca di Giorgia che sparì prima dell’alba. In una pubblicità di un deodorante sulla televisione spagnola riconobbe le ascelle di Giorgia in primo piano (aveva ascelle bellissime, appena appena piumate). A Londra si imbattè nella fila di candidate (non troppo numerose, ormai) al concorso Becoming Patsy, dove individuò più di una sosia di Giorgia e subì la tentazione di accopparle tutte. Quello delle sosia, lo dico tra parentesi, stava diventando un problema serio. Di solito le strade e i treni della nostra vita sono pieni di prove, schizzi, abbozzi del futuro grande amore. Esiste anche una brutta espressione per parlare di queste prime prove: mettere a fuoco il nostro tipo. Per Leo, come per noi tutti del resto, questo tipo, questa idea, questo amore c’era già, c’era sempre stato anzi, e le altre erano quindi solo delle ingannevoli contraffazioni. Che lo tentavano. O si volatilizzavano nella luce dopo avergli fatto sbagliare strada. O si limitavano, con la loro imperfezione, a sottolineare la perfezione dell’idea originaria.
Come reagivamo noi a queste storie? Ormai andavano avanti da mesi, ma era difficile dire. Certo, c’era una grande attesa delle telefonate di Leo, che restavano rade, passavano anche mesi dall’una all’altra, e comunque mai meno di qualche settimana. Ci chiedevamo chi sarebbe stato il prossimo a ricevere sue notizie (non esisteva, a quel che ci sembrava di capire, nessuna forma di rotazione, forse decideva in base a chi aveva più voglia di sentire, forse addirittura andava a caso), segnavamo sui nostri atlanti i suoi spostamenti col pennarello, tentavamo di prevedere quali sarebbero stati i prossimi, facevamo scommesse. C’era una folle allegria in questo, ci sembrava di essere tornati uniti grazie a lui, ci sembrava che i suoi viaggi ci portassero fuori dal nostro mondo come un tempo le storie del Sudamerica, dell’India e del Golfo della Sonda. Solo che la vegetazione e i territori erano molto diversi, e invece della luna e della pampa, dei Gangi e le mangrovie, adesso nelle nostre allucinazioni vedevamo malinconie urbane più significative delle nostre, prati impolverati e periferie insondabili, ponti sulle autostrade e stazioni abbandonate a sognare il ritorno dei treni. Ma che c’entrava l’amore con tutto questo? Che c’entrava l’amore con questo mondo in cui poteva entrare solo come assoluta illusione o assoluto rifugio, troppo o niente?

Sognai la rosapesce. Non nel modo in cui ci eravamo abituati a dire ho sognato rosapesce, ho sognato gattoserpente, così giusto per far capire che ci eravamo lasciati prendere dalle nostalgie. No, sognai proprio lei, la rosapesce, dallo spesso velluto dei petali fino alla punta della coda muscolosa. Non mi sarei mai aspettato che si staccasse così totalmente dal fondale nero del sogno, né che la sua carnosità fosse tanto ammaliante. Al risveglio piangevo, ma almeno ero preparato alla notizia che mi sarebbe presto arrivata con una telefonata di Tommy: Giorgia stava tornando per sposarsi.
Non ci chiamò, ma possiamo ben scusarla, perché non tornò veramente in paese, ma prese già casa a Milano col futuro marito, e da lì facevano delle puntate per i sopralluoghi del caso. Però gli inviti alla cerimonia ci arrivarono, questo sì, e su un biglietto piuttosto di buongusto. Di lui sentimmo dire che era un tipo in gamba, elegante bravo ragazzo, forse un po’ troppo magro. Lei l’avvistò Ivan una volta per strada, ma era lontana e non da sola, quasi irriconoscibile da quant’era diventata signora, e a lui non venne neanche da rincorrerla, ma magari era l’emozione. Ci chiedemmo se non fosse il caso di dirlo a Leo, ma era da un po’ che non si faceva vivo, e ovviamente noi non avevamo modo di contattarlo.
Il matrimonio avrebbe avuto luogo uno degli ultimi giorni di un maggio afosissimo, in una chiesina di campagna che conoscevamo bene. Mentre andavamo là stipati sul furgone della ditta traslochi dei gemelli, consultandoci con gli occhi decidemmo che non saremmo entrati. Parcheggiammo il furgone sul ciglio di una risaia, tra un pioppeto e l’autostrada, giusto per non farci scoprire e poi perché abbandonarlo in mezzo a tutte quelle targhe straniere ci avrebbe fatto strano. Dalla nostra posizione defilata vedemmo Giorgia arrivare in ritardo, immutata perché lontana, ricamata e biancovestita come nei sogni, mica solo nei matrimoni. Riparati dietro ai pioppi immaginammo in qualche modo la cerimonia, identificandoci in un canto popolare maledicemmo la sorte bastarda e contemporaneamente augurammo alla nostra stella polare ogni possibile felicità.
