Sono
passati quattro anni. Se non tanti, comunque abbastanza.
Per
capirci, per saperci leggere tra le righe a vicenda. Libri aperti.
Il
non conoscerci ci rende senza peli sulla lingua e senza segreti. Non
abbiamo niente da rinfacciarci. Nessuna debolezza su cui fare leva.
Al contrario che nei rapporti interpersonali – dove, vuoi o non
vuoi, ad un certo punto, si pretende l'amore, l'amicizia, una mano
nei momenti no -, in ballo non ci sono interessi.
Mi
presti gli appunti di Linguistica?, Ma tu mi vuoi
bene?, Passo a prenderti stasera?
Ci
leggiamo solo perché ci fa piacere. Perché quel giorno ci andava
così. Di me, in prima persona, piace poco parlarle. Strano, direte,
per uno che ha scelto la parola diaro per battezzare
il suo blog. Strano, soprattutto, per uno che scrive lunghe
recensioni, per parlare un po' dei libri e un po' dei libri secondo
lui. Il compleanno di Diario di una dipendenza, però, mi
coglie sempre in momenti di forte malinconia. Sarà un caso? Ero
malinconico anche quel giorno, scommetto, quattro anni fa. Partito da
zero, con poche e stentate idee, che somigliavano tanto a una lista
di buoni propositi. E' bastato un click, pazienza e una dose di
fortuna. Quella volta, forse, una volontà superiore mi voleva vedere
sorridente e, in minima parte, realizzato. E questa volta, invece?
Cos'è di me, quattro anni dopo? Il diploma, l'inizio dell'università
e, se Dio vuole, a novembre, la laurea triennale. La laurea, sì, e
chi verrà a sentirmi discutere la tesi? Uno dei pensieri che in
questi giorni difficili mi è balenato per la mente: il più stupido.
Una volta, al veglione di Capodanno, ho visto una ragazza scoppiare a
piangere all'improvviso, circondata dalle sue amiche; non capivo che
avesse. Adesso, a modo mio, ho capito. Le feste ti ricordano cosa hai
fatto e cosa non hai fatto. Chi non c'è. Vi ho accennato al mio
Natale buio, ed è stato più buio – e freddo, e solitario – di
quanto pensiate. Meglio non parlare del primo dell'anno.
Chi non
c'è a Capodanno non c'è per tutto l'anno? In tanti mi avete chiesto
cosa stesse succedendo. Ma cosa rispondervi... Non lo sapevo nemmeno
io. A qualcuno l'ho detto, poi; scriverlo l'ha reso più vero e
spietato. Chiaro. Mi ha sbattuto in faccia una verità che non posso
negarvi, adesso, in un post di resoconti, bilanci e promesse, diverso
dai miei soliti. A freddo, senza ricercare motivazioni e colpe, in
pillole amare, sputo d'un fiato che mia mamma non vive più con noi e
che domani sarà un mese esatto che non la vedo. Che sono arrivate le
lettere degli avvocati, ma quello è stato il minimo, e che la
situazione, dopo due figli e trent'anni di confidenze, con gli alti e
bassi comuni a ogni famiglia, è diventata sporca, complicata. C'è
chi porta acqua al proprio mulino come può, ci sono stati i musi
lunghi, la rabbia, la depressione, i colpi proibiti sotto la cintola.
In tre, piccoli uomini, ci siamo fatti forza e compagnia. Ma mancava
il meglio. Non ho mai passato un Natale in silenzio. Mi rendevo conto
di avere apparecchiato per quattro, e piangevo. Al supermercato, la
radio passava il ritornello di Le tasche piene di sassi e
io avevo un attacco d'ansia tra i panettoni senza candiditi e le
lenticchie del cenone. Facevo una lavatrice, appendevo il bucato e mi
chiedevo se lei avesse bisogno di qualcosa, se avesse con sé i
calzini spessi o mutande a sufficienza. E se sta meglio di noi?, e io
la odiavo. E se invece sta peggio?, e mi odiavo io. Sono appena stato
in cucina e ho strappato un pezzo di Scottex, ché mi accorgo di
piangere ancora. Dopo la tempesta, infatti, la siccità emotiva per
la stagione più corta al mondo. Squilla il cellulare e io fingo
indifferenza: papà è stato peggio di tutti e gli risparmio la
notizia che il figlio tornato all'università, lontano ma non troppo,
non ha finito tutte le lacrime appresso a loro. Però va meglio,
piano piano. Mio padre ha ripreso a lavorare, mio fratello aspetta di
sapere se al call center gli prolungheranno il contratto un mese
ancora e mia madre dice che la lontananza, almeno quella, è una cosa
provvisoria. Non so quando sarò pronto a vederla. Ho preso a
rispondere ai suo sms da poco. Io come sto? Io sto. Galleggio e solo
rare volte mi passa di mente com'è, quella storia dell'inspirare ed
espirare. Il blog era l'ultimo dei miei pensieri, in ordine di
importanta. Una marea di post programmati, per fortuna, e andava
avanti con le magie del pilota automatico. Non pensavo sarebbe
sopravvissuto a tutto questo, che avrebbe spento la sua quarta
candelina. Un mese fa sì, ma quanto cambia in un mese? Mi sono
trascurato, ho troncato rapporti – il tempo ci darà la pace, si
spera, ma alcuni legami vanno declinati al passato, troppo grande il
male – e, dal mio personale eremo, ho saltato i festeggiamenti. Non
so bene dove sia mia madre, non so se mi legge. Ma, se mi legge, le
dico che non importa. Se sa dov'è, le dico vieni qui. Ieri, tornato
alla mia mansardina di studente fuori sede, ho messo ordine.
Richiamato alla base d'urgenza, con un dispendioso Intercity, avevo
lasciato la stanza nel caos, le felpe e il pigiama ad ammollo nella
lavatrice, il cibo ormai guasto in frigo. Ho buttato qualcosa, dato
una pulita, fatto fare un'altra centrifuga ai panni abbandonati oltre
l'oblò. Ho ricominciato. Ma a lungo non ho saputo dove andare. Casa
mia l'ha strappata da terra un uragano, mi domandavo? E se è ancora,
lì, invece, quanto rovinata la trovo? Chi ci trovo a passeggiare
scalzo tra le macerie, con scopa e paletta per salvare il salvabile?
Tornare a scrivere di quello che scrivono gli altri, a leggere, è
stato sollievo e distrazione. Qui, dove tutto rimaneva uguale, con il
resto che mi cambiava intorno. Quindi, di cuore, grazie. Più di
quanto lo abbia detto prima d'ora. Restiamo una bella storia, anche
se quest'anno – nel solito post commemorativo – c'è un capitolo
che, mi dispiace, mette tristezza. E sono qui, ignaro di ciò che
succederà domani, sfiduciato sul fatto che la corrente elettrica
possa presto tornare a brillare sulla mia famiglia, ma ci sono
piccole cose che so che farò – arrivare informato alla notte degli
Oscar, divertirmi a leggere storiacce di persone che se la passano
peggio di me, iniziare la tesi, in estate, e per l'estate mettere un
punto a qualcosa che vorrei leggeste – e circoscrivo, così,
pensieri che altrimenti mi spezzerebbero in due. Con Diario
di una dipendenza non si ricomincia. Semplicemente, si
continua. I libri, e chi li legge, mi hanno teso infatti un salvagente.
L'ennesimo.