Come si può far morire una persona che non è mai vissuta? Questo è uno dei dilemmi che mi sono portato dietro dagli anni dell’adolescenza quando facevo le mie prime riflessioni sull’ordine vigente nel dominio della letteratura d’invenzione. Lo facevo soprattutto per elaborare quei lutti, a volte tremendi, che si consumavano quando chiudevo l’ultima pagina di un romanzo e il destino dei personaggi di cui avevo letto le avventure sfociava nel capitolo aperto della vita vera. I personaggi letteralmente morivano, poiché non producevano più alcun gesto di vita, poiché di loro non si sapeva più niente e non restava che un ricordo destinato a sbiadire nel fondo più scuro della mia mente. Forse è in quei tempi che ho capito cosa fosse, al fondo, il mistero della letteratura: un perfido esercizio elaborato dagli uomini per affrontare la vita esimendosi dal viverla. L’essere umano è infatti l’unica creatura al mondo capace di trasferire la magia della vita in un mondo di sua invenzione, allo scopo ultimo di farsene rivelare con la forza dell’evidenza il vero significato. L’Homo Scribens svolge quindi il ruolo assegnato dall’arbitrio nel gioco della necessità, è il dio a ciclo interrotto, colui che dispone della vita e della morte di un numero indeterminato di personaggi. Io però a quel tempo ero solo un lettore, uno che subiva quei lutti senza avere nessuna voce in capitolo sull’argomento della loro resurrezione. Eppure già soffrivo.