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XIII LEGISLATURA
Doc. XXIII
N. 50
COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA
SUL FENOMENO DELLA MAFIA
E DELLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI SIMILARI
(istituita con legge 1o ottobre 1996, n. 509)
(composta dai deputati: Lumia, Presidente, Vendola, Mancuso, Vice Presidenti; Acierno, Albanese, Borghezio, Bova, Brunetti, Carrara, Crucianelli, Fumagalli, Gatto, Iacobellis, Lamacchia, Maiolo, Mantovano, Martusciello, Miccichè, Molinari, Napoli, Neri, Rizzi, Scozzari, Veltri e Veneto e dai senatori: Diana Lorenzo, Curto, Segretari; Calvi, Centaro, Cirami, De Zulueta, D’Onofrio, Erroi, Figurelli, Florino, Greco, Lombardi Satriani, Marini, Mungari, Nieddu, Novi, Papini, Pardini, Peruzzotti, Pettinato, Rigo, Russo Spena, Veraldi, Viserta Costantini, Wilde)
RELAZIONE
SUL «CASO IMPASTATO»
(Relatore: senatore Giovanni RUSSO SPENA)
approvata dalla Commissione in data 6 dicembre 2000
Comunicata alle Presidenze il 6 dicembre 2000
ai sensi dell’articolo 1, legge 1o ottobre 1996, n. 509
INTRODUZIONE
La nascita del Comitato
Il Comitato di lavoro sul caso Impastato, è stato costituito ai sensi dell’articolo 1, comma 4 della legge istitutiva della Commissione e dell’articolo 15 del Regolamento interno, dall’Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi parlamentari e dai coordinatori dei Comitati di lavoro nella riunione di martedì 27 ottobre 1988, allo scopo di condurre una approfondita indagine sulle vicende connesse alla morte di Giuseppe Impastato, militante di Democrazia Proletaria, avvenuta a Cinisi il 9 maggio 1978.
Coordinato dal senatore Giovanni Russo Spena e inizialmente composto dal senatore Michele Figurelli e dai deputati Bonaventura Lamacchia, Gianfranco Miccichè e Sebastiano Neri, il Comitato ha iniziato i propri lavori il 21 gennaio 1999 e si è dato prioritariamente un modulo operativo per condurre la sua attività, evitando di sovrapporsi o di interferire con il lavoro della magistratura.
Dopo l’audizione di Umberto Santino e di Giovanni Impastato, rispettivamente presidente e vice presidente del Centro siciliano di documentazione «Giuseppe Impastato», nonché del magistrato inquirente titolare dell’inchiesta de qua, avvenuta in Palermo il 4 febbraio 1999, il Comitato ha acquisito agli atti una cospicua mole di documentazione sulle indagini giudiziarie.
Il 18 febbraio 1999, il Presidente della Commissione, su sollecitazione del Comitato, rivolgeva al ministro della giustizia, onorevole Oliviero Diliberto,un forte invito affinché le competenti autorità degli Stati Uniti fossero sollecitate a fornire una risposta alla domanda di estradizione avanzata dall’autorità giudiziaria nei confronti di Gaetano Badalamenti. Tale atto di impulso sottintendeva la possibilità di avere effetti decisivi se accompagnato dalla manifestazione di una volontà e di una prospettiva di rafforzamento dei rapporti di cooperazione tra i due Paesi nell’attività di contrasto alla criminalità organizzata – rapporti peraltro già sperimentati in passato – tenuto conto anche dell’indubbio valore che l’adesione alla richiesta di estradizione avrebbe avuto per favorire la ricostruzione di una vicenda alla cui definizione il nostro Paese annetteva una grande importanza.
In risposta a tale invito, il ministro Diliberto, in data 23 febbraio 1999, comunicava alla Commissione che l’Ambasciata d’Italia a Washington era in attesa di ricevere informazioni sullo stato della procedura e che, data la particolare rilevanza della questione, era stato da lui interessato il Ministro degli esteri. ll responsabile del Dicastero della giustizia comunicava altresì che, una volta concessa l’estradizione, si sarebbe dovuto attendere che il Badalamenti scontasse la pena inflittagli per altri fatti negli Stati Uniti e che comunque era possibile richiedere, ai sensi dell’articolo XIV del trattato bilaterale di estradizione del 1983, la consegna temporanea del detenuto per la celebrazione del processo in Italia. Lo stesso Ministro si riservava, comunque, di segnalare alla Commissione ogni significativo sviluppo della procedura.
La Commissione, dopo il suo rinnovo, nelle sedute del 21 luglio e del 14 ottobre 1999, ha deliberato la ricostituzione dei Comitati di lavoro ed ha così rideterminato la composizione del Comitato di lavoro sul caso Impastato (X Comitato):
Russo Spena Giovanni, senatore (Misto-Rif. Com.-Progr.), coordinatore;
Figurelli Michele, senatore (Democratici di sin.-L’Ulivo);
Florino Michele, senatore (Alleanza nazionale);
Miccichè Gianfranco, deputato (Forza Italia);
Rizzi Cesare, deputato (Lega FN per l’Indip. della Padania);
Scozzari Giuseppe, deputato (Pop. Dem. L’Ulivo);
Pettinato Rosario, senatore (Verdi L’Ulivo).
L’attività del ricostituito Comitato si è poi sviluppata con un intenso programma di ulteriori iniziative istruttorie.
In particolare, si è proceduto alle seguenti audizioni:
generale dei carabinieri Antonio Subranni, ex comandante del Reparto operativo del Gruppo carabinieri di Palermo e maresciallo dei Carabinieri Alfonso Travali, ex comandante della Stazione dei carabinieri di Cinisi (Roma, 11 novembre 1999);
dottor Giancarlo Trizzino, già Pretore di Carini e dottor Alfonso Vella, già dirigente della DIGOS di Palermo (Roma, 25 novembre 1999);
dottor Gaetano Martorana, già Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo (Roma, 15 dicembre 1999);
signor Francesco Carlotta e professor Giuseppe Barbera, amici di Giuseppe Impastato, dottor Ernesto Del Bianco, già comandante dei carabinieri di Partinico (Roma, 27 gennaio 2000);
appuntato dei carabinieri Francesco Abramo, già in forza presso la Stazione dei carabinieri di Cinisi e signor Faro Di Maggio amico di Giuseppe Impastato (Roma, 16 febbraio 2000);
dottor Umberto Santino, presidente del Centro siciliano di documentazione «Giuseppe Impastato», signor Giovanni Riccobono, signor Giampiero La Fata, amici di Giuseppe Impastato e, infine, signora Felicia Bartolotta, signor Giovanni Impastato e signora Felicia Vitale rispettivamente madre, fratello e cognata di Giuseppe Impastato (Palermo, 31 marzo 2000);
signor Benedetto Manzella, amico di Giuseppe Impastato (Roma, 27 luglio 2000);
professor Salvo Vitale, amico di Giuseppe Impastato (Roma, 28 settembre 2000).
A tutte le persone audite va il ringraziamento della Commissione per la disponibilità manifestata e il contributo offerto.
Anche l’attività di acquisizione documentale è stata particolarmente intensa. È stata acquisita agli atti della Commissione parlamentare antimafia la copia integrale del fascicolo relativo ai procedimenti penali scaturiti dalla morte di Giuseppe Impastato.
Numerosi sono poi i documenti inviati alla Commissione dal Centro Siciliano di Documentazione intitolato a Giuseppe Impastato e relativi alle pubblicazioni e alle attività del Centro.
Nel corso della attività istruttoria del Comitato di lavoro sono stati richiesti a diversi Uffici giudiziari di Palermo e di altre città siciliane, a numerose Autorità amministrative, ad organi di stampa, ai Comandi territoriali dell’Arma dei carabinieri, alla questura di Palermo, al Ministero dell’interno, al Sismi, al Sisde e a privati cittadini, specifiche informazioni, atti, documenti e notizie di volta in volta ritenuti utili agli accertamenti in atto.
Ad essi va, quindi, il ringraziamento della Commissione per il contribuito ai lavori dell’indagine parlamentare (1).
La relazione è divisa in tre parti più un capitolo di conclusioni finali. La prima parte intende analizzare:
a) il ruolo di Badalamenti nella direzione della organizzazione mafiosa e nel collegamento con Cosa nostra americana, il suo essere al centro di relazioni criminali, politiche, di interesse, con segmenti di organi dello Stato (pubblica Amministrazione, Polizia, Carabinieri) tali da identificare un vero e proprio sistema di potere;
b) la descrizione dell’asservimento del territorio in cui è maturato il delitto Impastato, asservimento finalizzato al controllo capillare di un imponente traffico di droga. Vengono individuati i caratteri di economia politica della criminalità del territorio, i conflitti di mercato (per così dire), la dislocazione dei poteri (mafiosi e politici, nel complesso). Punta Raisi per lunghi anni fu un aeroporto munito di «extraterritorialità», come alcuni porti, protetti e salvaguardati per la loro funzionalità al traffico della droga. La mafia dei tempi passati, che era nata all’interno del vecchio sistema terriero, degli appalti, dei crimini legati alla proprietà ed al possesso della terra, si era ormai «globalizzata», aveva «messo al lavoro» il territorio come «distretto» della droga;
c) Peppino Impastato comprese sicuramente tutto questo. Denunziò. Fece controinformazione (in parte nota, in parte andata perduta). Forse comprese qualcosa di più specifico di quanto la stessa Commissione sia riuscita, dopo tanti anni, a comprendere anche perché sono state occultate informazioni preziose. Certamente, per questo, fu ucciso. La mafia non poteva correre il rischio che diventasse consigliere comunale, che acquistasse rappresentatività politica e istituzionale, che «usasse» le istituzioni come laboratorio di controinformazione ed amplificazione delle denunzie. Peppino Impastato sarebbe stato eletto (come in effetti fu eletto) in un partito come Democrazia Proletaria che aveva, comunque, strutture, giornali, rilevanza nazionale e peso istituzionale, per quanto esiguo fosse all’epoca dei fatti. Il coraggioso componente di un coraggioso gruppo di persone capace di fare inchiesta ed animato da utopia trasformatrice, stava per coprire il ruolo di rappresentante politico locale, di articolazione di una strategia nazionale. In questo senso, il lavoro della Commissione, come ha affermato il senatore Figurelli durante una riunione del Comitato, deve essere considerato «un caso molto rilevante, forse il primo, compiuto dalla Commissione Antimafia, di ricerca autonoma, di documentazione, di informazione e controinformazione su un importante delitto politico/mafioso, a torto per troppo tempo dimenticato. Sarebbe auspicabile – conclude il senatore Figurelli – che per altri importanti delitti politico/mafiosi si facesse quest’opera di scavo, di ricostruzione».
È una proposta che la Commissione fa propria e osa rilanciare a tutto il Parlamento, come recupero di una memoria storica, ritessitura di una trama lacerata che non è solo doveroso omaggio al passato, ma segno «forte» di un impegno contro le mafie sempre più qualificato ed inserito in un percorso di democrazia progressiva e di Stato di diritto.
La seconda e la terza parte sono incentrate su una minuziosa ricostruzione delle indagini dei carabinieri della stazione di Cinisi e del reparto operativo del gruppo di Palermo, intervenuti sul luogo dove fu trovato il corpo dilaniato di Peppino Impastato e dei magistrati che diressero le indagini. La ricostruzione è finalizzata a comprendere se, a partire dalle prime fasi delle indagini, ci siano state anomalie nel comportamento degli inquirenti che abbiano determinato sottovalutazioni o incomprensioni di quanto in realtà era accaduto oppure se vi fossero state deviazioni o depistaggi.
In questa relazione, pur su un tema così aspro, su un terreno su cui si sono sviluppate e si sviluppano forti emotività, la Commissione non ha mai anteposto tesi preconfezionate alle verifiche critiche.
A conclusione di un lungo ciclo di audizioni e dopo un’accurata raccolta di un imponente materiale documentale è possibile affermare che siamo di fronte ad un lavoro condotto con grande meticolosità, anche filologica.
Se tutto ciò è stato possibile grande merito va reso alle testimonianze della mamma, del fratello, dei familiari tutti, delle compagne e dei compagni di Peppino Impastato; così come alla ricerca attenta, documentata, coraggiosa di Umberto Santino e del centro di documentazione da lui costituito e diretto, che riveste tuttora certamente un ruolo storicamente rilevante di osservatorio ed analisi delle mafie.
A questa relazione la Commissione non sarebbe giunta (è doveroso riconoscerlo) senza la professionalità e la passione civile dimostrata, nel corso di un lavoro istruttorio certamente complesso, dai preziosi consulenti onorevole Enzo Ciconte, dottor Gianfranco Donadio e dottor Antonio Maruccia, oltre che dal capitano Giuseppe De Bonis e dal personale di tutti gli uffici.
