Oggi è di nuovo uno di quei giorni in cui vorrei avere Bersani qui e chiedergli perché. Non mi capacito.
— Luca Sofri (@lucasofri) 18 aprile 2013
E, a tutti gli effetti, è difficile ripensare alle ultime mosse del Pd e vederci un disegno razionale con una qualche strategia. O perlomeno con una qualche strategia con velleità di riuscita. La leadership del partito sapeva perfettamente che la candidatura di Franco Marini avrebbe aggiunto divisioni a un gruppo già sull’orlo dello scontro frontale interno. I renziani non sopportano il “lupo marsicano”, ma – del trittico con Amato e D’Alema consegnato a Berlusconi – era il meno ben visto anche da molti dei fedeli di Bersani.
Nonostante tutto – come già successo nei grotteschi tentativi di elemosina indirizzati al Movimento 5 Stelle nelle ultime settimane – il management dell’azienda-Pd è andato dritto sulla sua strada, facendo orecchie da mercante davanti ai mugugni degli azionisti. E, ribaltando l’assunto che vuole i post-comunisti convinti aziendalisti per attitudine, ha de facto finito per portare la corporation sul lastrico.
Fuor di metafora, i continui cambi di linea, con posizioni diverse a seconda del momento e dell’interlocutore («con Berlusconi mai!» se si parla al proprio elettorato e, nel contempo, si tratta col Pdl per avviare un governo) hanno esacerbato conflitti interni mai sopiti non solo negli ultimi mesi, ma più probabilmente dalla fondazione stessa del partito – al netto dei toni ecumenici e messianici del Veltroni dei tempi. Assistere al ritorno delle accuse reciproche fra bande rivali, dei portavoce-delfini-pretoriani che abbandonano la nave che affonda e delle manovre suicide riporta ad una tradizione irrazionale e ai limiti del masochismo, ben presente nel corredo genetico della sinistra italiana.
Bisognerebbe chiedere a Bersani «perché» con oggi ha dato il colpo di grazia a quello che si definisce “più grande partito riformista italiano”, dopo due mesi di figure magre (o magrissime) che, al già pessimo risultato elettorale, avevano aggiunto nuovi cali di consenso nei sondaggi. Ce ne sarebbero troppe da dire – e molti hanno provato a riassumere: la Carta d’intenti della coalizione che si disgrega dopo una manciata di giorni, le polemiche con la corrente renziana esasperate e strillate in prima pagina, l’incapacità di parlare chiaro e spiegare come ci si sta muovendo. Ma sarebbe impegno sprecato, dato che oggi il Pd si è scavato la fossa da solo ed è ad un passo dall’entrarci. Col sorriso sulle labbra e una frase scolpita sulla lapide: «Non abbiamo vinto».
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