Come leggere un racconto – Raymond Carver /19

Da Marcofre

Poi, non so, mi sono ricordata di quando Wes aveva 19 anni, (…)

Then, I don’t know, I remembered how he was when he was nineteen, (…)

Edna a questo punto ricorda. È qualcosa di improvviso, una sorta di lacerazione che fa emergere un episodio distante nel tempo. Lei e Wes coi figli piccoli, erano andati a trovare il padre di lui. È solo un frammento, la semplice esposizione di quel fatto.

Eravamo appena arrivati in macchina dalla California.

We’d just driven up from California.

Ma questa rievocazione avviene in un momento un poco particolare. Edna ha appena accettato la realtà, quel Wes così diverso da come avrebbe voluto, e su cui anni di alcol hanno agito in maniera irrevocabile e profonda. Ma gli esseri umani sono bizzarri. Nel momento in cui lei dichiara (lo abbiamo visto la scorsa volta): “Wes, mi sta bene”, si avvia il ricordo. Di come lei, e lui e i bambini erano. Tutti assieme.

Adesso i figli sono distanti, conducono la loro vita, forse hanno del rancore nei confronti dei propri genitori (di certo ce l’hanno verso il padre).

Edna però non può impedirsi di accarezzare nel ricordo quella distante immagine di sé. Di loro. A una prima occhiata, pare essere un frammento messo lì per “allungare il brodo”. Anche questo, piaccia o no, fa parte del mestiere, e tutti gli autori lo sanno e vi ricorrono. Buona parte dei lettori nemmeno se ne accorge; sono pochi coloro che leggono con quella attenzione che permette di gustare la storia come se fosse un buon piatto.

Carver in questa parte del racconto, inserisce questo frammento, lo “cinge” e prosegue verso il finale. Qualche riga dopo aggiunge:

Il padre di Wes ormai era morto e i ragazzi si erano fatti grandi.

Wes’s dad was gone and our kids were grown up.

È uno stacco che ci riporta a quell’oggi pesante, che occorre accettare, caricarsi sulle spalle e proseguire. Assieme certo, perché il senso dell’essersi ritrovati a vivere ancora nella casa di Chef era quello. Ma Edna si congeda dal passato in maniera asciutta; la mano di Carver è qui, senza dubbio.

Ancora una volta la lezione c’è, basta avere occhi per vederla, e grande attenzione. Sì, è anche necessario conoscere il modo di lavorare dell’autore, perché in questo modo si riesce con una buona approssimazione a comprendere cosa lo ha spinto a scrivere una cosa. O a inserire un frammento.

Quando si parla del passato, soprattutto se sereno, la tentazione di eccedere esiste; in realtà esagerare è quasi sempre una tentazione che occorre tenere a bada. In questo momento del racconto, spendere qualche frase in più su quegli anni distanti poteva persino essere interessante. O forse no.

Nel racconto, c’è un elemento che occorre sempre tenere in considerazione: è un racconto. Non vuol dire affatto che è sufficiente scrivere qualcosa di breve, no. Così come un romanzo non è quella roba che si sviluppa per 800 pagine.

Nel racconto c’è un cuore che deve essere messo nelle giuste condizioni per battere perfettamente: da principio alla fine. È un cuore che deve comunicare forza, trasmettere al lettore un sentimento caldo e nitido, in modo che lasci un segno profondo.

Il romanzo è una creatura differente: deve “muoversi”, quindi non è sufficiente che ci sia un cuore, ma attorno deve vivere un ecosistema in grado di camminare, condurre il lettore distante.

Basta confrontare “Guerra e Pace” con “La morte di Ivan Ilic”, che sono dello stesso autore, l’ottimo Lev Tolstoj. Il primo prende in mano la Storia, la innesta perfettamente sulle vite di tanti personaggi, più o meno importanti (ci sono contadini, e nobili).

Il secondo racconta la vicenda di un uomo che muore. Sono forme senza dubbio differenti, eppure a ben guardare, mettendo da parte le dimensioni, la Storia (del primo), riusciamo a scorgere in entrambi l’elemento che li accomuna. La ricerca del buono, del vero, della bellezza senza compromessi.

Nel racconto appare come un fiume carsico, e si svela al protagonista nella sua brutale chiarezza alla fine, quando si rende conto di aver finto di vivere. Nel romanzo, si snoda attraverso ambienti, tragedie, dialoghi, piccoli gesti di contadini analfabeti; appare, sembra che sia a portata di mano, e un attimo dopo, è già altrove.

Carver scelse sempre il racconto, sino a diventare un maestro indiscusso del genere (anche se verso la fine della sua vita stava lavorando a un romanzo, di cui esistono solo frammenti). Non fu mai una scelta di ripiego, ma una scelta. Difficile, ardua come tutte le cose che hanno a che fare con la parola. Il suo riscrivere rappresentava il desiderio di offrire al lettore una scrittura efficace e di valore. Forse questa “mania” di rivedere ha a volte tagliato via qualcosa che non avrebbe sminuito il valore della storia? Forse: ma se si guarda a quello che ci ha regalato, ci si può persino permettere di fare spallucce.

Ci ha dato tanto, Carver.

Alla prossima settimana.

Come leggere un racconto – Raymond Carver /18


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