(1) Il riferimento a ciascuno dei documenti utilizzati è contenuto nel corpo della relazione; i documenti in copia o in originale sono consultabili presso la sede della Commissione.
PARTE PRIMA
Il contesto mafioso e don Tano Badalamenti
A «Mafiopoli» la vita scorre, giorno dopo giorno, tranquillamente e, come sempre, senza grandi scossoni, tranne le eccezioni che ci sono dappertutto. Solitamente c’è calma, tranquillità; invece quel giorno c’è movimento, c’è tensione. Tutti sono in attesa dell’importante decisione riguardante il progetto chiamato Z-10 e la costruzione di un palazzo a cinque piani; perciò «il grande capo, Tano Seduto, si aggira come uno sparviero sulla piazza» (2).
Il 7 aprile 1978 durante la trasmissione radiofonica «Onda pazza» di Radio Aut, Peppino Impastato – Peppino per gli amici, perché all’anagrafe il suo nome è Giuseppe – parla in questi termini del suo paese d’origine, Cinisi, centro costiero a due passi da Palermo e di un suo illustre concittadino.
Il Tano Seduto della trasmissione è Gaetano Badalamenti, nato a Cinisi il 14 settembre 1923, meglio noto come Tano, nome sempre preceduto dall’onorifico e rispettato «don.» Don Tano Badalamenti – potente, riverito, temuto, prestigioso esponente della mafia palermitana e siciliana, collocato ai suoi vertici assieme a personaggi destinati ad entrare nella leggenda di Cosa nostra come Stefano Bontate e come Luciano Leggio, quest’ultimo da tutti conosciuto come Liggio – è burlato, svillaneggiato, messo in ridicolo nel suo stesso paese; quel paese il cui nome è storpiato in «Mafiopoli» e il corso dove abita l’illustre esponente di Cosa nostra, corso Umberto I, è stato ribattezzato corso Luciano Liggio a beneficio degli ignoranti, perché sappiano, e a beneficio di chi abbia voluto far finta di non capire – perché almeno non possa dire di non aver capito.
I cittadini di Cinisi, a detta di tutti, ascoltano le trasmissioni di Radio Aut e ridono – eccome se ridono! – dei personaggi, tutti volti noti, anzi notissimi essendo loro compaesani, che Peppino ed i suoi compagni mettono in scena giorno dopo giorno.
Parlare di mafia a quei tempi è già un atto di coraggio, ma fare i nomi dei mafiosi e ridicolizzarne i capi pubblicamente è sicuramente un atto temerario. Talmente temerario che solo un pazzo può permetterselo. Qualche anno prima, il 30 marzo 1973, ha fatto i nomi dei mafiosi quel «matto» di Leonardo Vitale, un «modesto uomo d’onore» della «famiglia» di Altarello di Baida che, «travagliato da una crisi di coscienza», si è presentato in questura ed ha rivelato «quanto a sua conoscenza sulla mafia e sui misfatti propri ed altrui» (3).
Impastato non lo saprà mai, ma Vitale sarà ucciso il 2 dicembre 1984, qualche mese dopo essere uscito dal carcere, mentre rientra a casa in compagnia dell’anziana madre e della sorella con le quali ha assistito alla messa in una chiesa di un popolare quartiere di Palermo. Dopo le dichiarazioni, sconvolgenti per l’epoca, è stato dichiarato seminfermo di mente e, nonostante ciò, sbattuto in galera per le accuse lanciate contro se stesso, le uniche che saranno credute; quelle contro gli altri mafiosi da lui accusati saranno, invece, con la sola eccezione del giudice istruttore del tempo, Aldo Rizzo, ritenute inattendibili e di conseguenza tutti quelli chiamati in causa saranno prosciolti e lasciati andare.
Peppino Impastato non è mafioso, ma proviene sicuramente da una famiglia mafiosa; tra i suoi parenti c’è don Tomasi Impastato, confinato come mafioso ad Ustica durante il fascismo, diventato capomafia a Cinisi dopo il crollo del fascismo. Soprattutto, è mafioso Luigi Impastato, padre di Peppino, anche se è rimasto sempre un «mafioso di vecchio stampo» (4), di quelli che sono mafiosi per la cultura che hanno respirato in famiglia o in paese sin dalla fanciullezza, per l’intima convinzione che li porta a credere – sbagliando, e sbagliando tragicamente – che le fondamenta della società siano l’omertà, la cieca obbedienza verso chi comanda, un certo senso dell’onore.
Di pasta ben diversa sono altri mafiosi di Cinisi, a cominciare da Cesare Manzella, «notissimo capo mafia», ex emigrato negli Stati Uniti dove si è «arricchito all’ombra del gangesterismo americano con il traffico degli stupefacenti». Ritornato al suo paese natale, ha continuato a mantenere rapporti con i mafiosi americani e con quelli palermitani; nello stesso tempo esercita il dominio sui mafiosi del suo paese e della sua zona.
L’immagine sociale che cerca di trasmettere è di estremo interesse dati i tempi. È attento «a circondarsi dell’aureola del benefattore, facendosi promotore di istituti di beneficenza, mantenendo l’atteggiamento dell’uomo ligio ai doveri dell’onesto cittadino riuscendo così a cattivarsi la stima di gran parte della società provinciale” (5). Questo comportamento, che agli occhi dei più nasconde la vera natura dei suoi traffici, non ha ingannato i carabinieri di Cinisi i quali, nel proporlo per la diffida nel 1958, scrivono di lui che «l’individuo in oggetto è capo mafia di Cinisi. È di carattere violento e prepotente. È a capo di una combriccola di pregiudicati e mafiosi, composta dai fratelli “Battaglia”, cioè Badalamenti Gaetano, Cesare e Antonio, dediti ad attività illecita, non escluso il contrabbando di stupefacenti» (6).
È bene notare come sin da quel lontano documento del 1958 i carabinieri di Cinisi conoscano molto bene tutti i Badalamenti definendo con estrema precisione Gaetano Badalamenti come mafioso e come elemento coinvolto in traffici di stupefacenti. Lo scritto dei carabinieri prosegue affermando che Cesare Manzella «individuo scaltro con spiccata capacità organizzativa» gode di un «ascendente indiscusso» tra i pregiudicati e i mafiosi locali nonché tra quelli dei paesi vicini, quali Carini, Torretta, Terrasini, Partinico, Borgetto e Camporeale. «Tale suo ascendente fa sì che le malefatte compiute dai suoi accoliti non vengano nemmeno denunziate all’autorità costituita. Per tale motivo ed anche perché la sua funzione si esplica e si limita alla sola organizzazione della delinquenza e della mafia, è sempre sfuggito ai rigori della legge. Infatti è incensurato. Per la consumazione dei crimini si serve esclusivamente di sicari».
A Cinisi «corre voce» che la soppressione di due persone uccise di recente in territorio di Carini sia stata da lui voluta in quanto i due uccisi hanno compiuto dei furti di bovini probabilmente senza la relativa autorizzazione. «È comunque certo che i pochi ma gravi delitti venuti alla luce nel territorio di Cinisi, siano stati da lui sentenziati. Non si spiegherebbe diversamente, infatti, che un capomafia, quale il Manzella, tolleri nel suo territorio la consumazione di attività illecite senza il suo benestare. Tra tali delitti devesi ricordare, oltre al duplice omicidio Vitale e Alfano, peraltro consumato nel limitrofo territorio di Carini, i vari contrabbandi di sigarette e di stupefacenti per i quali sono stati denunziati appunto individui appartenenti alla cricca capeggiata dal Manzella. Il Manzella stesso ha ottima posizione economica consistente in proprietà immobiliari (terreni a coltura intensiva, giardini, oliveti ed altro, nonché fabbricati, tutti nel comune di Cinisi) il tutto valutato per 20 milioni circa» (7).
La carriera di boss mafioso di Cesare Manzella si interrompe drammaticamente alle 7,40 del 26 aprile 1963 in contrada Monachelli, una delle sue tante tenute che racchiude un vasto e ricco agrumeto alle porte di Cinisi. A quell’ora un «pauroso boato» fa «sussultare l’abitato di Cinisi» e ai carabinieri accorsi si presenta uno spettacolo che negli anni a venire sarà destinato ad essere abituale in Sicilia: un profondo cratere e corpi mutilati, in questo caso quelli di Manzella e del suo fattore Filippo Vitale. L’esplosivo che ha dilaniato i corpi è contenuto in una Giulietta rubata a Palermo all’inizio del mese (8).
La clamorosa uccisione ha un preciso movente. Agli inizi del 1962 Manzella, i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera e altri mafiosi – «tutti facoltosi proprietari terrieri, commercianti e costruttori edili» – finanziano una partita di droga che, arrivata in Sicilia, deve poi essere spedita negli Stati Uniti. A ritirare la merce e a spedirla ai mafiosi americani è incaricato, su proposta dello stesso Manzella, Calcedonio Di Pisa, «uno dei più abili emissari della mafia palermitana nel campo del contrabbando e del traffico di stupefacenti» (9); Di Pisa organizza una squadra fidata. A conclusione dell’operazione gli americani pagano una cifra inferiore rispetto a quella attesa dai siciliani. Interrogati sulle ragioni di tale riduzione, gli americani rispondono di aver pagato solo per la quantità ricevuta. È evidente che qualcuno ha fatto la “cresta” alla droga e ne ha consegnato una quantità inferiore. I sospetti cadono su Calcedonio Di Pisa accusato, neppure tanto velatamente, di aver trattenuto per sé la droga mancante. Convocato innanzi ad un «tribunale mafioso», Di Pisa riesce a scagionarsi per cui viene lasciato in vita. Tale decisione non convince i fratelli La Barbera.
Costoro, utilizzando la vicenda della droga trafugata, contestano la decisione del tribunale mafioso e passano a vie di fatto. Il 26 dicembre 1962 Calcedonio Di Pisa è ucciso a Palermo in Piazza Principe di Camporeale. Dopo Di Pisa tocca anche agli uomini della squadra che con lui hanno ritirato la droga; due si salvano per miracolo dagli attentati dei loro nemici.
I fatti sono gravi perché sono chiara testimonianza di un’insubordinazione contro il «tribunale mafioso» che ha mandato assolto Di Pisa. Più grave ancora è il coinvolgimento nella vendetta di Salvatore La Barbera che ha personalmente partecipato a quella riunione. Un tale comportamento non può certo essere ignorato né tanto meno tollerato. Salvatore La Barbera scompare il 17 gennaio 1963 in circostanze misteriose e non fa più rientro a casa. La morte di Manzella segue di poco quella di Salvatore La Barbera e gli inquirenti mettono in relazione le due morti giacché ritengono che sia stato proprio Angelo La Barbera a volere la morte del Manzella, in quanto è stato uno dei promotori della riunione del «tribunale di mafia» che, inquisendo sull’operato di Salvatore La Barbera ne ha decretato «la soppressione e la scomparsa, per avere costui ingiustamente assassinato l’intraprendente Calcedonio Di Pisa» (10).
La guerra che esplode si basa su un presupposto che anni dopo si scoprirà essere totalmente falso. A uccidere Calcedonio Di Pisa non sono stati i La Barbera, ma Michele Cavataio che è stato abilissimo ad ingannare tutti quanti, compresi i più grossi e più esperti cervelli mafiosi i quali non si accorgono della trappola in cui si vanno a cacciare.
L’uccisione di Calcedonio Di Pisa rompe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi del tempo in attesa di capire meglio quali effetti concreti avrebbe prodotto l’imminente costituzione della Commissione parlamentare antimafia che a quell’epoca è limitata alla sola Sicilia (11). I mafiosi precedentemente chiamati a stabilire «la linea di condotta da tenere», secondo talune fonti di «origine confidenziale», sono «alcuni malfattori e cioè Manzella Cesare da Cinisi, Greco Salvatore nato nel 1923 da Palermo, Badalamenti Gaetano da Cinisi, Panno Giuseppe da Casteldaccia, La Barbera Salvatore da Palermo, Leggio Luciano da Corleone. Per concorde volontà di costoro venne deciso di sospendere ogni attività delittuosa che avrebbe potuto confermare la pericolosità della malavita associata, con impegno reciproco di rispettare la tregua da parte di tutte le “famiglie mafiose” della Sicilia occidentale e di Palermo e provincia in particolare» (12).
