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Come nasce e come muore il secessionismo dell’Ucraina orientale

Creato il 05 settembre 2014 da Alessandroronga @alexronga

bandiera donetskMettiamo per assurdo che all’indomani dell’abdicazione di Juan Carlos il Parlamento spagnolo avesse proclamato una Repubblica che non riconosceva le autonomie della Catalogna e Paesi Baschi: come avrebbero reagito i cittadini di Barcellona e di Bilbao? Nell’Ucraina orientale è successa più o meno la stessa cosa: caduto Yanukovic, il primo provvedimento che il nuovo governo nato dalla rivolta di Piazza Maidan ha varato è consistito nella revoca dello status di lingua ufficiale al russo nel Donbass (un biglietto da visita certo poco lusinghiero per chi si presentava al mondo come “democratico”) seguito dall’annuncio di un’imminente riforma amministrativa volta a ridimensionare le autonomie delle regioni russofone. La crisi ucraina nasce essenzialmente da questo, ovvero dal timore dei russofoni di diventare cittadini di serie B: un timore per nulla infondato, se consideriamo che in Estonia, Paese membro dell’Ue, ai cittadini russofoni è concesso il passaporto e l’accesso ad incarichi pubblici solo previo superamento di un esame di lingua estone.

Ma le analogie con lo storico forte indipendentismo basco e catalano finiscono qui, proprio perchè il secessionismo in Ucraina orientale è qualcosa di inedito, che ha radici negli eventi recenti più che nella Storia. Forse è per questo che l’ipotesi-secessione sembra ormai tramontare man mano che i colloqui di pace vanno avanti in quel di Minsk.

Gli ucraini dell’Est non vogliono staccarsi dall’Ucraina, perchè loro stessi sono ucraini: parlano russo, hanno profondi legami storici, economici, culturali con la Russia ma, a differenza dei loro (ex) connazionali della Crimea, non sono russi. Sono ucraini, e ci tengono anche a sottolinearlo: diversi sondaggi, tenuti nel Donbass all’indomani del referendum che sancì l’annessione della Crimea alla Russia, mostrarono come i cittadini delle neocostituite repubbliche di Donetsk e Luhansk preferivano invece restare indipendenti, piuttosto che confluire anch’essi nella Federazione Russa, dove sarebbero diventati nulla più che una piccola minoranza, per giunta schiacciata nella sua autonomia dal forte centralismo di Mosca.

Che, a dispetto dei timori di Usa, Ue e Nato, dal canto suo nemmeno è interessata più di tanto ad allargare ulteriormente i propri confini. Per averne conferma, basta interpretare la terminologia usata in Russia per descrivere dall’inizio della crisi i ribelli dell’Est: nei comunicati emessi dal Cremlino e dai media più filogovernativi i ribelli sono sempre “federalisti”, anzichè “secessionisti” o “indipendentisti” come invece erano definiti quelli della Crimea.

Nel nome della lingua comune, della secolare sindrome d’accerchiamento di cui soffre la Russia e delle imponenti riserve di shale gas presenti a Donetsk, Putin cerca con le regioni orientali ucraine legami sempre più stretti: che tradotto vuole dire influenza, ma certo politicamente più gestibile di un’ingombrante annessione.


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