Finchè non vivi una cosa sulla tua pelle non sai davvero cosa si prova. Questo deve aver pensato Timothy Kurek, un conservatore evangelico del Tennesse, cresciuto odiando gli omosessuali, e finito per fingersi uno di loro per un anno.
Timothy era un membro molto apprezzato della comunità evangelica della sua città, convinto com’era della necessità di seguire alla lettera la legge di Dio. I genitori dei suoi amici spesso si rivolgevano a lui, per chiedere di riportare i figli sulla buona strada e Timothy a tal proposito ricorda “Ero il tipo che poteva stare fino alle quattro di mattina al telefono per convincere un amico a pentirsi dei suoi peccati“.
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Quando un’amica cristiana ha confidato a Timothy di essere stata cacciata di casa per aver rivelato la propria omosessualità, accusata dai familiari di averli disonorati, il ragazzo ha cominciato a mettere in discussione i valori e gli insegnamenti della propria religione: “Mi sono sentito come se Dio mi avesse dato un calcio sulla stomaco. Lei stava piangendo tra le mie braccia, ed io, invece di consolarla, stavo pensando a quali argomenti utilizzare per convertirla“.
Turbato e pieno di dubbi e domande sulle sue convinzioni religiose, Timothy si convinse che l’unico modo per empatizzare con la sua amica, e comprenderla, fosse quello di “camminare nelle sue scarpe“. Questa convinzione lo ha portato a decidere di vivere come un gay per un anno, per capire realmente che impatto questa “etichetta” avrebbe avuto sulla sua vita.
Timothy ha comunicato ai genitori, agli amici e alla parrocchia la propria omosessualità, poi ha cominciato a lavorare in un caffè gay, si è iscritto a un campionato di softball per gay ed è divenuto un attivista dei diritti degli omosessuali, ritrovandosi persino a manifestare fuori dall’ambasciata Vaticana alle Nazioni Unite di New York. Ha cominciato a frequentare locali gay, e ad un certo punto per non dover sempre respingere le avances che riceveva ha deciso di trovarsi un finto ragazzo, impersonato da un suo amico.
L’esperienza di Timothy non è stata certo priva di difficoltà, ma ha contribuito a modificare radicalmente l’idea iniziale del ragazzo, che riteneva gli omosessuali dei peccatori, e ha “salvato la sua fede” messa in difficoltà nel momento in cui è stata evidente la netta spaccatura tra la realtà della comunità omosessuale e la falsità delle sue convinzioni, basate su pregiudizi e non sull’esperienza.
La storia di Timothy, incluse tutte le difficoltà, a partire dalle reazioni dei familiari, tra cui la madre che aveva inizialmente scritto nel proprio diario di preferire un cancro terminale a un figlio gay, sono raccolte nel libro “The Cross in the Closet” uscito in libreria l’11 ottobre, Giornata Internazionale del Coming Out. Il libro, secondo Timothy potrebbe essere un ponte tra la comunità religiosa e la comunità LGBT, e il punto di partenza per un nuovo dialogo. Secondo l’autore si tratta di un libro “sui pregiudizi, non di un libro sull’essere gay“, e il reverendo Connie Waters, si dichiara fiero di lui.
Se da un lato è ammirevole la scelta di Timothy di mettersi nei panni delle persone omosessuali, dall’altro preoccupa la necessità di toccare con mano le difficoltà delle perseone della comunità LGBT prima di poter comprendere e condividere il loro punto di vista. Secondo il dott. Jack Drescher, psichiatra di New York, esperto in tematiche LGBT, le giovani generazioni sono meno omofobiche di quelle passate, ma esperienze come quelle di Timothy dimostrano che c’è ancora da lavorare.
Pensi anche tu che si possa comprendere solo “fingendo” di essere nei panni di un’altra persona?
Psicologi e psicologhe sono in grado, secondo te, di accogliere e comprendere veramente le problematiche di eventuali clienti gay e lesbiche, pur essendo eterosessuali?