Robert Zemeckis (britannica.com)
Robert Zemeckis (Chicago, 1951) è tra i più abili registi, sceneggiatori e produttori di Hollywood ancora in attività, capace, coadiuvato spesso dall’amico Bob Gale, di imbastire delle sceneggiature perfette e di renderle pienamente fruibili e godibili al grande pubblico.
Caratteristiche salienti di buona parte della sua produzione, un’estrema e concreta fascinazione visiva, in nome di una spettacolarità del tutto funzionale alla narrazione, l’ironia, ed una spruzzata di buoni sentimenti, a volte un po’ invadente, insieme ad una certa prolissità, ma non inficianti più di tanto il risultato finale, l’intrattenimento “puro” ed intelligente.
L’incontro con Steven Spielberg, produttore del suo primo film, 1964:Allarme a New York, arrivano i Beatles (I Wanna Hold Your Hand, 1978), ha dato la svolta definitiva alla sua carriera. Dopo altri lavori di sceneggiatura e regia, dalle alterne fortune, ecco il grande successo nell’’84, con All’inseguimento della pietra verde (Romancing the Stone), anche se sarà il successivo Ritorno al futuro (Back to the Future), e i due sequel (’89 e ’90), a dargli la consacrazione definitiva.
Christopher Lloyd e Michael J. Fox
A 30 anni di distanza (l’uscita nei cinema americani risale al 3 luglio 1985), Back to the Future risalta per la perfetta mescolanza, senza sbavatura alcuna, di fantascienza (poca), teenager movie e commedia venata di umorismo e sentimento, tutti temi sapientemente dosati e bilanciati, tra sberleffi rivolti all’infallibilità della scienza ed in particolare alla società americana, considerando come il viaggio di Marty proceda all’indietro, nell’America colorata e mitizzata degli anni ’50, sospesa tra vecchio e nuovo, in un percorso che assume contorni vagamente psicoanalitici (vedi il tema edipico, rovesciato, tra madre e figlio).
L’adolescente Marty viene ora a conoscenza, e le comprenderà man mano, di quelle problematiche che i suoi genitori si trovarono innanzi nel loro personale percorso di crescita, per cui il tema dei viaggi temporali e conseguenti paradossi relativi a probabili rovesciamenti degli accadimenti nel loro ordine di rivelazione, tra i più sfruttati al cinema, spesso attingendo dal romanzo di H.G. Wells (The Time Machine, 1895), trova ora una certa originalità.
Lea Thompson e Michael J. Fox
Non vi è infatti alcun utopico desiderio di cambiare il mondo e il suo destino, sfruttando la “passeggiata” temporale per conferire un nuovo corso agli eventi della Storia, ma essenzialmente una graduale maturazione del singolo individuo nel prendere consapevolezza di essere faber fortunae suae, avere nelle mani il proprio destino: se non si possono alterare gli avvenimenti, pena la cancellazione della propria stessa esistenza, è possibile però adoperarsi in modo che tutte le caselle vadano al loro posto, assicurando al’interno del mosaico della vita un avvenire migliore per sé e i propri cari. La particolare missione cui si accinge Marty, in una logica al contrario giustificata dal paradosso temporale, sarà infatti di dare una mano ai suoi futuri genitori ad affrontare e superare varie difficoltà, in modo che, una volta ritornato al futuro, cioè al suo tempo, l’esistenza possa essere migliore per tutti.
Lloyd, Fox e la mitica DeLorean MC12
Anche sceneggiatore insieme al fido Gale, Zemeckis dirige Back to the Future con una certa scioltezza nel dare adito alla plausibilità dell’incredibilità, mettendo in scena sia una sorniona accondiscendenza verso le tematiche trattate, i citati paradossi temporali, spiegati attraverso un’apparente fattibilità scientifica, sia una garbata demitizzazione dell’assunto favolistico che spesso contorna i “fantastici anni’50”, in particolare nella rappresentazione propria dell’american dream, senza dimenticare sapidi riferimenti cinefili (Lloyd appeso alle lancette dell’orologio, come il suo omonimo Harold in Safety Last, 1923). Il film vanta poi un ottimo cast, al cui interno risaltano in particolare un giovanissimo e brillante Michael J. Fox, a suo agio tanto nelle sequenze ironiche che in quelle più drammatiche, e la prorompente gestualità di Doc Lloyd, idonea ad esprimere un effluvio di “genio e sregolatezza” anche con un semplice sguardo, ovviamente del tutto perso in qualche allucinazione o astrazione intuitiva.
E’ un intelligente e gustoso ribaltamento dell’archetipo classico proprio del mad doctor, considerando che, dopotutto, fra un pasticcio e l’altro, il suo sogno sarà comunque coronato dal successo. Indimenticabile la colonna sonora a cavallo tra due epoche, e la scena finale, pur aperta ai citati sequel, con la DeLorean che si alza in volo verso un mondo “dove non c’è bisogno di strade”, in nome dell’immaginazione più autentica e sfrenata, dal forte sapore empatico.E’ facile, infatti, librarsi “verso l’infinito e oltre” insieme ai protagonisti per riscoprire sensazioni ormai dimenticate, il segno improvviso, la coincidenza, il caso, l’errore apparente, l’intuizione volta al presagio, grazie anche ad una cornice volta sì ad una visualizzazione spettacolare ma ancora lontana da un frenetico ipercinetismo in stile ottovolante e ben circoscritta, invece, in una magica dimensione cinematografica idonea ad avvolgere un suggestivo gioco a rimpiattino fra razionalità ed irrazionalità, realtà e fantasia, in nome della realizzazione dei propri desideri.
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Oscar (1985) per migliori effetti speciali sonori. David di Donatello 1986 per miglior sceneggiatura straniera (Bob Gale e Robert Zemeckis), migliore produzione straniera (Steven Spielberg).