Mi piace frequentarli perché è come una boccata d'ossigeno dalla mia soffocante routine. Anche io, all'università, ero come loro. Da quando mi sono messa in testa la parolina "indipendenza", invece, sono invecchiata di colpo. Da qualche anno passo gran parte della mia giornata chiusa in un ufficio a masticare frustrazione, ad annoiarmi o a vendere il mio tempo a buon prezzo a qualcuno che ne fa un uso che non condivido. Mi concedo ogni tanto qualche sogno, cambio ufficio e Paese, navigo più che altro tra alcune ipotesi su internet, oppure tardi la sera, davanti a un certo file Excel che un giorno potrebbe diventare realtà.
Non cambierei la mia vita con la loro per nulla al mondo, perché quella parolina per me ha un significato troppo grande e importate. Però ogni tanto, quando mi siedo davanti ad uno di questi amici, con le occhiaie e la faccia tirata dopo una giornata di lavoro, e li sento discutere di idee e di progetti con la mente sgombra e priva di gabbie, un po' mi chiedo se una via per non perdersi del tutto esista davvero. E mi torna in mente il testo di una canzone degli eccellenti Pulp, che già al liceo avevo scritto a pennarello sulla parete della mia stanza.
E mi rendo conto che forse, nonostante tutti i miei sforzi, questo è quello che sto mio malgrado diventando. Una persona comune.
Nota: La parola "mantenuto" ha generalmente una connotazione negativa. Si parla di bamboccioni, mantenuti, eccetera. Io invece la utilizzo semplicemente come la definizione di una condizione, attraverso la siamo passati in molti, di non avere bisogno di portare a casa uno stipendio ogni mese. Chi si riconosce in questa definizione non ne abbia perciò a male: nessun giudizio di merito. Solo la constatazione che il "mantenuto", a volte, deve rinunciare ad una parte più piccola di se stesso per andare avanti.