Riceviamo e pubblichiamo un intervento di Jamila M.H Mascat che, tra le (tante) altre cose, è la corrispondente da Parigi di Marginalia - cosa di cui siamo indicibilmente felici e onorate. A partire da una quasi-cronaca della manifestazione organizzata a Parigi dall' Inter-lgbt il 27 gennaio scorso, Coming out affronta luci e ombre del dibattito sul cosiddetto mariage pour tous, invitando "ad immaginare altro e meglio". Prima di lasciarvi alla lettura del testo - che personalmente ho letto con l'emozione che si prova quando si condivide ogni parola e ogni virgola - una breve nota redazionale sulla foto che correda questo post: l'abbiamo trovata in Tumbrl, purtroppo senza credits e/o riferimenti che ci permettessero di collocarla in qualche modo. Speriamo che qualche appassionata/o di Marilyn di passaggio possa dirci qualcosa. E ora (finalmente) vi lasciamo alla lettura di Coming out, ringraziando ancora Jamila per averci fatto questo dono di questo contributo favoloso. Buona lettura! // Coming out di Jamila M.H Mascat : Ai matrimoni ho la presunzione di essere un'invitata doc. Laici e religiosi, e di qualsiasi confessione. Mi diverto, mi commuovo, faccio onore alla tavola e alle danze, e faccio ovviamente il regalo agli sposi. Al bouquet non ci tengo, ma le promesse mi fanno impazzire, sarà quell’ostinata invocazione d’eternità che prova a fottere l’intermezzo del tutti-i-giorni, o forse solo il pensiero della cattiva sorte che mi rattrista. Sono etero. Amo un uomo da 12 anni, e visto che ne ho 33 secondo me è roba da matti; ma non credo che nessuno ci darà mai la palma d’oro della coppia dell’anno – nessun anticonformismo, solo troppi litigi, troppe distanze, troppe “infedeltà”. Gli ho chiesto di sposarmi soltanto una volta, nel 2005, quando per motivi urgenti e spiacevoli sembrava che fossi costretta a partire per l’Arabia Saudita, e non avrei potuto farlo senza accompagnatore. Avrei avuto bisogno di un marito. Poi non se ne è fatto più niente di quel viaggio né di quel matrimonio. Sono tradizionalista, dicono le mie amiche più libertine e le mie compagne più liberate. In effetti, per esempio, finora non ho mai fatto una cosa a tre. Non è molto rilevante tutto questo, mi rendo conto, ma mi è sembrato che l’unico modo per prendere la parola nel dibattito sul mariage pour tous fosse la testimonianza. Si usa così, e allora perché no. E poi comunque ogni volta che capita di parlare di *affari di famiglie* - e ultimamente capita spesso- è difficile non mettere in mezzo i fatti propri. Ora, per smettere di parlare dei fatti miei copio e incollo una cosa che ha detto la ministra della famiglia, Dominique Bertinotti, a proposito della (quasi) legge sul matrimonio omosessuale, che qui in Francia ha scatenato le coscienze retrograde della destra cattolica e non: “C'est une revendication très normative, pouvoir faire famille, entrer dans un cadre juridique, ça n'a rien d'une destruction mais au contraire, c'est une sécurisation juridique, une protection". E’ una constatazione meno banale di quello che sembra. E mi trova d’accordo. // Pride and Privilege // Parlo dal punto di vista di chi dispone di un privilegio etero, come mi è stato fatto notare spesso negli ultimi tempi. Lo so, e sono così privilegiata da poter decidere perfino di potermene non servire, sapendo che in caso di emergenza, lui, il privilegio, in fondo sta là, da usare se mai ce ne fosse bisogno. Di buoni motivi per sposarsi non ne vedo, se non certo proprio tutte quelle ottime ragioni messe in campo dal movimento lgbtq durante la campagna pro mariage, cioè tutti quei diritti sociali e di cittadinanza che dipendono da questo tanto conteso