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COME PIETRA PAZIENTE (Syngué Sabour)

Creato il 04 giugno 2013 da Ussy77 @xunpugnodifilm

come-pietra-pazienteInvisibile, non solo perché nascosta dal chador

Afghanistan. Rahimi dirige un film-confessione, che va a indagare la femminilità negata. Una pellicola permeabile alla noia, un “macigno” che permette la riflessione.

Periferia di Kabul. La donna (il personaggio non ha nome e non è un caso) è sola. La sua famiglia è scappata. Accudisce il marito in coma (a causa di un battibecco si è preso una pallottola nel collo), mentre all’esterno dalla casa diroccata imperversano gli scontri armati. Priva di soldi non può permettersi le medicine e allora cura il marito-eroe di guerra con una soluzione salina artigianale. Trovandosi in una situazione di solitudine comincia a raccontare alla sua “pietra paziente” (il marito), le sue frustrazioni e i suoi inconfessabili segreti.

Come pietra paziente (Syngué Sabour, 2012) racchiude confessioni e un monologo interminabile, che vede protagonista una donna musulmana. Si prende cura del suo uomo perché pur avendo una pallottola nel collo è ancora in vita. Il marito è un eroe di guerra, una persona che vive il rapporto con la moglie in modo integralista. Non si è mai interessato della sua figura, non ha mai dimostrato affetto o amore. Lui un animale, lei una schiava. Un essere invisibile, non solo perché coperta dal chador mentre si avventura nella periferia di Kabul, ma perché nel rapporto personale non ha mai potuto offrire la sua parola. E allora ecco l’occasione per poter parlare, per poter raccontare la sua storia, le sue frustrazioni, il suo status di donna. E Rahimi, regista giunto alla sua seconda regia, ci consegna una pellicola che affronta argomenti tabù (prostituzione ed emancipazione) per la cinematografia afghana, ma che risulta necessaria per comprendere al meglio il ruolo sociale della donna: inesistente. Come pietra paziente, pur esibendo un montaggio e un ritmo lentissimo e ponderato, riesce a farsi accattivante per i temi che affronta. Ci troviamo nuovamente di fronte a una pellicola che racconta il problema della donna mediorientale, che questa sia coperta da un velo, da un burqa o nella peggiore delle situazioni, invisibile dietro un chador. Si tratta di cultura accettata, fondamentalista, ma agli occhi occidentali appare brutale e civilmente assurda. E Rahimi ce lo racconta attraverso una fantastica prova attoriale di Golshifleh Farahani, che sostiene da sola la pellicola in modo invidiabile; una prova contraddistinta da uno sguardo perso nel vuoto (a tratti votato e preoccupato del timore di Dio) e da un linguaggio forte. Una brutalità dialettica che sciorina argomenti come la masturbazione, la prostituzione, la reazione femminile (la zia della donna racconta di aver reagito violentemente, piccone alla mano, nei confronti del padre del marito, che si insinuava nel suo letto perché sterile), il sesso, il tradimento e la sensibilità. Sì, anche la sensibilità, che emerge visibilmente nella seconda parte della pellicola. Una donna che scopre l’attenzione nei suoi confronti e una reciproca delicatezza emozionale.

Una pellicola che più che una pietra è un emotivo “macigno” spoglio scenograficamente e potente dal punto di vista dialettico e argomentativo. Come pietra paziente fa riflettere, ma non solo. Ostenta un sorriso a fine pellicola. Che la vita della donna possa in qualche modo migliorare? Rahimi chiude anticipatamente e lascia allo spettatore interpretazioni personali. Il linciaggio potrebbe essere dietro l’angolo, ma anche un’esistenza nuova è possibile.

Uscita al cinema: 28 marzo 2013

Voto: ***1/2


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