L’elenco dei nomi è oltremodo interessante perché svela la singolare circostanza di Cinisi che è l’unico paese ad avere due rappresentanti, il più anziano Cesare Manzella e il giovane Gaetano Badalamenti, già a quel tempo «conosciuto anche all’estero come contrabbandiere e trafficante di droghe» (13). Potenza dei nomi o importanza del territorio controllato che comprendeva lo scalo aereo di Punta Raisi, nodo cruciale per gli arrivi di mafiosi o di droga e per le partenze di uomini o di droga verso – e da – ogni parte d’Italia e del mondo? Probabilmente sia l’uno che l’altro. Su quel territorio cruciale per i traffici nazionali e internazionali degli stupefacenti, si affermeranno due boss di prima grandezza, entrambi, guarda caso, con solidi legami con gli Stati Uniti d’America.
La scomparsa di Manzella favorisce la definitiva ascesa e la piena affermazione sulla mafia di Cinisi di don Tano Badalamenti. A quell’epoca ha 40 anni e alle spalle un vissuto criminale di tutto rispetto. Il curriculum che viene pubblicato in allegato alla relazione della Commissione antimafia firmata dal senatore Michele Zuccalà sul traffico dei tabacchi è oltremodo significativo ed è bene rileggerlo con attenzione perché si apprendono notizie di un certo interesse.
Badalamenti è l’ultimo di sette figli, oltre a lui tre sorelle e tre fratelli, e nasce nell’anno in cui muore il padre. Il piccolo Gaetano cresce orfano di padre. Il fratello più grande è Emanuele, classe 1902, emigrato negli Stati Uniti. Don Tano, scrive l’ignoto estensore del curriculum, «nato e vissuto in ambiente di modeste condizioni economiche ed esercitando l’attività di “vaccaio”, per altro senza impegno e con poca buona volontà, nel 1939 è nullatenente». Il suo tenore di vita, però, ben presto si rivela sproporzionato rispetto alle sue reali possibilità e «dalla voce pubblica viene attribuito ai guadagni facili ottenuti da illecite attività».
Non è infrequente, in quegli anni, imbattersi in rapporti scritti da funzionari di polizia o da ufficiali dei carabinieri che si richiamano ad un’indistinta «voce pubblica» tanto più autorevole quanto generica ed anonima. Così come saranno frequenti i richiami a non meglio precisate «fonti confidenziali», anche queste anonime, senza volto, senza nome e cognome. La «voce pubblica» è un enorme contenitore dentro il quale c’è di tutto: dalle cose vere alle cose parzialmente vere, alle cose inventate di sana pianta. È un intrico di vero, di verosimile e di falso che spesso viene inserito nei rapporti per illustrare la personalità di soggetti ritenuti criminali o mafiosi senza supportare le affermazioni della «voce pubblica» né da indizi né tanto meno da prove. Ma, in mancanza d’altro e quando serve, si fa ricorso alla «voce pubblica» o alla «fonte confidenziale», o a entrambe per non sbagliare.
La carriera criminale del futuro capo mafia di Cinisi inizia nel 1941, all’età di appena 18 anni, con una denuncia dei carabinieri di Terrasini per furto di bestiame. La via è aperta, e gli anni successivi saranno scanditi da accuse sempre più numerose nei confronti di Badalamenti:
25 marzo 1946 – Colpito da mandato di cattura emesso dal Consigliere istruttore della Corte di appello del Tribunale di Palermo per associazione a delinquere, concorso nel sequestro di persona al fine di estorsione in offesa all’industriale Vito Zerilli ed altro;
5 giugno 1947 – Denunziato per omicidio pluriaggravato in persona di Calati Salvatore;
21 ottobre 1947 – Denunziato, in stato di latitanza, dai carabinieri di Cinisi, per tentato omicidio con lesioni, in persona di Finazzo Procopio, avvenuto il 10 ottobre 1946 e, insieme al pregiudicato Di Maggio, per concorso nell’omicidio dello stesso Procopio, avvenuto il 15 ottobre 1947, con l’aggravante, per entrambi, di essere stati i mandanti;
13 novembre 1947 – Giudice istruttore del Tribunale di Palermo: mandato di cattura per il citato reato di tentato omicidio;
5 agosto 1949 – Sezione istruttoria della Corte di appello di Palermo. Mandato di cattura per sequestro di persona a scopo di estorsione;
14 settembre 1949 – Sezione istruttoria di Palermo: assolto dall’imputazione di omicidio aggravato per insufficienza di prove e, per amnistia, anche dall’imputazione di omessa denunzia di armi;
7 giugno 1950 – Arrestato dalla polizia statunitense ed estradato in Italia (14).
La Guardia di finanza ha segnalato e precisato per tempo che Gaetano Badalamenti è stato «arrestato a Monroe, Michigan, nel 1950 e, successivamente, deportato in Italia». Deportato è un termine un po’ forte, per molti versi singolare e inspiegabile rispetto a quelli, più usuali e più corretti, di espulso, di estradato o di rimpatriato, termine probabilmente sfuggito dalla penna dell’estensore dell’informativa, a meno di non credere che esso sia stato usato di proposito per sottolineare ulteriormente il fatto di una brutale espulsione dal territorio statunitense.
Badalamenti è riuscito ad entrare «illegalmente negli USA a quell’epoca. Questa è un’altra indicazione che riflette gli stretti legami tra gli Stati Uniti e la mafia siciliana» (15). La notazione è importante anche e soprattutto per l’anno in cui è fatta, il 1950; inoltre perché, già a quel tempo, Badalamenti deve essere stato considerato un personaggio di rilievo se il suo ingresso illegale negli Stati Uniti è valutato come una prova degli stretti legami esistenti tra mafia siciliana e mafia americana. La sottolineatura del Comando generale della Guardia di finanza non si presta certo ad essere equivocata: già in quel periodo emerge la preoccupazione per i rapporti che si vanno sempre di più annodando tra mafiosi siciliani e mafiosi americani. I timori non sono infondati poiché, qualche anno più tardi, il 12 ottobre 1957, ci sarebbe stata una significativa riunione a Palermo all’hotel «Delle Palme» tra mafiosi americani e mafiosi siciliani.
Scorrendo gli anni successivi ci imbattiamo in altre disavventure giudiziarie di Badalamenti:
11 gennaio 1951 – Arrestato dalla polizia di Napoli e denunziato per espatrio clandestino e truffa in danno della società di navigazione Italia;
21 giugno 1951 – Corte di assise di Trapani: assolto, per non aver commesso il fatto, dall’imputazione di sequestro di persona e, con formula piena, dall’imputazione di associazione per delinquere;
13 aprile 1953 – Denunziato, in stato di arresto, dalla Guardia di finanza di Palermo per contrabbando di sigarette estere e resistenza, a mano armata, a pubblico ufficiale;
21 luglio 1953 – Giudice istruttore del Tribunale di Palermo: non doversi procedere, per insufficienza di prove, in ordine all’imputazione di resistenza a pubblico ufficiale;
15 gennaio 1955 – Fermato dalla squadra mobile e rimpatriato a Cinisi con foglio di via obbligatorio, perché diffidato (16).
Il 24 gennaio 1956 la Guardia di finanza «durante alcuni servizi antisbarco» effettuati tra Castellammare e Scopello individua un’autovettura con a bordo Badalamenti e altre persone che sono annotate con singolare imprecisione: un «certo Finazzo da Cinisi (Palermo) e uno dei fratelli Buccafusca da Palermo». Il 10 marzo 1957 viene arrestato a Pozzillo dalla Guardia di finanza di Catania. Al momento dell’arresto, Badalamenti è armato. Sul bagnasciuga di Pozzillo e su un camion sono sequestrati circa 3.000 kg. di tabacchi lavorati esteri (17).
Ancora nel 1957 la «voce pubblica» lo ritiene autore di alcuni episodi di abigeato, come sempre non provati giudiziariamente. Il 12 ottobre di quell’anno all’hotel Delle Palme di Palermo si tiene un singolare incontro siculo-americano. Da parte americana, tra gli altri, ci sono Lucky Luciano, Giuseppe Bonanno noto anche come Joe Bananas, Francesco Garofalo che negli Stati Uniti era conosciuto come Frank Carrol e Joseph Palermo della famiglia Lucchese. Gli italiani sono rappresentati dal vecchio Giuseppe Genco Russo, Gaspare Maggadino, i fratelli Greco, Luciano Leggio e i La Barbera. «Tutti avevano in comune la capacità di pensare in grande, a superamento delle modeste e taccagne visuali contadine delle precedenti generazioni mafiose». C’è anche Gaetano Badalamenti «dalla mentalità più tradizionalista e rispettosa degli antichi valori mafiosi», che appare come un «personaggio in bilico tra due età». L’incontro di Palermo segue quello analogo tra siciliani e americani dell’anno precedente nella villa di Joseph Barbara ad Apalachin (New York).
L’ordine del giorno di questi incontri si concentra su due questioni. La prima: la riorganizzazione del traffico internazionale di droga che, dopo la chiusura della grande base caraibica di Cuba, dove era in corso la rivoluzione di Fidel Castro, è costretta a trovare nuove rotte rispetto alle quali la posizione geografica della Sicilia diventa centrale, anzi strategica; la seconda: la creazione di una struttura di vertice di Cosa nostra che sul modello americano permetta alle cosche siciliane di evitare la frammentazione, struttura che anni dopo sarà rivelata in tutti i suoi dettagli da Tommaso Buscetta quando deciderà di parlare con Giovanni Falcone (18). In conseguenza di questa decisione dapprima «si costituisce un organismo provinciale palermitano, da cui sono esclusi dunque i trapanasi, nel quale siedono inizialmente personaggi di secondo rango (semplici “soldati”) e non i capi-famiglia» che invece parteciperanno in un secondo momento dando impulso alla struttura di comando più solida e più duratura nel tempo (19).
Buscetta darà una versione diversa dell’incontro che, ammette, c’è stato ma al ristorante Spanò che si affaccia sul mare e non all’hotel Delle Palme dove invece è alloggiato Bonanno che, come un gran signore d’altri tempi, riceve gente e tiene conversazione con numerose persone accorse ad omaggiarlo. E, soprattutto, non si è parlato di stupefacenti perché, dice Buscetta: «sono convinto che Joe Bonanno non abbia mai commerciato in stupefacenti». Buscetta invece conferma che in quell’incontro conviviale Bonanno ha prospettato l’idea di dar vita ad una commissione (20).
Il vertice all’hotel Delle Palme è talmente sottovalutato dalla polizia che redige un rapporto sulla partecipazione di Genco Russo scrivendo che è accompagnato da alcuni «sconosciuti». In una relazione all’Antimafia si possono leggere giudizi molto severi:
In nessun modo può ritenersi possibile che la Questura di Palermo non fosse in condizione di individuare gli «sconosciuti» prima della fine delle riunioni che si tenevano in uno dei saloni del centralissimo e lussuoso albergo palermitano. Del resto questa spavalda manifestazione di sicurezza dell’organizzazione mafiosa è la conseguenza dell’inefficienza degli organi della sicurezza pubblica, che i boss non ignorano e sanno valutare.
L’inefficienza degli organi di polizia è fatta risalire ad una causa precisa che ha le sue radici nel mondo politico:
Naturalmente l’insipienza degli organi della pubblica sicurezza non è che il riflesso della insensibilità del potere politico, intorno agli anni ’50, nel valutare il fenomeno mafioso per affrontarlo e distruggerlo, o quanto meno contenerlo nella sua pericolosa evoluzione. Probabilmente se quegli «sconosciuti» partecipanti al vertice palermitano fossero stati individuati, si sarebbe avuto un quadro molto più preciso della evoluzione della «nuova mafia», quella che si staccherà dalle tradizionali condizioni agrarie legate al feudo, ed allo sfruttamento delle masse contadine, per collegarsi ai grandi interessi dell’edilizia, dei mercati ed infine del contrabbando e della droga. Avremmo avuto più chiara la successione che si preparava, verso la metà degli anni ’60, nell’organizzazione mafiosa ed il ruolo di grande importanza che vi avrebbero svolto i nuovi e più spietati capi, i La Barbera, i Greco, i Leggio, i Badalamenti (21).
Giudizio molto netto e puntuale sui ritardi, le sottovalutazioni, le incomprensioni di quegli anni che concretamente si traducono in un vantaggio nei confronti di una organizzazione che ancora si conosce poco e che molti sono convinti che non esista neppure, se non nelle fantasie dei nemici della Sicilia e dei siciliani. Ma, a metà degli anni settanta, quando viene pubblicata la relazione dell’Antimafia, la potenza della mafia è indicata nei «grandi interessi dell’edilizia, dei mercati ed infine del contrabbando e della droga», cioè nel passaggio dalla mafia rurale a una mafia più dinamica e più aggressiva, colta, peraltro, in un delicato momento di trasformazione e di riorganizzazione (22).