diritto civile. Di fronte al quale, improvvisamente, sembra che il mondo si divida in due: c’è chi lo vorrebbe per tutti e chi lo vorrebbe solo per pochi. Tertium non datur. Se fosse un sondaggio di opinioni a freddo, se non ci fossero state le obbrobriose manifestazioni degli anti-mariage in Francia, le migliaia di ridicoli emendamenti dell’opposizione (4.999) alla proposta di legge (24 sedute parlamentari, 10 giorni di discussione, il settimo projet de loi piu dibattuto in aula nella storia della Quinta Repubblica) e un clima di omofobia che nel mio mondo sempre meno etero per fortuna avverto solo da lontano, direi a gran voce: mariage pour personne! Non perché non mi rendo conto che sposarsi sia un privilegio, al contrario. Proprio perché è un privilegio, dico: non estendiamolo, piuttosto smontiamolo, liberiamocene. Immaginiamo una riconfigurazione giuridica che permetta di attribuire diversamente quegli stessi diritti vincolati ora al matrimonio. Ripartiamo dai diritti individuali e dalle unioni civili. Ok, lasciamo in piedi il matrimonio per chi proprio non può farne a meno, ma invece di chiedere semplicemente la concessione di un privilegio, proviamo a rendere quel privilegio superfluo. Facciamo uno sforzo immenso di immaginazione e pensiamo a unioni che possano assumere la forma che meglio credono ed essere legittime per questo. Pensiamo che io, mio padre, la mia prozia e la sua fidanzata possiamo fare famiglia. Immaginiamo che tre donne che si amano possano fare famiglia perché si amano, e nel modo in cui scelgono. Pensiamo a due uomini e due donne che possono crescere una bambina e insieme fare famiglia. Pensiamo anche che un collettivo di individui legati da pratiche e rapporti affettivi, o un gruppo di conviventi o semplicemente singoli che condividono relazioni di cura e solidarietà possano disporre dei diritti di famiglia. Pensiamo alla pma e all’adozione per tutt* senza passare per il matrimonio. Sembra fantascienza? Forse. L’obiezione n.1 di solito è “Ma che razza di discorso è questo”. Troppa poca fantasia. L’obiezione n. 2 è disfattista e dice “E’ impossibile”. E invece proposte che vanno in questa direzione esistono. Se sono estendibili, i diritti, sono anche modificabili. L’obiezione n. 3 ostenta buon senso: “Ammesso anche che sia possibile e auspicabile, per queste cose ci vorranno anni. Intanto mariage pour tous” (che a voler essere precise sarebbe pour tou.te.s). // Parole // Quindi il 27 gennaio ho partecipato alla manifestazione organizzata in nome dell’égalité dall’Inter-lgbt una settimana dopo la pessima esibizione di piazza degli esponenti anti mariage. Égalité non è una parola leggera in questo paese, si sa. C’è égalité (ma oltretutto è belga) e égalité. E neanche la bandiera francese, sventolata con entusiasmo qua e là, è un simbolo light. Tantomeno mentre la Francia porta avanti la sua guerra in Mali sostenuta all’unanimità (o quasi) da tutte le forze politiche. Che c’entra il Mali? mi ha detto qualcuno. Questa è una manifestazione per i matrimoni gay in Francia. Non fa un piega. Ed è stata una manifestazione particolarmente riuscita, partecipata, cantata, pacifica, bella. Però io, etero, con il mio privilegio etero in tasca, sono comunque a disagio, tra l’égalité e il tricolore. Su un cartello c’è scritto: El tipo de familia non altera el producto. Temo che purtroppo forse è vero. Poi con O. (omo, senza privilegio) abbiamo passato la metà del tempo a tentare di decifrare quello che c’era scritto su manifesti e striscioni. Slogan per tutti i gusti: spudorati (Je mets mes doigts partout pourquoi pas dans une bague?), scemi (Plus de mariages, plus de gateaux pour