Magazine Cucina
COME SEI VERAMENTEMolti pomeriggi della mia prima adolescenza erano quelli delle lezioni di pianoforte.Il Maestro aveva un nome, anzi, un cognome molto importante. Stampigliato su diversi attestati e riconoscimenti, bene allineati alla parete di spalle al pianoforte. Ma tutti lo chiamavano Maestro: era Maestro per il ragazzo pallido che raccoglieva gli spartiti e mi lasciava il posto caldo sullo scranno. Era Maestro per la moglie dalla messa in piega vaporosa, che non apprezzava la musica. Eppure lei aveva sposato musica, e respirava musica.Il Maestro segnava su un quaderno le cose da fare: studio n. 12, pezzo staccato n. 32. Linea netta a metà della paginetta. Ogni lezione, una mezza paginetta di annotazioni, con tanto di commenti anche corrosivi: mi ricordo di un rabbioso "bestiaccia" scarabocchiato sotto una sonata di Clementi.La lezione cominciava con le scale, per scaldare le dita. Mani sollevate sullo Steinway & Sons, e il timore che viene dall'insicurezza. Una volta partita su quelle quattro ottave insidiose di tasti neri e tasti bianchi, non si poteva più tornare indietro. Do maggiore. La minore. Fa maggiore. Re minore.Ogni insicurezza, che causava uno sbavatura tra mano destra e mano sinistra, approfondiva le rughe sul viso del Maestro. E si aspettava la tempesta, perché ogni errore generava tensione, e la tensione è nemica acerrima delle scale. E della musica.Pomeriggi interi a casa, con il panno di feltro ad attutire i suoni tra martelletto e corde, per non disturbare i vicini. Per arrivare al pomeriggio della lezione, a corde spiegate, invece. Con quel pianoforte aperto come un'ala, ad amplificare ogni incertezza.E miracolosamente, ogni tanto, i momenti di purezza: quando dimenticavo di avere a fianco il Maestro. Quando sparivano alla vista le scritte sopra e sotto il pentagramma. Piano. Allegro assai. Lo sapevo già. Nella mia testa e nelle mie dita. Il piacere era così forte da arrivare diretto sulle guance. Le dita volavano anche senza guardare le note. O meglio: la nota arrivava subito alle dita, sui tasti, senza passare dagli occhi.Il silenzio dopo l'ultimo eco del riverbero.Il Maestro che non commentava mai, quando la musica andava al posto giusto. E ricordo ancora nitido quel pomeriggio.Mio padre non arrivava ancora per riportarmi a casa.Nessuno alla lezione seguente.Il Maestro stava solo sullo scranno, mentre io bevevo il té che mi aveva portato sollecita la moglie dalla messa in piega vaporosa.Il Maestro inizia a suonare.Subito sono note sommesse.Dolci come passi di danza.Poi si allargano sulla tastiera. Poi sono note dolorose, impetuose, imponenti sui tasti bassi battuti dalla foga. Poi ripiegano su se stesse. Fino a che l'ultima nota si perde fuori dall'ala dello Steinway.Il Maestro si gira."Ma che fai? Piangi?"Non me ne ero neanche accorta.Il preludio n. 17 dell'opera 28 di Chopin.Appena arrivata a casa ho comprato lo spartito. Non riuscirò mai a suonarlo.Ora che ho le dita piegate dalle insaccature. Ora che non riesco più a suonare una sola nota in pubblico, per la vergogna, per timore, pudore.. Non so.So solo che anche adesso piango, tutte le volte che lo ascolto.
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