Nel 1958 Badalamenti è diffidato dalla Questura di Palermo. L’anonimo estensore del curriculum scrive che Badalamenti, in quel periodo, «per la sua violenza ed il suo passato assurge a figura di preminente importanza presso la malavita locale, tanto che la gente del paese lo teme al punto che preferisce accettare silenziosamente la sua prepotenza e le sue malefatte, per paura di vendette e rappresaglie».
Il 2 settembre 1961 a Cinisi ci sono due omicidi che la “voce pubblica” addebita a Badalamenti (23). Il duplice omicidio è attribuito a Badalamenti anche dal senatore Zuccalà perché, a suo avviso, «porta l’impronta del nuovo astro in ascesa che nello stile del più spietato killerismo, ora rompe la tregua tra le cosche per “governare” l’importante centro mafioso di Cinisi» (24).
Badalamenti continua a tessere la sua fitta rete di relazioni andando ben al di là della realtà locale e frequentando mafiosi di calibro elevato. Il 21 agosto 1960 il «contrabbandiere» Badalamenti va a ricevere assieme a Francesco Garofalo, originario di Castellammare del Golfo, all’aeroporto di Punta Raisi di Palermo, Vincenzo Martinez, originario di Marsala e proveniente da Roma. Garofalo e Martinez sono cittadini statunitensi. Entrambi finiscono in un rapporto del luglio 1965 firmato dalla Squadra mobile della Questura di Palermo insieme ad altri siciliani del calibro di Gaspare e Giuseppe Magaddino, Diego Plaia, Giuseppe Scandariato, Gioè Imperiale, Francesco Paolo Coppola, Angelo Coffaro e Giuseppe Genco Russo. Tutti quanti sono rinviati a giudizio dal giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo Aldo Vigneri perché ritenuti responsabili di aver «svolto in Italia, e specialmente in Sicilia, negli anni dell’immediato dopoguerra al 1965, una intensa attività associata negli illeciti traffici di narcotici, della valuta, del tabacco e dell’emigrazione clandestina interessanti gli Stati Uniti d’America e la Sicilia nel quadro della vasta organizzazione a delinquere tra italo-americani, operante negli Stati Uniti con il nome di “Cosa nostra” ovvero “Mafia Americana”, strettamente collegata alla mafia siciliana per rapporti di filiazione e permanenti ragioni di interesse».
Francesco Garofalo è «schedato» come sospetto trafficante di stupefacenti ed è ritenuto associato con «Plaia Diego, Buccellato Antonio, Martinez Vincenzo, Badalamenti Gaetano, Orlando Calogero, Cerrito Joseph, tutti elementi dediti al traffico internazionale dei narcotici». Don Tano, descritto come un «malfattore internazionale», non è imputato in questo procedimento penale ma i suoi incontri con alcuni imputati sono ritenuti, data la sua fama e i suoi precedenti, indizi di pericolosità per gli stessi imputati (25).
Nel mese di ottobre del 1961 Badalamenti è segnalato ancora una volta all’aeroporto di Palermo in compagnia dei palermitani Angelo La Barbera e Rosario Mancino, personaggio di un certo rilievo per quel tempo tanto che a lui è dedicato un intero capitolo nella relazione dell’Antimafia sui singoli mafiosi. Inizia come scaricatore di porto, poi prosegue come titolare di una agenzia marittima e, infine, come esportatore di agrumi (26). I rapporti con Mancino sono di epoca antica e si possono far risalire almeno al 1951. Quell’anno il palermitano invia 50 kg. di eroina negli Stati Uniti all’indirizzo del trafficante Nino Battaglia, nome dietro al quale si cela l’identità di Badalamenti (27); e forse non deve essere stato molto difficile individuare il nesso tra Badalamenti e Battaglia essendo proprio Battaglia – «battagghia» in dialetto siciliano – il soprannome dei Badalamenti di Cinisi. È l’insieme di questi rapporti a far includere Badalamenti nell’elenco dei 25 trafficanti «che senza dubbio si possono considerare di primo piano», elenco predisposto dalla Guardia di Finanza (28).
All’inizio degli anni sessanta don Tano Badalamenti si sposta a Roma dove convergono altri mafiosi. Per la precisione, dal febbraio 1962, «a Roma si sono dati convegno quasi tutti i maggiori esponenti dei gruppi facenti capo a Mancino Rosario, a La Barbera Angelo, ai Greco di Ciaculli, ai Badalamenti di Cinisi». Nelle vicinanze c’è già Francesco Paolo Coppola, meglio noto come Frank tre dita. «Durante questo periodo, stante alle notizie raccolte sia in Italia che negli Stati Uniti, il controllo sul traffico della droga passò nelle mani dei pochi latitanti come Davì Pietro, Greco Salvatore fu Pietro, Greco Salvatore fu Giuseppe, Buscetta Tommaso, Badalamenti Gaetano» (29). A Roma Badalamenti alloggia per qualche tempo all’hotel Cesari, meta di tanti altri mafiosi compresi Rosario Mancino e Angelo La Barbera. In quel periodo Badalamenti svolge una funzione importante nel mondo criminale poiché coordina «i rapporti tra Joe Pici, Gaetano Chiofalo e Frank Coppola, rispettivamente residenti a Torrilla in Brianza, a Marsiglia e a Pomezia» (30).
Dopo la clamorosa uccisione di Cesare Manzella, Badalamenti, prudentemente, sparisce dalla circolazione e si dà alla latitanza che si concluderà il 26 luglio 1969 quando farà rientro a Palermo con un aereo proveniente da Roma. Durante il periodo della latitanza il suo curriculum si arricchisce ulteriormente:
28 maggio 1963 – Denunziato, in stato di latitanza, dalla Squadra mobile e dal Nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Palermo per associazione a delinquere ed altro;
17 luglio 1963 – Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo: mandato di cattura perché imputato del reato di associazione per delinquere ed altro;
21 febbraio 1966 – Procura generale di Messina: ordine di carcerazione per conversione di pena, dovendo scontare anni tre di reclusione per contrabbando di tabacchi esteri, perché non solvibile al pagamento della multa di \P. 252.104.359;
25 febbraio 1967 – Denunziato, insieme ad altre 90 persone, dal Nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Roma, per traffici illeciti;
22 dicembre 1968 – Corte di assise di Catanzaro: assolto, per insufficienza di prove, dalla imputazione di associazione per delinquere; revocato il mandato di cattura emesso dall’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo in data 17 marzo 1963 (31).
Durante il dibattimento del processo di Catanzaro emergono rapporti economici tra Badalamenti, Domenico Coppola, Filippo Rimi, Giacomo Riina. Tali rapporti, però, sono valutati dai giudici catanzaresi alla stregua di rapporti d’affari e non come indizi di cointeressenze che nulla hanno a che fare con commerci quali quelli ufficialmente dichiarati. «All’epoca dei fatti per cui è processo», Gaetano Badalamenti risulta «impegnato nell’amministrazione dei beni propri (industria armentizia), delle sorelle e del fratello Emanuele residente in America». La conclusione dei giudici è chiara: «Non può pertanto del tutto escludersi che rapporti economici (quali risultano attraverso i menzionati assegni) siano stati mantenuti dal Badalamenti con altri imputati, quali Rimi Filippo, Coppola Domenico (entrambi commercianti grossisti di agrumi, vini ed animali) nonché col Di Pisa (che curava il commercio di vino per l’esercizio intestato a sua madre) in conseguenza della comune loro attività commerciale» (32). Insomma, sono tutti commercianti, più o meno agiati, che hanno tra loro normali rapporti relativi ai loro commerci.
La permanenza a Cinisi dopo il rientro dalla latitanza, all’indomani dell’assoluzione a Catanzaro, non durerà a lungo. Nel dicembre di quell’anno il Tribunale di Palermo, sulla base di un rapporto della Questura, lo assegna al soggiorno obbligato in provincia di Cuneo. Don Tano non ha alcuna intenzione di raggiungere la sede a lui assegnata e interpone appello. E, a questo punto, ha inizio una vicenda di estremo interesse nel corso della quale emerge il sistema di coperture e di connivenze che circonda il potente capo mafia di Cinisi. Nel febbraio del 1970 la Corte di appello di Palermo modifica la decisione del Tribunale e invia Badalamenti a Velletri.
Contro quella decisione, a fine febbraio, «insorge» il Comando dei carabinieri di Palermo chiedendo una nuova assegnazione. Le proteste producono un effetto immediato: Badalamenti viene inviato prima a Macherio e poi a Calciano. Il senatore Michele Zuccalà usa parole inusuali per una relazione parlamentare e sceglie a bella posta frasi inequivocabili per descrivere il senso complessivo di quella decisione:
È la scelta più sospetta che mai sia avvenuta e dimostra a quale distorsione può pervenire una misura di prevenzione, utile ed insostituibile, quando è irrazionalmente applicata. A Velletri, Badalamenti governa magnificamente la sua posizione di “capo” della cosca romana, ha molti amici e tra l’altro il cugino Francesco ed il notissimo Zizzo Salvatore sono anche loro a Velletri in un lussuoso appartamento, mentre a Roma è stato inviato in soggiorno obbligato, sempre dalla Corte di appello di Palermo a modifica di precedente decisione, il “braccio destro” di Badalamenti, D’Anna Gerolamo.
Tutto ciò non deve stupire poiché la «cellula romana» organizzata da Badalamenti durante il suo soggiorno a Roma agisce senza che nessuno si preoccupi di interessarsi delle sue attività, cosicché risulta essere «la più tranquilla», tanto che da essa partono «le più grosse operazioni di traffici illeciti internazionali». Già in questa fase emergono «coperture di persone rispettabili ed autorevoli» che intrattengono rapporti con Badalamenti e «probabilmente questo intreccio di protezioni e di “rispettabilità” è alla base del fenomeno più sconcertante che riguarda il boss della “nuova mafia” » e che ha determinato la vicenda dell’assegnazione della sede dove scontare il confino (33).
Che Badalamenti abbia goduto e goda – certamente non in solitudine ma in buona compagnia con altri mafiosi – di “amicizie e influenze” le più varie e le più diverse nei campi e negli ambienti più disparati, è noto da tempo, da quando, rinviato a giudizio il 23 giugno 1964 dal giudice istruttore di Palermo, Cesare Terranova, si scopre che è in possesso del porto d’arma regolarmente rilasciato; e come Badalamenti tanti altri mafiosi hanno il porto d’arma (34).
Gerolamo D’Anna sarà tra i protagonisti, un anno dopo questi fatti, della spedizione negli Stati Uniti di una partita di eroina di 83,5 kg. dietro la quale si intravede l’ombra di Badalamenti. L’operazione prende l’avvio a Roma dove l’eroina viene spedita a Torino. Qui D’Anna, all’epoca latitante, prenota sotto falso nome una camera nello stesso albergo dove alloggia il corriere italo-americano Giuseppe D’Aloisio. La droga da Torino raggiunge Genova su una Ford che viene imbarcata e spedita a New York sulla nave da crociera Raffaello. Il 22 settembre 1971 a New York Giuseppe D’Aloisio è arrestato con la droga occultata in nascondigli ricavati nella Ford ed accusato di avere clandestinamente introdotto la droga in territorio americano (35).
Due rapporti congiunti dei carabinieri e della questura di Palermo in data 6 giugno e 15 luglio 1971 denunciano Badalamenti e altre 113 persone, i mafiosi più rappresentativi dell’epoca: apre la lista Giuseppe Albanese, poi seguono Gerlando Alberti, Giuseppe Bono, Stefano Bontate, Giovan Battista Brusca, Tommaso Buscetta, Giuseppe Calderone, Francesco Paolo Coppola, Gerolamo D’Anna, Pietro Davì, Giuseppe Di Cristina, Antonino, Gaetano e Giuseppe Fidanzati, i due Salvatore Greco, Luciano Leggio, Rosario Mancino, Giuseppe Mangiapane, Gioacchino Pennino, Natale Rimi, Salvatore Riina, Antonino Salomone, Giuseppe e Tommaso Spadaro, Pietro Vernengo e tanti altri mafiosi i cui nomi sono meno significativi ai fini del presente lavoro.
Con sentenza del 16 marzo 1976 Badalamenti e gli altri vengono rinviati a giudizio dal giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo Filippo Neri. Le indagini raggiungono risultati apprezzabili tenuto conto del fatto che a quel tempo le strutture mafiose sono ancora molto impermeabili perché protetti dallo scudo dell’omertà e i collaboratori di giustizia sono del tutto sconosciuti nonché del tutto inimmaginabili. Le fonti confidenziali scalfiscono appena l’organizzazione, e tuttavia consentono a polizia e a carabinieri di comprendere, seppure in modo alquanto approssimativo e non completamente preciso, quanto si muove nel mondo mafioso palermitano.