tous), rivendicativi (Indovinate chi ha disegnato i vostri abiti da sposa?), blasfemi (Jésus avait deux papas et une mère porteuse), ottimisti (Il vaut mieux un mariage gay qu’un mariage!), incontestabili (On demande vos droits, pas votre avis). Alla fine del corteo, a Bastille, B. è salita sul palco e ha parlato della sua esperienza di figlia cresciuta con due mamme, un padre e molto altro. Suo fratello l’ha costretta a fare coming out: Ma soeur est lesbienne. Per dire che se l’omosessualità davvero non è un problema, allora la possibilità che le coppie omosessuali si trovino ad avere figl* omosessuali non deve essere agitata come uno spauracchio contro le famiglie omoparentali. Era un po’ commovente vedere B. su quel palco a parlare dei fatti suoi. E’ come se in questo momento tutti avessero bisogno di prove, rassicurazioni e dimostrazioni del fatto che la Terra continuerebbe a girare nello stesso senso anche se tutt* fossimo gay e lesbiche. E quindi bisogna ripeterlo in continuazione. // Favole // C’è perfino chi, tra i giornalisti, ha chiesto a B. che cosa faceva da piccola per la festa del papà. Ho pensato che se lo avesse chiesto a me o a T., sarebbe rimasto estremamente deluso. Alcuni giorni fa la ministra della giustizia Christiane Taubira ha lanciato un’invettiva stra-appaludita contro un deputato dell’Ump, spiegava accalorata che sono soprattutto la stigmatizzazione e la condanna sociale a destabilizzare i figli delle coppie omosessuali, non certo i genitori. Di quella stigmatizzazione ne sanno qualcosa anche tutt* quell* che sono cresciut* all’interno di famiglie non canoniche e non tradizionali. Allora perciò, mentre giochiamo il primo tempo e facciamo le battaglie per l’inclusione, prepariamoci come si deve per il secondo tempo e diciamo fin da subito che l’inclusione non risolve il problema. Proviamo a smontare le barriere dell’accesso, lanciare altri slogan, immaginare altro e meglio. Qualche giorno fa su Le Monde si parlava, forse per la prima volta, di omonazionalismo e imperialismo gay. Due espressioni anche un po’ cacofoniche, davvero. Suona molto meglio “favolosità”, che è sempre stata una delle parole d’ordine del movimento transqueer (delle cui rivendicazioni, per inciso, mi sembra che non ci sia granché traccia nelle piattaforme dei gruppi pro-mariage, ma potrei sbagliare). Di favoloso il mariage pour tous pare che abbia ben poco, e le bandiere francesi ancora meno. Una favola vera, più bella dei Promessi sposi e del ritornello di Beyoncé, una favola pour tou.te.s potrebbe aspirare a molto di più. E soprattutto dovrebbe tenersi alla larga da ogni forma di discriminazione diretta o indiretta (perché il fatto di subirne una non dà diritto a perpetrarne o ignorarle altre), e a debita distanza dall’égalité di cui altri gruppi e minoranze continuano a fare le spese. L’articolo di Le Monde si conclude prefigurando uno scenario apocalittico: la Francia, campo di battaglia del fronte omonazionalista, tragicamente divisa in due blocchi, omofobi da una parte e xenofobi dall’altra. Il che equivale a dire che non ci sia alternativa all’omonormatività (questa è la definizione migliore che ho trovato in circolazione: "homonormativity = a politics that does not contest dominant heteronormative assumptions and institutions, but upholds and sustains them, while promising the possibility of a demobilized gay constituency and a privatized, depoliticized gay culture anchored in domesticity and consumption", L. Duggan). Per fortuna, invece, c’è chi come qui, qui e qui, ci aiuta ancora a credere alle favole (Jamila M.H Mascat, 11 febbraio 2013)
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