Del resto, che pretendevamo? Ormai non eravamo più puri, eravamo scesi a compromessi, non eravamo più immuni dall’ipocrisia. Giorgia non era stata la prima a sposarsi, ci avevano già pensato anche Diego e Renato, e per quanto ne sapevo le cose non stavano andando troppo male. Qualcosa si vociferava anche riguardo ai gemelli, ma io non ci credevo troppo. Ancora adesso, sembravano molto, molto più giovani di noi, che eravamo chi più chi meno normalmente invecchiati. Ma basta così. Ci rimettemmo il cappello, un ultimo bacio all’aria e il rito era finito. Il nostro, mica il matrimonio.
Qualche giorno dopo, a un’ora impossibile, Leo mi telefonò. Avrei preferito non essere io a dirglielo. La sua voce era un misto di commozione e tristezza introspettiva da secondo giro di birra. Non mi disse neanche da dove chiamava, né da quel che raccontò lo si poteva capire. La sera prima aveva incontrato Giorgia – disse proprio così – per caso nel parco dove lui andava ogni pomeriggio a vendere noccioline rinforzate al caramello. Mentre stava tentando di sedurre i genitori di una coppia di bambini dall’aspetto particolarmente ghiottone l’aveva vista girare attorno a un’altalena con i suoi passettini più leggeri della pioggia e l’aria di chi gioca o sta cercando di ricordarsi qualcosa. Tentando senza successo di liberarsi della tracolla di noccioline si era precipitato verso di lei, ma doveva averla spaventata. Avvicinandosi, aveva visto i suoi occhi infrangersi, poi l’aveva vista scappare. Nel parco c’era folla, e Giorgia non era tanto alta, e l’aveva persa subito là in mezzo, come del resto anche le noccioline. Mi disse che era triste come pensiero, ma non era mai stato più vicino a riabbracciarla (povero Leo, ti sei bevuto il cervello), a rivedere quel mare di ranuncoli, a risentire quel calore, e quel gorgoglìo, e quella risatina dal fondo dello stagno. Giorgia. Giorgia. Giorgia.
– Senti… – iniziai a dire, ma era meglio di no, meglio non dirlo, meglio non svegliarlo. Non mi faceva piacere ammetterlo ma lo invidiavo anche, non l’avevo mai sentito più speciale. Dissi invece:
– E tornerai al parco?
– Sicuramente sì. Prima o poi le parlerò. Sto facendo dei progressi.
– Giusto.

Passò ancora qualche tempo. Leo ogni tanto mi chiamava (ormai telefonava quasi solo a me) e mi teneva aggiornato su come non si fosse perso d’animo. Io invece mi ero quasi del tutto cosificato. Di notte i miei incubi erano ritmati dagli spari del poligono al di là della provinciale, tanto che meditavo di rompere il cagnolone di coccio per comprarmi i doppi vetri. Di giorno mi muovevo nel territorio con il po’ di libero arbitrio che mi restava, cioè non più dell’istinto di migrare da casa a lavoro, da lavoro a casa. Unica cosa, ogni tanto mi capitava di fermarmi a guardare i bambini giocare, attratto dai movimenti irreali e frenetici dell’infanzia in superotto. Nuvole allucinate, sole gigante. Scappavo subito a casa.
In breve, quell’anno lo passai a valutare se fosse il caso di sistemarmi o no con una brunetta che aveva il grosso vantaggio di essere diversissima da Giorgia. Ogni volta che ero sul punto di decidermi sognavo un pioppo gigante che innervava e frantumava il cielo, ma forse, pensavo, era quello l’unico modo di vivere in questo mondo pieno di rane ma senza più libellule, accampato sotto cieli inconsistenti, minacciato dagli spari al di là della provinciale. Le telefonate di Leo le ascoltavo sempre con grande piacere, ma ora non invidiavo più il suo mondo, o al massimo come si invidia quello di un film – un’illusione, una palla di vetro con dentro Venezia e la neve.
Ma non era ancora tutto finito. Leo non si era bevuto il cervello e Giorgia cominciò a farsi rivedere con qualche regolarità. No, non la Giorgia che era andata sposa, che viveva a Milano e che (notizia raccolta da Tommy al bar) aveva prontamente dato alla luce due gemellini con le guance color lampone. A dire la verità non era neanche chiaro se fossero la stessa Giorgia. Arrivavano all’improvviso, come delle apparizioni, fatemorgane tra i soffioni che fanno la muta o lo sciamare dei moscerini della frutta. Avevano espressioni assenti, sottogenere allarmate, come se si fossero appena riprese da un viaggio al triangolo delle Bermude o dallo sterminio della loro famiglia in seguito a follia e a una motosega. Quando le avvicinavi ti rivolgevano al più un sorriso siderale. Se facevi un altro passo ecco che prendevano freddo, si agitavano e scappavano via.