Il punto di partenza dei rapporti è il periodo che va dalla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963 alla conclusione del processo davanti alla corte di assise di Catanzaro il 22 dicembre 1968. Periodo tranquillo, senza tanti morti ammazzati – appena un paio – che gli inquirenti ritengono frutto di una tregua siglata dai principali capi mafiosi preoccupati di non turbare l’andamento del processo di Catanzaro. Buscetta, come si vedrà tra poco, darà una lettura completamente diversa di quel periodo.
Le pagine dedicate a Badalamenti descrivono le progressioni compiute in campo criminale dal «vaccaio» di Cinisi. Una «fonte fiduciaria certa» racconta che Badalamenti «a seguito di riunione dei capi-gruppo, ognuno rappresentante di cinque famiglie, era stato nominato, secondo il vecchio rituale mafioso, “Presidente della Commissione” ». Le carte giudiziarie delineano un personaggio con una «posizione di preminenza e un ruolo direzionale» non solo all’interno della mafia siciliana ma anche nei collegamenti internazionali tra questa e quella americana.
Una donna, rimasta vedova del marito ucciso, «ha precisato che il marito, entrato a far parte della mafia, ebbe modo di apprendere che il Badalamenti era un “padreterno” per l’alto ruolo da lui ricoperto che gli conferiva il potere di realizzare qualsiasi sua decisione e di infliggere qualsiasi punizione».
Le carte dell’istruttoria ci mostrano nuove, importanti amicizie di don Tano a cominciare da quella, molto stretta, con Luciano Leggio. I due diventano compari dopo che Liggio fa da padrino di battesimo di un figlio di Badalamenti. È un’amicizia antica, che risale al 1957-1958 quando Liggio, non si sa come, ha assunto il «servizio di autotrasporti» per la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi.
Badalamenti, nonostante il soggiorno obbligato, si muove liberamente e mantiene i contatti con «altri affiliati», primo fra tutti Gerlando Alberti «e il suo nucleo mafioso, nonché con i latitanti Buscetta Tommaso, Greco “ciaschiteddu” e con Calderone Giuseppe». Badalamenti è fotografato mentre va a casa di Gerlando Alberti a Cologno Monzese, è solito incontrare nella zona di Macherio Gaetano Fidanzati e Faro Randazzo, è controllato dalla polizia il 17 giugno 1970 insieme a Gerlando Alberti, Giuseppe Calderone, Tommaso Buscetta e Salvatore Greco.
Dopo la sentenza di Catanzaro e il rientro a casa di numerosi capi mafia c’è una riorganizzazione delle cosche mafiose e una ripresa in grande stile del traffico degli stupefacenti che avviene nei modi più disparati come «il lancio in mare della droga in involucri impermeabili assicurati a un gavitello e il loro successivo recupero con mezzi veloci. Altro sistema era quello di far pervenire la droga dal Medio Oriente, via Malta (per il successivo inoltro negli Usa o presso le raffinerie francesi) in occasioni di sbarchi di sigarette, dentro un cartone opportunamente contrassegnato» (36).
Il processo celebratosi a Palermo conferma l’impianto accusatorio formulato nel rinvio a giudizio nei confronti degli imputati – nel frattempo scesi a 75 rispetto ai 114 iniziali – a cominciare dall’importanza della riunione del 1970 a Milano, importanza attestata dalla partecipazione di Alberti e Badalamenti che lasciano la sede del confino, di Calderone che si sposta appositamente da Catania e di Buscetta che «si indusse a venire in Italia nonostante pesasse su di lui la condanna a quattordici anni di reclusione inflittagli dalla Corte di Assise di Catanzaro». La riunione è sicuramente importante, come intuiscono i giudici palermitani, ma per motivi completamente diversi da quelli immaginati. Buscetta, come si vedrà in seguito, racconterà che l’incontro di Milano è stato organizzato per discutere le proposte della partecipazione della mafia siciliana al golpe Borghese (37). Quanto ai collegamenti internazionali risulta che sono «tra loro collegati nello schema della malavita organizzata siciliana per il traffico dell’eroina diretta agli Stati Uniti ed associati inoltre a gruppi di malfattori internazionali operanti in Francia, Canada, USA». Badalamenti è condannato a 6 anni e 8 mesi di reclusione per i reati contestatigli «esclusa, come per tutti gli altri, la scorreria in armi» (38). Insomma, sono sì mafiosi, ma di una razza speciale dal momento che non sono armati!
Il soggiorno milanese di noti mafiosi richiama l’attenzione della Commissione antimafia sin dal 1972. Nella sua relazione il presidente Francesco Cattanei menziona il fatto che «il noto Gaetano Badalamenti, confinato a Macherio, ha fatto di quella zona del milanese il centro di rapporti e di attività poco chiare collegate allo stesso Alberti e ad altri mafiosi come Gaetano Fidanzati, Faro Randazzo, Gaspare Gambino, Calogero Messina ed altri» (39).
A Milano, secondo un altro presidente della Commissione, Luigi Carraro, si sono svolti numerosi incontri tra Luciano Liggio e altri noti mafiosi come Agostino e Domenico Coppola, Gaetano Badalamenti, Salvatore Riina, Giuseppe Calderone e Giuseppe Contorno» (40).
Alla relazione Carraro aggiunge un particolare di non poco conto la relazione di minoranza firmata da deputati e senatori del Partito comunista italiano e della Sinistra indipendente a cominciare da Pio La Torre: «il commercialista palermitano Pino Mandalari (candidato del MSI alle elezioni politiche del 1972) ospita nel suo studio le società finanziarie di alcuni tra i più noti gangesters tra cui Salvatore Riina, braccio destro di Leggio, e il Badalamenti di Cinisi, nonché quelle di padre Coppola. Tali società intestate a dei prestanome si occupano delle attività più varie (dall’acquisto dei terreni ed immobili come beni di rifugio alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini)» (41).
Presso lo studio Mandalari aveva sede la società S.A.Z.O.I. che secondo la Guardia di finanza di Palermo appartiene a Gaetano Badalamenti. Presidente del collegio sindacale è proprio Mandalari. Altre società nella disponibilità di Badalamenti sono: S.F.A.C. Spa, Sicula calcestruzzi Spa, Immobiliare B.B.P.-S.N.C, Copacabana Spa, Investimenti Spa, Ber. Ma. Asfalti Srl, Badalamenti Vito & C. S.N.C., Badalamenti Gaetano ditta individuale, Vitale teresa ditta individuale (42).
A distanza di tanti anni non è possibile conoscere la consistenza del patrimonio finanziario movimentato dalle società finanziarie ospitate nello studio del commercialista Pino Mandalari, ma è probabile che sia stata talmente rilevante da suscitare invidie e gelosie; sentimenti e risentimenti, questi, gravidi di tragedie quando albergano in cuori mafiosi. Sta qui, secondo Giovanni Falcone, una delle ragioni della grande guerra di mafia esplosa negli anni ottanta. Intervistato da Marcelle Padovani spiega: «L’origine di tale guerra risale agli inizi degli anni Settanta, quanto alcune famiglie realizzano vere e proprie fortune grazie al traffico di stupefacenti. Gaetano Badalamenti, all’epoca uno dei pochi boss in libertà, getta le basi del commercio con gli Stati Uniti, in particolare con Detroit, dove ha la sua testa di ponte. Salvatore Riina, il “corleonese”, se ne accorge nel corso di una conversazione con Domenico Coppola, residente negli Stati Uniti, da lui convocato appositamente in Sicilia. Ecco gettati i presupposti per lo scatenamento della guerra di mafia» (43).
Anche Buscetta, che conosceva molto bene sia Badalamenti che Leggio e Riina, sottolinea la disparità delle condizioni economiche esistenti tra di loro. Badalamenti «li ha mantenuti per anni, perché i corleonesi erano dei pezzenti morti di fame. Se ne prese cura, gli trovava le case per dormire durante le loro latitanze, il sostegno economico. Riina e Liggio avevano molti obblighi nei suoi confronti» (44).
Antonino Calderone ha raccontato del risentimento di Luciano Leggio, condiviso dagli altri corleonesi, nei confronti di Badalamenti: «L’accusa rivolta a Badalamenti era di essersi arricchito con la droga nel momento in cui molte famiglie si trovavano in serie difficoltà finanziarie e molti uomini d’onore erano quasi alla fame»; tra l’altro, Badalamenti avrebbe iniziato da solo il commercio di stupefacenti «all’insaputa degli altri capimafia che versavano in gravi difficoltà economiche» (45).
La disparità di condizioni economiche esistenti all’interno di Cosa nostra spiegano tante cose, dalle gerarchie di comando, che per anni sono nelle mani di Badalamenti, alle manovre, poi riuscite di Riina e dei corleonesi, di dare l’assalto al potere dei Badalamenti e dei suoi uomini. Lotte di potere e lotte di supremazia economica si intrecciano nel cuore più profondo di una moderna, anzi della più moderna organizzazione mafiosa italiana.
Gli anni che vanno dal 1970 al 1978 costituiscono il periodo cruciale di Badalamenti che passa dal fulgore della massima potenza ai vertici di Cosa nostra all’espulsione dalla stessa organizzazione. Per comprendere il 1970 occorre fare un passo indietro, agli anni 1962-1963 caratterizzati dallo scontro armato con i La Barbera ritenuti gli assassini di Calcedonio Di Pisa. In realtà, si scoprirà dopo che ad uccidere Calcedonio Di Pisa è stato Michele Cavataio, detto il “cobra”, che ha fatto ricadere la responsabilità sui la Barbera per prenderne il posto. A metà di dicembre 1969 a Viale Lazio, in pieno centro di Palermo, sei mafiosi travestiti da poliziotti entrano sparando negli uffici di una impresa edile e ammazzano Cavataio.
Il 1963, come si ricorderà, è l’anno in cui è iniziato un periodo di tregua che durerà fino al 1968, tregua che tutti – magistrati, forze dell’ordine, opinionisti – hanno ritenuto che sia stata il frutto di un accordo tra i capi mafia per non turbare il processo di Catanzaro. È, invece, accaduto qualcosa di più clamoroso perché – racconta Buscetta negli anni successivi – i vertici di Cosa nostra, vuoi perché non riescono a porre rimedio al caos interno vuoi perché sottoposti a una repressione da parte dello Stato dopo la strage di Ciaculli, decidono di sciogliere l’organizzazione, almeno per una fase transitoria.
L’idea di ricostituire il vertice dell’organizzazione matura nel 1970. Secondo Buscetta, nel giugno del 1970 c’è un incontro a Roma tra lo stesso Buscetta, Bontate, Salvatore Greco e Badalamenti. Nell’occasione Buscetta suggerisce agli altri di ricostituire la Commissione di Cosa Nostra. I quattro si trovano d’accordo anche nell’opportunità di includere Luciano Leggio che verrà sostituito, in sua assenza, da Totò Riina. La decisione assunta successivamente è quella di dar vita a un triumvirato formato da Stefano Bontate, Luciano Liggio e Gaetano Badalamenti, «un individuo rozzo e ignorante ma “venerato come Dio in terra” nei loro ambienti» (46)“.
Per quanto potere abbia avuto, Badalamenti rimane pur tuttavia un uomo che non riesce a far dimenticare la sua estrazione sociale.
Se Stefano Bontate – uomo che ha la «raffinata cultura della mediazione della mafia cittadina», figlio di quel «Paolino che, sin dall’immediato dopoguerra», ha intessuto «rapporti politici ad altissimo livello» – per i suoi modi è soprannominato il «principe di Villagrazia» (47), il mafioso di Cinisi, «un boss zotico come pochi», è costretto a subire le punture di spillo di Liggio «che non rinunciava a sottolineare l’ignoranza di Gaetano Badalamenti rilevando con piacere maligno gli errori di grammatica e di sintassi» (48). Liggio, quanto a estrazione sociale non è certo «superiore» a Badalamenti, però, contrariamente al “vaccaio” di Cinisi, «benché figlio di poveri braccianti e inveterato assassino, coltivava l’immagine di intellettuale della mafia e amava farsi chiamare “professore” » (49). Disprezzato perché incolto e dai modi alquanto rozzi, odiato perché si è arricchito alle spalle di altri mafiosi, Badalamenti è anche temuto e rispettato per il suo sistema di potere che va ben al di là di Cosa nostra.
