Commenti su l’andata e il ritorno e i giorni dello sponz fest – prima parte - di l’andata e il ritorno e i giorni dello sponz fest – parte seconda – | scritture

Creato il 03 settembre 2014 da Luciamarchitto

L’andata
E così sono partita, bagaglio e cuore leggero e ore da spendere nel rumore-culla del pullman che va verso sud, e pensieri da fare, conversare con questi nella notte che avanza. Sempre converso con i pensieri come fossero persone, sempre le mie ossa mi tengono sveglia, mi giro e rigiro sul sedile che da morbida spugna si fa sasso duro, pietra appuntita, macigno che non riesco a spostare.
E poi ci sono gli autogrill luminosi e sigarette accese nella notte scura.
Lei dritta, impettita pur non avendo quasi petto, sul viso scuro di pelle bianca non c’è ombra di simpatia né curiosità verso il mondo, fuma, cammina altera o, forse, semplicemente altezzosa, non saprei dire.
Lui, magro come un chiodo, racconta a me che ha preso il pullman perché non ha trovato un posto sul treno, “E’ la prima volta”, dice e pare preoccupato. Non sta fermo un minuto, pare un grillo che saltella. C’è anche una coppia, lei grassa, voce grossa, lui magro, piccolo, occhi vispi, basso di statura e di voce, vicino a lei pare una mosca. Siedono mano nella mano. Lei si lamenta dell’aria condizionata, chiama ripetutamente l’autista per abbassare/spegnere/regolare l’aria condizionata, mette un maglione sulle spalle, si copre le ginocchia. Quando si accende la TV su una commediola ride e commenta a voce alta. Siedono al mio fianco. Mi chiedono dove vado e perché, raccontano che sono andati via da Calitri nel 1956, che nel 56 lui aveva 18 anni. Poi finalmente si addormentano e quando si addormentano un po’ mi mancano, mi sembra quasi che siano spariti. Pare che la notte abbia inghiottito i pochi passeggeri lasciandomi alla crudeltà del sedile, al fastidio dei piedi che cominciano a gonfiarsi. Non so se dormo o se, abbandonata ai pensieri, sia diventata io stessa pensiero. Questo andare mi riporta indietro nel tempo, ai primi viaggi, quando, in ogni casa che mi correva incontro, immaginavo una vita al di là delle finestre aperte o chiuse che fossero. Immaginavo una me stessa che rinasceva in un altro posto, con un altro nome, con un’altra storia, nell’atto di compiere piccoli gesti: una mano che scosta la tenda, l’altra che ha in mano una tazza di caffè e gli occhi che guardano il treno o il pullman passare e immaginano un’altra vita, un altro nome, un altro essere che si sposta verso sud.
Quando arrivo trovo mio padre ad aspettarmi con il suo tre ruote, carica la valigia. “Vado a piedi – dico – è così vicino, mi sgranchisco le gambe” ma lui insiste, non c’è verso di fargli capire che ho proprio bisogno di camminare. Entrare nel trabiccolo è un’impresa anche perché una portiera è rotta e non si apre, l’altra è difetosa. “In due non ci stiamo” dico “Ci sta anche tua madre che è il doppio di te” risponde. Così alla fine sono entrata. Scendere anche è stata un’impresa: non riuscivo ad aprire la portiera difettosa.

I giorni dello Sponz e le notti del treno che non ho visto e che ho solo sognato.
La casa e mia madre sono sempre uguali, l’una sempre in ordine l’altra sempre nervosa, arrabbiata col mondo. Sono abituata a entrambe. Il cielo è talmente azzurro fuori dalla finestra “Ci sono i piccioni” dice “Anche le rondini” rispondo “No, sono solo piccioni. Ho chiamato il Comune, l’ho detto a tuo fratello, bisogna fare qualcosa per i piccioni perché così non si può stare!” Esco sul balcone, guardo, effettivamente c’è qualche piccione ma ci sono anche tante rondini. Non capisco il problema dei piccioni ma taglio corto, sono stanca dopo una notte di viaggio e me ne vado a riposare.
Quando mi alzo faccio un giro per il paese. Sono molto combattuta vorrei andare al ritrovo, ma dovrei chiedere a qualcuno di venirmi a prendere e poi riportarmi, è troppo lontano il ristorante per andarci a piedi. Non mi piace disturbare. Così alla fine non ci vado. Passo a trovare la mia amica e insieme facciamo il giro della piazza. Incontriamo conoscenti, amici, si chiacchiera del più e del meno, del tempo, del viaggio. Le chiacchiere fanno bene a volte, ristorano, distolgono i pensieri, li portano da un’altra parte, sembra quasi di essere felici, o perlomeno contenti.

Mi sveglio in una casa vuota, mi piace il vuoto di questa casa, posso guardare il cielo per tutto il tempo che voglio. Vado a pranzo dalla mia amica, sento che a volte le cose non sono mai come appaiono, sono complicate le cose e la ragione non si sa mai dove metterla: stona da tutte le parti.
Mi siedo sul dondolo posto sotto al salice piangente che è scosso dal vento. Si sta bene qui, sotto questo pianto di rami che muovono il cielo azzurro, dietro di me, poco più in là, c’è il muro di cinta del cimitero. Sto bene con i morti che mi guardano le spalle.
La sera accoglie le risa e i racconti di mio padre e mia madre di quando erano giovani, di quando noi, io e mio fratello, eravamo piccoli, della mietitura o della vendemmia. Ascolto i fatti conosciuti a memoria. Sono come la pasta madre che si rinnova ogni volta che si fa il pane.
Mia figlia arriva per ripartire per poi ancora tornare. Ma quando torna non sono mai sicura che è ritornata davvero.
I fantasmi hanno più consistenza di questo mio corpo che pure è diventato così pesante e ingombrante. Ingombra ogni cosa quando invece vorrebbe soltanto essere aria, passare attraverso i muri, senza lasciare traccia.
Spero di morire prima, prima che la rabbia della vecchiaia incomba sulle persone che amo.
Esco a fare due passi per i vicoli, scansando le strade piene di gente, la macchina fotografica fa compagnia, il suo occhio acceca i miei, cosicché posso fare a meno di vedere.


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