Come ho detto, non era chiaro se fossero la stessa persona. C’era sempre qualcosa di impercettibilmente diverso, come in un gioco della “Settimana enigmistica”. Una volta era l’età, un’altra il tono dei capelli, o l’eleganza del gesto, o le dimensioni della testa. Iniziammo gradualmente ad afferrare la logica sottile delle apparizioni, perché era sempre a uno solo di noi che capitava di vederle, e quell’uno era sempre diverso. Il primo era stato Tommy, che aveva visto scantonare quei capelli dietro la chiesa. Seguì Renato, che non si era mai dimenticato di quel corpo flessuoso. Una mattina Ivan si era sentito fissare da occhi magnetici – non era un gatto, era lei. Diego scorse su un autobus due magnifici piedini che si stringevano l’un l’altro, e gli bastò. A un gemello apparve la mamma, all’altro la luna.
Mancavo solo io, evidentemente, ed era un’occasione che non si poteva lasciar perdere, dal momento che era l’ultima. Rinunciai alla mia quota di privilegio e proposi che finché l’apparizione non fosse arrivata avremmo dovuto provare a muoverci il più possibile in gruppo. Questo di per sé fu una cosa bella: camminavamo tra i cumuli delle foglie degli ippocastani e stavam contenti, la sera facevamo lunghe passeggiate in centro e parlavamo del tempo passato, quando la notte si metteva i jeans neri era tutti insieme che andavamo a divertirci. Lei non arrivava ancora, ma il pensiero di quell’ultima Giorgia, imminente benché lontana come Aldebaran, ci teneva caldi, e si può dire che ci rendessimo conto solo adesso di come viveva Leo, di quanto fossero significative le sue giornate, di che fuoco potesse ardere quello che a prima vista era un amore più sterile di quello per la luna.
La cosa successe in un traslucido tardo pomeriggio di novembre. Passeggiavamo per i vialetti di un parco di periferia non proprio casuale quando mi sembrò di vedere un’ombra che prendeva posto sull’altalena. Sapevo chi era, sapevo già che sarei stato io a scorgerla per primo, e sapevo anche che in ogni caso il primo approccio toccava a me. Dovevo muovermi con cautela. Dissi agli altri di tenersi riparati dietro ai tigli, poi da solo cominciai ad avvicinarmi lentissimamente, non per mia volontà ma perché il vento mi sospingeva insieme alle foglie. Ora la vedevo meglio. Portava una maglietta leggera e le superga bianche, un abbigliamento inverosimile per quella stagione. Dal seggiolino dell’altalena ogni tanto si chinava in avanti e tendeva la mano (credo rivolta al musetto di un gattofantasma); ogni tanto invece mi sbirciava, per tenermi sotto controllo.
A una cinquantina di passi mi fermai. La nebbia si stava già alzando ma ero talmente vicino da vedere che ormai non mi sbirciava più, ormai mi fissava.
– Rosapesce, – mormorai. Poi più forte: – Rosapesce, capisci?
Forse era una mia impressione, però mi sembrava capisse.
– Rosapesce, – disse anche lei, come sbadata. Fu sufficiente quella sola parola perché mi tornassero in mente tutte le infinite inflessioni della sua voce, i pomeriggi e pomeriggi che avevo sprecato per ricostruirle e subito dopo perderle.
– Ciao Giorgia, – dissi.
Non so se fosse una risposta o una variazione nel modo di volatilizzarsi, però lei si alzò (io cuore in gola) e si avviò fuori dal parco, ma senza allarme, senza gelo, senza correre. Chiamai gli altri e iniziammo a seguirla. Finalmente non era solo Leo, finalmente anche noi ci stavamo dando da fare. La nebbia era diventata consistente, ma non sembrava che lei ci volesse seminare. Noi la seguivamo a breve distanza, come ipnotizzati (batuffolo, ranuncolo, soffione, falco pellegrino), e la guardavamo camminare verso il centro con l’aria di chi non ha scelto una direzione, di chi è pronta a innamorarsi per sempre e perdutamente del primo che la fissa. La coincidenza improvvisa tra una fermata e un autobus di passaggio la indusse a salire. Per noi era troppo tardi, o troppo irrispettoso. Ci fissò dal finestrino buffa e impertinente come uno di quei bambini che cercano di comunicare tra una macchina e l’altra in autostrada, poi sul vetro iniziò a scrivere il suo nome con un dito. Non arrivò oltre la erre. Speriamo che non se lo fosse già dimenticato. Speriamo che fosse perché aveva capito che il bus stava per partire, o perché a scrivere al contrario ci si impappina.
Osservammo il bus farsi largo a manate nella nebbia ormai folta come un campo di granturco, poi sparire. Avessimo avuto tutti un fazzoletto, l’avremmo usato per salutare e poi asciugarci le lacrime. Peccato, ma forse da qualche parte avevamo anche noi dei doppi, dei sosia, delle benevole contraffazioni che avrebbero trovato miglior fortuna. Dico solo che sarebbe stato bello riuscire a trattenerle non dico tutte e sette ma almeno una per aspettare insieme le telefonate di Leo. Giocando a moscacieca ci perdemmo nella nebbia.

(il Caffè illustrato, 23, marzo-aprile 2005)


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