In triumvirato è un “miracolo” mafioso perché mette assieme due aspetti della mafia del tempo: da una parte Bontate e Badalamenti che si sono arricchiti con il traffico di droga, che «controllano molti politici siciliani e assieme ai Salvo costituiscono una holding dell’illecito quasi inespugnabile», dall’altra parte «capiscono di dover cooptare nella gerarchia di comando quei rozzi, arroganti, semianalfabeti corleonesi, che hanno il merito di sparare e ammazzare» (50).
Forte della nuova carica Badalamenti ordina a Salvatore Zara, un camorrista napoletano affiliato a Cosa nostra, di uccidere un uomo che sul finire degli anni cinquanta si è reso responsabile di un oltraggio nei confronti del famoso Lucky Luciano, espulso dagli USA e da poco residente a Napoli. Luciano è schiaffeggiato all’ippodromo di Agnano da un esuberante guappo in vena di esibizionismo. L’offesa, seppure con molti anni di ritardo, è lavata e Badalamenti, «fiero» di aver ordinato l’assassinio, si precipita a far sapere negli USA quanto è appena accaduto (51).
La costituzione della commissione e la formazione del triumvirato hanno solo rinviato lo scontro interno che si alimenterà di vari ingredienti e di varie causali momentanee, ma che avrà sempre come epicentro sensibile «un problema di potere» (52).
Lo scontro non esploderà all’improvviso ma avrà una lunga gestazione data la tattica attendista dei corleonesi. Totò Riina, che eredita il comando prima esercitato da Luciano Liggio, agisce abilmente per minare, giorno dopo giorno, progressivamente, il potere e il prestigio di Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti.
All’epoca del triumvirato – approfittando di un periodo di carcerazione di Bontate, di Badalamenti e di Liggio – Riina organizza il sequestro di persona in danno di Luciano Cassina senza informare né Bontate né Badalamenti. I due, appresa la notizia, protestano in modo furibondo, ma Luciano Liggio li mette a tacere dicendo che oramai è del tutto inutile discutere dal momento che il riscatto è stato pagato e l’ostaggio liberato. Il tema dei sequestri torna ad essere affrontato quando, chiusa l’epoca del triumvirato, si ricostituisce la commissione con a capo proprio Badalamenti. La decisione della commissione è di non fare sequestri di persona in Sicilia «e ciò – spiegherà Buscetta – non per motivi umanitari ma per un mero calcolo di convenienza. I sequestri, infatti, creano un sentimento generale di ostilità da parte della popolazione nei confronti dei sequestratori e ciò è controproducente se avviene in zone, come la Sicilia, dove la mafia è tradizionalmente insediata» (53).
Anche Giuseppe Calderone si oppone ai sequestri di persona per motivi opportunistici dal momento che, proteggendo i Costanzo, «egli non sarebbe stato in grado di difenderli adeguatamente» da un sequestro non avendo a sua disposizione un numero adeguato di «soldati» (54).
Il sequestro di Luciano Cassina ha dei risvolti particolari perché l’obiettivo principale di Riina non è solo incassare i soldi del riscatto, ma anche quello di colpire sia Badalamenti sia Bontate. Luciano è figlio del conte Arturo Cassina, uno degli uomini più ricchi e più in vista di Palermo, che ha il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell’illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo. Un uomo così va adeguatamente protetto, altrimenti ne va di mezzo il prestigio dei boss locali. Ed è proprio il prestigio dei palermitani il principale obiettivo di Riina (55).
Nel luglio del 1975 avviene il sequestro più clamoroso per la Sicilia e più devastante per Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate. Viene rapito Luigi Corleo, suocero di Antonino Salvo, cugino di Ignazio Salvo, entrambi ricchi e famosi esattori, amici di uomini potenti politici della DC, a cominciare da Salvo Lima, entrambi affiliati alla cosca di Salemi. Il sequestro Corleo, a parte l’enormità del riscatto, 20 miliardi dell’epoca, è un colpo durissimo sia per Bontate sia per Badalamenti. Nè l’uno né l’altro, riusciranno a fare nulla di significativo né per la liberazione dell’ostaggio né per la restituzione del corpo dell’anziano sequestrato. Gli appelli rivolti da Antonino Salvo non sortiscono gli effetti sperati: Bontate e Badalamenti sono del tutto impotenti: non conoscono gli autori del rapimento, non riescono a recuperare il corpo.
È Antonino Salvo a dare il senso dell’impotenza, sua e di Stefano Bontate. Interrogato da Falcone del 1984 così risponde:
Avevo ritenuto di aver instaurato una tranquilla anche se scomoda convivenza con tali organizzazioni ritenendo a torto che fosse sufficiente comportarsi bene per non avere problemi con chicchessia. Quando però venne sequestrato mio suocero, mi resi conto che era necessario scendere a patti, anche nel tentativo quanto meno di ottenere la restituzione del cadavere del nostro congiunto. Fu così che decisi di rivolgermi a Stefano Bontate, il cui altissimo livello in seno alle organizzazioni mafiose era noto a tutti ed al quale anzi nel passato avevo fatto qualche piccolo favore avvalendomi del mio vasto giro di amicizie.
Né fa meglio Gaetano Badalamenti che, pur rivestendo il ruolo di capo della commissione, non è in grado di esaudire i desideri di Salvo (56).
Non è facile minare d’un colpo il prestigio di un uomo come Badalamenti; ci vuole tempo, molto tempo, anche perché Riina fa un lavoro coperto, nascosto, attento a non esporsi. E poi perché Badalamenti, per i ruoli che ha ricoperto e per le sue indubbie capacità personali, ha messo in piedi negli anni un fitto sistema di relazioni sia mafiose sia politiche sia economiche che ancora gli garantiscono la tenuta di un robusto sistema di potere.
Anche il racconto di vicende minute ha il pregio di gettare un fascio di luce per illuminare questo sistema di relazioni messo in piedi da Badalamenti. Il catanese Antonino Calderone ha raccontato che «qualche tempo dopo la strage di via Lazio» Badalamenti manda a chiamare Giuseppe Calderone, Calogero Conti che all’epoca è vice rappresentante per la provincia di Catania e Antonino Calderone. Badalamenti è un uomo ospitale e offre il pranzo ai suoi invitati anche per meglio predisporli ad accettare la proposta che si appresta a fare. «Durante il pranzo ci chiese se potevamo ospitare il suo compare Luciano Liggio, che era latitante in loco, ma che non poteva più restare là. Mentre eravamo a tavola arrivò un prete. Ci fu presentato come un uomo d’onore della famiglia di Partinico. Agostino Coppola si chiamava. Quello che poi riscosse i soldi del sequestro Cassina. Con mio fratello abbiamo scherzato durante il viaggio di ritorno su questo prete che faceva parte della mafia. Accettammo di buon grado la proposta di Badalamenti» (57).
Nel racconto di Calderone, Badalamenti appare al centro di una molteplicità di rapporti con più persone provenienti da paesi diversi: con Luciano Liggio che aiuta nella sua latitanza; con i Calderone, che sono di Catania, convocati a Cinisi e coinvolti nella protezione della latitanza di Liggio fidando sul fatto che Catania è meno controllata dalle forze di polizia perché ritenuta una provincia priva di mafia; con il sacerdote Agostino Coppola che si reca a Cinisi, senza alcun preavviso, come se fosse un ospite abituale.
Badalamenti è stato tra i protagonisti delle vicende fondamentali della storia della mafia che si sono intrecciati a momenti particolari della vita politica italiana a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta e, quando non è stato protagonista, a lui si sono rivolti in molti per un parere e per un consiglio.
Il nome di Badalamenti comincia a circolare sin dall’epoca della uccisione del bandito Giuliano. C’è oramai una vasta letteratura sull’argomento. Qui basta solo ricordare che tra le varie versioni dei fatti ve ne è una secondo la quale «Giuliano sarebbe stato già consegnato cadavere a Pisciotta dalla mafia di Monreale, diretta dal boss Ignazio Miceli, che aveva provveduto a farlo uccidere dal ‘picciotto’ Luciano Liggio, per ordine di Gaetano Badalamenti» (58).
Non è compito di queste pagine accertare la veridicità di questa versione dei fatti; essa è stata richiamata solo per sottolineare il ruolo di Badalamenti – anche se la versione dovesse risultare totalmente falsa è tuttavia significativa la circostanza che nella vicenda sia stata inclusa la presenza del mafioso di Cinisi – e per far notare come il suo ruolo sia, a quell’epoca, di grado superiore a quello di Liggio.
Durante il tentativo di golpe del principe Junio Valerio Borghese, Badalamenti discute con Leggio, Salvatore Greco, Giuseppe Calderone e Giuseppe Di Cristina la posizione più conveniente per Cosa nostra rispetto alla proposta del principe. Badalamenti si schiera contro il golpe fascista nonostante il principe Borghese abbia promesso, in caso di successo del golpe, un’ampia amnistia e dunque l’immediata liberazione di Vincenzo Rimi e del figlio Filippo, cognato di Badalamenti, in quel periodo detenuti (59). Buscetta ricorda le parole di don Tano: «A noi i fascisti non ci hanno mai sopportato e noi andiamo a fare un golpe proprio per loro?» (60).
I suoi dinieghi pesano, come quello opposto a Michele Sindona quando rientra in Sicilia alla ricerca di consensi per un suo progetto separatista (61).
Altrettanto noti e robusti erano i suoi rapporti con i cugini Salvo. È stato Badalamenti a presentare i due cugini a Stefano Bontate, a presentarli come mafiosi perché i Salvo e lo stesso Badalamenti, per ovvie ragioni, hanno sempre cercato di tenere nascosta la loro affiliazione alla mafia nella famiglia di Salemi (62).
Tramite i Salvo Badalamenti entra in contatto con uomini politici potenti come Salvo Lima, discusso esponente politico siciliano molto legato all’onorevole Giulio Andreotti di cui costituisce l’architrave della sua corrente in Sicilia (63).
Mentre Riina e i corleonesi cercano di metterlo in difficoltà dentro Cosa nostra, Badalamenti continua a tessere i suoi rapporti a livello internazionale per estendere ancor più i suoi canali, già robusti peraltro, del traffico di stupefacenti. Agli inizi del 1976 i capi del traffico turco inviano in Italia un loro «ufficiale di collegamento» Salah Al Din Wakkas con il compito di coordinare l’afflusso di eroina in Italia. Per fare ciò Wakkas tratta «con i pezzi più grossi della mafia di Palermo. Quasi tutti i membri della Cupola erano nel suo elenco, a partire dal mammasantissima appena prescelto per capeggiarla, Gaetano Badalamenti». Nel frattempo Badalamenti partecipa assieme a Salvatore Greco, Giovanni Spatola, John Gambino e Giuseppe Bono a società costituite dai Cuntrera (64).
E tuttavia, Riina continua a minare la credibilità di Badalamenti e di Bontate che, di fronte ai corleonesi, assumono sempre di più la funzione dell’ala moderata della mafia.
È bene intendersi sull’uso dei termini perché moderato è sicuramente un attributo che stride se riferito a un mafioso. Ed in realtà è così anche se occorre tenere conto delle varie fasi attraversate dalla mafia – che è pur sempre un’organizzazione che si trasforma col trascorrere del tempo – e dei ruoli che i singoli personaggi volta per volta assumono.
Dopo la sentenza di Catanzaro Badalamenti diventa «il personaggio più potente di Cosa nostra» e la sua prima preoccupazione è quella di organizzare una serie di attentati in Sicilia «per mostrare a tutti che la mafia era tornata in scena più forte di prima». Le sue sono espressioni inequivocabili oltre che crude: «Dobbiamo riprendere possesso della Sicilia. Dobbiamo farci sentire. Tutti i carabinieri a mare li dobbiamo buttare» (65). In altre occasioni, dopo l’acquisizione di enormi ricchezze e dopo aver realizzato il suo sistema di potere e di alleanze politiche e istituzionali, è Badalamenti, diventato oramai «governativo», a dire: «Noi non possiamo fare la guerra allo Stato» (66).
Riina sfrutterà questa contraddittorietà, che ha sempre contraddistinto gli uomini di mafia, e la userà nella sua lotta contro Bontate e Badalamenti. «Che facciamo, stiamo a parlare degli sbirri?» (67) risponde Riina a chi gli chiede conto del perché ha fatto ammazzare il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. L’ufficiale è stato ucciso la sera del 20 agosto del 1977. La decisione, ancora una volta, è assunta senza informare né Bontate né Badalamenti.
Dopo una serie molto lunga di colpi per indebolire il prestigio di Badalamenti, per Riina finalmente arriva il grande giorno: Badalamenti è addirittura espulso da Cosa nostra, «posato» come si dice in gergo mafioso. Una delle conseguenze dell’espulsione è l’isolamento del mafioso cacciato. Si trova scritto nell’ordinanza-sentenza del maxiprocesso: «L’uomo d’onore posato non può intrattenere rapporti con altri membri di Cosa nostra, i quali sono tenuti addirittura a non rivolgergli la parola» (68). È una delle tante regole – buona per i picciotti ma non per i capi – che saranno regolarmente infrante.
Le reali ragioni che hanno spinto Riina e i corleonesi ad adottare una decisione così drastica nei confronti di Badalamenti sono rimaste un mistero per lunghi anni e ancora oggi non c’è una spiegazione sicura. Ci sarebbe anche da chiedersi come mai non sia stato ucciso dal momento che l’infrazione grave – qualunque sia stata – è stata commessa da uno che ha avuto un ruolo così preminente in Cosa nostra; e dunque avrebbe dovuto essere punito con la morte. Non è semplice rispondere a questa domanda, si possono solo avanzare delle ipotesi: un’ipotesi potrebbe essere il suo legame di comparaggio con Liggio che potrebbe aver funzionato come salvacondotto per avere salva la vita; un’altra ipotesi potrebbe essere legata agli affari economici rilevanti gestiti da Badalamenti e ai suoi molteplici collegamenti nel campo degli stupefacenti, affari che, con ogni probabilità, ha gestito in cointeressenze con altri capi mafia e che avrebbe potuto continuare a gestire anche da «posato», e, dunque, gli è stata salvata la vita per non compromettere gli interessi di altri mafiosi di peso; un’altra ipotesi, inoltre, si può rintracciare nel fatto che all’epoca l’uccisione di Badalamenti avrebbe fatto reagire ben più pesantemente Stefano Bontate che è ancora forte in Cosa nostra avendo a disposizione uomini a lui fidati e un sistema di relazioni politiche ancora molto forte. Questa ultima ipotesi non esclude per niente le altre con le quali non è per nulla in contraddizione, anzi.
C’è, infine, da vedere quando esattamente è stato «posato» Badalamenti avendo questa circostanza una diretta relazione con l’assassinio di Peppino Impastato. Leggiamo quanto ha detto Giovanni Falcone a Marcelle Padovani:
Gaetano Badalamenti, resosi conto di quanto si sta tramando contro di lui, decide di eliminare un certo numero di persone, in particolare Francesco Madonia della famiglia di Vallelunga (Caltanissetta) con cui Leggio appare legato a doppio filo. Nel gennaio 1978 Salvatore Greco detto «Cicchiteddu» (uccellino), giunto dal Venezuela dove risiede, ma che ha conservato tutta la sua influenza su Cosa nostra, incontra in una riunione a Catania Gaetano Badalamenti. Questi, accompagnato da Santo Inzerillo, suo amico fedele, solleva il problema dell’eliminazione di Francesco Madonia, aggiungendo che Giuseppe Di Cristina, capo della famiglia di Riesi, è disposto ad occuparsene. Ma Chicchiteddu consiglia di soprassedere, di rimandare ogni decisione a data successiva e invita anzi Di Cristina a lasciare la carica di capo famiglia e di «andare a riposare in Venezuela» con lui. Ripartito per Caracas, vi muore prematuramente, per cause naturali, il 7 marzo 1978. Il 16 marzo Francesco Madonia viene ucciso, secondo le dichiarazioni di Antonino Calderone, da Giuseppe Di Cristina e Salvatore Pillera (inviato di rinforzo dal catanese Giuseppe Calderone). Il 30 aprile 1978 è il turno però di Giuseppe Di Cristina, assassinato nonostante un suo tentativo di mettersi in contatto coi carabinieri. Il 30 settembre 1978 viene ucciso Giuseppe Calderone e, fatto più importante, Gaetano Badalamenti viene «posato» dalla sua famiglia (69).
La scansione temporale fatta da Falcone è di estremo interesse perché ci dice come Riina abbia abilmente stretto il cerchio attorno a Badalamenti e a Bontate per poi dividerli evitando che Bontate potesse andare in soccorso di Badalamenti. Prima viene ucciso Di Cristina, poi viene ucciso Calderone – eliminando, così, due amici di Bontate e di Badalamenti – poi, alla fine, viene «posato» Badalamenti con un argomento così forte da paralizzare la reazione di Bontate. L’anno è il 1978, il mese dovrebbe collocarsi tra ottobre e dicembre, dopo l’assassinio di Calderone e dopo la morte di Impastato che è del 9 maggio.
Quando i miseri resti di Peppino Impastato sono stati trovati attorno ai binari della ferrovia, Badalamenti è ancora in sella alla sua famiglia di Cinisi e a Cosa nostra, seppure con un potere di vertice traballante a livello provinciale anche se il fatto è difficile che sia a conoscenza dei picciotti di Cinisi.
C’è una conferma di tutto ciò nelle cose dette da Antonino Calderone il quale ha raccontato come suo fratello Giuseppe, o Pippo come veniva da lui chiamato, abbia subìto nel luglio 1978 un attentato e come subito dopo i due fratelli si siano recati a Trabia, vicino Palermo, «per discutere con Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Rosario Riccobono. Esponemmo i fatti e io non riuscii a trattenere uno sfogo contro di loro, questi grandi mafiosi palermitani che non si rendevano conto della strategia dei corleonesi di fare piazza pulita in periferia – a Catania a Caltanissetta ad Agrigento – per poi concentrarsi sull’attacco diretto alle posizioni degli avversari nella capitale dell’isola» (70).
È immaginabile una riunione del genere con un Badalamenti «posato»? È difficile pensare che uomini di mafia così esperti e navigati come Bontate e Riccobono si sarebbero esposti a tanto conoscendo le regole che, per quanto mutevoli potessero essere, hanno sempre fatto divieto di parlare dei fatti interni dell’organizzazione con uno «posato» anche se il divieto non ha implicazioni dirette negli affari, soprattutto quelli legati al traffico di droga. Lo stesso Buscetta «si era mostrato piuttosto scettico che il Badalamenti, benché ‘posato’, fosse coinvolto nel traffico di stupefacenti con altri uomini d’onore; senonché, venuto a conoscenza delle prove obiettive acquisite dall’ufficio, si è dovuto ricredere ed ha commentato che ‘veramente il denaro ha corrotto tutto e tutti» (71).
Questa circostanza conferma, se mai ce ne fosse bisogno, il potere di Badalamenti e la sua spregiudicatezza che non gli hanno mai fatto difetto, nemmeno in passato. E l’esempio più evidente di ciò sta nel fatto che nel 1963, nonostante la decisione di sciogliere le famiglie, don Tano non abbia sciolto la sua e, anzi, proprio in quel periodo, abbia affiliato alla famiglia di Cinisi un personaggio importante come il dottor Francesco Barbaccia, medico dell’Ucciardone, il carcere di Palermo. «La cerimonia di iniziazione avvenne a Ciaculli, nella tenuta Favarella» (72).
Ancora di recente sono emersi particolari importanti che vanno nella direzione dell’ipotesi avanzata. Il Tribunale di Palermo che ha giudicato il senatore Andreotti ha accertato che «Antonino Salvo fornì al Bontate, per circa due mesi, un’Alfetta blindata in un periodo molto critico per Cosa Nostra: quello – collocato attorno alla fine del 1978 – in cui il Badalamenti era stato espulso dalla Commisione». Nel corso di quel dibattimento il mafioso Francesco Marino Mannoia diventato collaboratore di giustizia ha risposto così ad una domanda del pubblico ministero: «Badalamenti ha rivestito la carica di capo della Commissione e quindi era la persona più importante, in seno a Cosa nostra, fino a quando ne ha fatto parte, appunto, fino alla fine, credo, del ’78» (73).
La storia di Badalamenti dagli anni cinquanta al 1978, ci racconta anche la storia di come i capi mafia di quel periodo abbiano potuto affermarsi grazie alle complicità, alle sottovalutazioni e incomprensioni degli organi dello Stato, periferici e nazionali.
Su questo la Commissione antimafia ha pronunciato parole nette e inequivocabili già in passato, con la relazione firmata dal presidente Cattanei nel 1971:
Le sentenze nei confronti dei mafiosi sono assolutorie, nel migliore dei casi, per insufficienza di prove; i rapporti di polizia sono inadeguati e talvolta contraddittori; le concessioni amministrative a loro favore sono a dir poco stupefacenti; il credito bancario è loro concesso con larghezza; hanno libero accesso agli uffici dello Stato e degli enti locali; possono assicurare il successo, direttamente o indirettamente, ai candidati nelle elezioni politiche o amministrative. Per anni, magistrature, polizia, organi dello Stato e forze politiche hanno troppo spesso mostrato di ignorare l’esistenza della mafia. Questo spiega, per esempio, perché dai killers non si sia cercato quasi mai di risalire ai mandanti dei crimini… È quindi fuori luogo parlare di ricerca della rispettabilità per alcuni di essi, come mezzo per captare più agevolmente favori da parte delle autorità. I favori li ottengono tutti, nessuno escluso. Quando si pensa alla facilità con cui la Questura di Palermo rilascia passaporti e licenze di porto d’arma c’è da allibire. Le protezioni riguardano tutti i mafiosi di cui abbiamo fatto la storia, non solo quelli che potevano sembrare rispettabili. Navarra, dopo che è tornato al confino da Joiosa Jonica, avendovi scontato solo una parte della pena, perché la misura era stata revocata, viene proposto per il cavalierato al merito della Repubblica e lo ottiene. Le assoluzioni non si contano, le concessioni di credito neppure.
Le responsabilità dei pubblici poteri sono nette «perché nei confronti di quasi tutti questi mafiosi si riscontrano inspiegabili omissioni, scarsa coscienza della gravità del fenomeno, tolleranza che talvolta rasenta la connivenza insieme a comportamenti coraggiosi e risoluti, a seconda dei periodi e delle circostanze» (74).
È in questo quadro che si avviano gli anni settanta; e per comprendere quanto è successo con le indagini attorno alla morte di Peppino Impastato occorre andare a quell’andazzo, a quel modus operandi degli apparati dello Stato, a quel periodo nel corso del quale il nemico principale sono i terroristi rossi e non i mafiosi, perché i primi sono pericolosi per lo Stato, i secondi no.
E a Cinisi il corpo estraneo era sicuramente un giovane come Peppino Impastato che perfino il padre ha cacciato di casa e non un uomo rispettato come don Tano Badalamenti.
Peppino Impastato si scontra con il potente don Tano, uno dei personaggi più ambigui e più indefinibili di Cosa nostra. Dice di lui Antonino Calderone: «Non ha senso chiamare ‘vecchio’ o ‘nuovo’ uno come lui» (75) perché, si potrebbe aggiungere, è stato contemporaneamente, a seconda delle convenienze, vecchio e nuovo, sempre a cavallo di diverse realtà.
La storia di don Tano Badalamenti, così come è sommariamente descritta nelle pagine precedenti, si ferma al 1978, poco dopo la morte di Peppino Impastato. Quando il giovane militante di Democrazia proletaria viene ucciso in quel modo atroce Badalamenti è ancora a capo della famiglia di Cinisi e, nonostante sia alla vigilia di essere «posato», ha ancora un potere immenso; tanto immenso che, pur essendo «posato» egli, come se nulla di rilevante fosse successo, continua ad interessarsi attivamente del traffico degli stupefacenti.
Peppino Impastato aveva ben compreso la pericolosità di Tano Badalamenti e Tano Badalamenti aveva ben compreso la pericolosità di Peppino Impastato. Erano, entrambi, pericolosi l’uno nei confronti dell’altro.
Peppino Impastato non si era sbagliato. Badalamenti continuerà ad essere pericoloso ben oltre il 1978. Esemplare, da questo punto di vista, è la condanna a una lunga pena detentiva subita negli Stati Uniti d’America e il carcere che lì sta scontando. La condanna riguarda l’imputazione di traffico internazionale di stupefacenti, l’antica attrazione che Badalamenti ebbe fin dalla gioventù quando fu tra i primi a comprendere che con quel commercio poteva guadagnare tanto denaro e con il denaro ottenere tanto potere.
NOTE
(2) Su questo cfr. S. Vitale, Nel cuore dei coralli. Peppino Impastato, una vita contro la mafia, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995, pp. 95-97.
(3) C. Stajano (a cura di), L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. 5-6. Il volume riproduce una scelta significativa e corposa dell’ordinanza-sentenza dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo contro Abbate Giovanni + 706 firmata da Antonino Caponnetto e alla quale hanno preso parte, su delega ad essi conferita, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello.
(4) Vitale, Nel cuore dei coralli, cit., p. 44 e p. 17. Su questo aspetto cfr. anche F. Bartolotta Impastato, La mafia in casa mia, a cura di Anna Puglisi e Umberto Santino, La Luna, Palermo 1986.
(5) La citazione è tratta da I boss della mafia, prefazione di Girolamo Li Causi, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 282. Il volume riproduce gli atti della Commissione antimafia relativi alle biografie di singoli mafiosi: Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra, Luciano Leggio, clan dei Greco, i fratelli La Barbera, Tommaso Buscetta, Rosario Mancino, Mariano Licari, Salvatore Zizzo, Vincenzo Di Carlo. Il documento originale si trova in Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (d’ora in poi: Antimafia), V legislatura, doc. XXIII, n 2-quater, Relazione sull’indagine riguardante casi di singoli mafiosi, 2 luglio 1971.
(6) I boss della mafia, cit., p. 282.
(7) Ivi, pp. 282-283.
(8) Ivi, pp. 281-283. Tra Cesare Manzella e Luigi Impastato c’era un rapporto di parentela, infatti la moglie di Manzella era sorella di Luigi Impastato. Su questo cfr. S. Vitale, Nei cuore dei coralli, cit., p. 17.
(9) Su questo cfr. R. Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Rizzoli, Milano 1991, p. 216.
(10) I boss della mafia, cit., p. 273 e pp. 284-285. Sui La Barbera cfr. ivi pp. 243-267 e R. Catanzaro, Il delitto come impresa, cit., p. 215 e segg. Su questo vedi la ricostruzione fatta in Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione (Giudice istruttore Cesare Terranova), Sentenza contro La Barbera Angelo + 42, 23 giugno 1964, in Antimafia, Documentazione allegata alla Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (d’ora in poi: Documentazione allegata), VIII legislatura, doc., XXIII, n 1/XI, volume quarto, tomo diciassettesimo, pp. 494-496. Sullo scontro Greco – La Barbera cfr.: G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni ’60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989, pp. 252-260.
(11) Sul dibattito e sul travaglio parlamentare che ha portato dopo anni di discussioni all’istituzione della Commissione antimafia vedi N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari. 1943-91, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. IX-XXXII. Sulla Commissione antimafia 1963-1976 cfr. U. Santino, Storia del movimento antimafia, Editori riuniti, Roma 2000, pp. 208-219.
(12) Tribunale di Palermo, Sentenza contro Angelo La Barbera + 42, cit., p. 492.
(13) Ivi, p. 545.
(14) Cenni biografici su Badalamenti Gaetano, allegato n. 3, in Antimafia, VI legislatura, doc. XXIII, n. 2, Relazione sul traffico mafioso di tabacchi e stupefacenti nonché sui rapporti fra mafia e gangesterismo italo americano, relatore Zuccalà, 4 febbraio 1976, pp. 487-488.
(15) Rapporto del Comando generale della Guardia di finanza, redatto a richiesta della Commissione, sugli episodi di contrabbando di tabacchi e di stupefacenti, interessanti direttamente o indirettamente la Sicilia, accertati nel periodo dal 1955 al 1963, in Antimafia, Documentazione allegata, cit., VIII legislatura, doc., XXIII, n. 1/VIII, volume quarto, tomo quattordicesimo, parte prima, p. 309.
(16) Cenni biografici su Badalamenti Gaetano, cit., p. 488.
(17) Rapporto del Comando generale della Guardia di finanza, cit., p. 211 e p. 224.
(18) G. C. Marino, Storia della mafia, Newton & Compton, Roma 1998, pp. 213-215.
(19) Su questo vedi S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1993, 196.
(20) P. Arlacchi, Addio Cosa nostra. La vita di Tommaso Buscetta, Rizzoli, Milano 1994, pp. 60-66.
(21) Zuccalà, Relazione, cit., p. 332.
(22) Sui problemi più complessivi di analisi delle trasformazioni della mafia cfr. U. Santino, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso d’analisi, Centro di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1994. Dello stesso autore cfr. anche La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995 e la bibliografia ivi citata.
(23) Cenni biografici su Badalamenti Gaetano, cit., p. 488.
(24) Zuccalà, Relazione, cit., p. 390.
(25) Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione (Giudice istruttore Aldo Vigneri), Sentenza contro Garofalo Francesco + 20, 31 gennaio 1966. Il documento si trova in Antimafia, Documentazione allegata, VIII legislatura, doc. XXIII, n. 1/VIII, volume quarto, tomo quattordicesimo, parte prima, pp. 617-918.
(26) Per le attività criminali di questi due mafiosi sono utili i profili tracciati dall’Antimafia, in I boss della mafia, cit., pp. 315-330 e pp. 243-267.
(27) Relazione del 24 maggio 1971 del dottor Giorgio Staffieri, dirigente la sezione narcotici del Comitato provinciale stupefacenti di Roma, su mafia, contrabbando di tabacchi e traffico di stupefacenti nella provincia di Roma, in Antimafia, Documentazione allegata, VIII legislatura doc. XXIII, n. 1/VIII, volume quarto, tomo quattordicesimo, parte seconda, p. 1008. La segnalazione è partita dalla «polizia americana» che indica il «sedicente» Nino Battaglia come il nome di copertura dietro il quale si cela il «noto trafficante di Cinisi Badalamenti Gaetano», in I boss della mafia, cit., p. 320.
(28) Rapporto del Comando generale della Guardia di finanza, cit., pp. 300-302.
(29) Relazione del dottor Giorgio Staffieri, cit., pp. 1011-1013.
(30) Queste notizie sono in M. Pantaleone, Mafia e droga, Einaudi, Torino 1966, p. 93.
(31) Cenni biografici su Badalamenti Gaetano, cit., p. 489. La sentenza della Corte di assise di Catanzaro è stata giudicata sempre come una sentenza negativa la cui responsabilità va attribuita interamente sulle spalle dei giudici catanzaresi. «Appare evidente – scrive la Commissione antimafia – che alla coraggiosa sentenza istruttoria del giudice Terranova non ha fatto riscontro un’adeguata, approfondita valutazione da parte dei giudici di Catanzaro», in I boss della mafia, cit. p. 291. In controtendenza il giudizio di Giuseppe Di Lello il quale scrive che quella di Catanzaro «è una sentenza che ‘grazia’ sì Cosa Nostra, ma per ragioni prevalentemente oggettive. Per troppo tempo, specie da chi non l’ha letta, è stata portata ad esempio del lassismo dei giudici di Catanzaro nei confronti della mafia e l’erroneità di questo giudizio è duro a morire». Cfr. G. Di Lello, Giudici, Sellerio, Palermo 1994, p. 95.
(32) Corte di Assise di Catanzaro (presidente Pasquale Carnevale), Sentenza contro La Barbera Angelo + 116, 22 dicembre 1968. Il documento è in Antimafia, Documentazione allegata, VIII legislatura, doc. XXIII, n. 1/XI, volume quarto, tomo diciassettesimo, pp. 1230-1232.
(33) Zuccalà, Relazione, cit., pp. 413-414.
(34) Tribunale di Palermo, Sentenza contro La Barbera Angelo + 42, cit., p. 521.
(35) Zuccalà, Relazione, cit., pp. 413-414.
(36) Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione (Giudice istruttore Filippo Neri), Sentenza contro Albanese Giuseppe + 113, 16 marzo 1973, in Antimafia, Documentazione allegata, VIII legislatura, doc. XXIII, n. 1/VIII, volume quarto, tomo quattordicesimo, parte seconda, pp. 1172-1445.
(37) P. Arlacchi, Addio Cosa nostra, cit., p. 168.
(38) Tribunale di Palermo, (Presidente Stefano Gallo), Sentenza contro Albanese Giuseppe + 74, 29 luglio 1974, in Antimafia, Documentazione allegata, VIII legislatura, doc. XXIII, n. 1/VIII, volume quarto, tomo quattordicesimo, parte seconda, pp. 1722-1889. Sulla circostanza del mancato riconoscimento dell’aggravante, derivato dalla «più banale forma di sottovalutazione» vedi G. DI Lello, Giudici, cit., p. 109.
(39) Tranfaglia, op. cit., p. 51.
(40) Antimafia, VI legislatura, doc. XXIII, n. 2, Relazione conclusiva, relatore Carraro, 4 febbraio 1976, p. 287.
(41) Relazione di minoranza dei deputati La Torre Pio ed altri, pp. 582-583.
(42) S. Bonsanti, M. De Luca, C. Stajano (a cura di), Il caso Mandalari, Dossier Libera n. 1, 1995, p. 53 e pp. 68-69. Sulle imprese del gruppo di Badalamenti – D’Anna cfr. U. Santino, G. Lafiura, L’impresa mafiosa, F. Angeli, Milano 1990, pp. 272-277.
(43) G. Falcone in collaborazione con M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano 1992, p. 106.
(44) T. Buscetta, intervista di Saverio Lodato, La mafia ha vinto, Mondadori, Milano 1999, p. 101.
(45) Il racconto di Calderone è in Pino Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano 1992, p. 94 e p. 105. Calderone conferma che Riina ha saputo da Coppola del coinvolgimento di Badalamenti nel traffico di droga, ivi, p. 107.
(46) L’espressione poco lusinghiera verso Badalamenti è in C. Sterling, Cosa non solo nostra. La rete mondiale della mafia siciliana, Mondadori, Milano 1990, p. 115 e p. 363.
(47) S. Montanaro e S. Ruotolo, La vera storia d’Italia, Pironti, Napoli 1995, p. 757. Il volume riproduce quasi per intero la memoria del Pubblico ministero presso il tribunale di Palermo (firmata da Giancarlo Caselli e dai suoi sostituti) nel procedimento penale n. 3538/94 N. R. instaurato nei confronti di Andreotti Giulio.
(48) F. Calvi, La vita quotidiana della mafia dal 1950 ad oggi, prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1989, p. 106 e p. 121.
(49) A. Stille, Nella terra degli infedeli. Mafia e politica nella prima Repubblica, Mondadori, Milano 1995, p. 94.
(50) A. Caruso, Da cosa nasce cosa. Storia della mafia dal 1943 a oggi, Longanesi & C., Milano 2000, p. 209.
(51) Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., p. 27.
(52) G. Falcone – M. Padovani, Cose di Cosa nostra, cit., p. 108.
(53) C. Stajano, Mafia. L’atto di accusa, cit., p. 76.
(54) D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1992, p. 245. Sui sequestri di persona in generale vedi Antimafia, XIII legislatura, doc. XXIII, n. 14, Relazione sui sequestri di persona a scopo di estorsione, relatore senatore Alessandro Pardini, 7 ottobre 1998.
(55) A Stille, Nella terra degli infedeli, cit., p. 94.
(56) C. Stajano, Mafia. L’atto di accusa, cit., pp. 339-343.
(57) P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, pp. 83-84. Su questo vedi anche D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 58.
(58) G. C. Marino, Storia della mafia, cit., p. 194.
(59) Su questo cfr. S. Montanaro e S. Ruotolo, La vera storia d’Italia, cit., p. 669 e A. Stille, Nella terra degli infedeli, cit., p. 168.
(60) T. Buscetta, La mafia ha vinto, cit., p. 98.
(61) G. C. Marino, Storia della mafia, cit., p. 260. Su Michele Sindona cfr. gli atti prodotti dalla Commissione parlamentare appositamente istituita.
(62) Su questo cfr. le cose dette da Buscetta in S. Montanaro e S. Ruotolo, La vera storia d’Italia, cit., p. 43 e p. 63.
(63) Su Lima cfr. U. Santino, L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
(64) C. Sterling, Cosa non solo nostra, cit., pp. 171-172. Sulle società con i Cuntrera cfr la prefazione al volume di Sterling scritta da Michele Pantaleone, p. XIII.
(65) Le frasi di Badalamenti sono raccontate da Antonino Calderone. Cfr. P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., p. 99.
(66) S. Montanaro e S. Ruotolo, La vera storia d’Italia, cit., p. 10.
(67) T. Buscetta, La mafia ha vinto, cit., p. 74.
(68) C. Stajano, Mafia. L’atto d’accusa, cit., p. 48.
(69) G. Falcone, Cose di cosa nostra, cit., pp. 106-107.
(70) P. Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., p. 273.
(71) C. Stajano, Mafia, l’atto d’accusa, cit., p. 48.
(72) S. Montanaro e S. Ruotolo, La vera storia d’Italia, cit., p. 120 e p. 802.
(73) Tribunale di Palermo, (F. Ingargiola presidente, S. Barresi e A. Balsamo estensori), Sentenza nei confronti di Andreotti Giulio, 23 ottobre 1999, p. 366 e p. 372.
(74) I boss della mafia, cit., p. 42, p. 21 e p. 16.
(75) Arlacchi, Gli uomini del disonore, cit., p. 27.
fonte www.ecorav.it