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Competenze professionali, la babele delle classificazioni non aiuta i disoccupati

Creato il 24 febbraio 2016 da Propostalavoro @propostalavoro

competenceUno degli elementi strategici posti alla base del Jobs Act è il passaggio da una logica di “difesa del posto di lavoro” ad una  strategia di “difesa del lavoratore”, attraverso una maggiore solidità degli ammortizzatori sociali ed il miglioramento dei meccanismi di ricollocazione dei disoccupati.

L’obiettivo che si intende raggiungere è quello di una maggiore occupabilità delle persone, ampliando i percorsi di incontro domanda/offerta – da qui la spendibilità dell’assegno di ricollocazione anche presso le agenzie per il lavoro – e investendo sul rafforzamento delle competenze professionali. E qui si arriva alla nota dolente.

Quello che dovrebbe essere il “dizionario” comune tra servizi per l’impiego, aziende e lavoratori – ossia una classificazione delle competenze completa e condivisa – in realtà non esiste.  Esiste una classificazione ISFOL, relativa ai “fabbisogni professionali” e collegata alla Classificazione delle professioni Istat 2011, la quale è caratterizzata da un alto grado di genericità. Esistono diverse classificazioni regionali: tra le più complete occorre citare quelle del Veneto e della Lombardia. Dopodiché, ciascuna realtà utilizza una propria classificazione delle competenze, rendendo molto difficile il dialogo tra diversi sistemi regionali, e soprattutto quello tra aziende e lavoratori da un lato e servizi per l’impiego dall’altro.

Eppure il D.Lgs. 150/2015, quando elenca i principali servizi e misure di politica attiva del lavoro,  parla di analisi e bilancio delle competenze professionali e – nella descrizione del patto di servizio personalizzato – si fa esplicito riferimento alla “partecipazione a iniziative e laboratori per il rafforzamento delle competenze”. Con quali strumenti si intendono implementare tali misure? Attraverso metodologie e classificazioni differenti da territorio a territorio, non riconosciute dalle aziende e dagli operatori privati? Oppure si vuole aprire un percorso che – pur nel rispetto delle specificità regionali – consenta di costruire linguaggi condivisi tra mondo del lavoro e mondo dell’istruzione? A tale proposito siamo sostanzialmente fermi al D.Lgs. 13/2013, il quale prevedeva un “Sistema nazionale di certificazione delle competenze” ed un relativo “Repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali”: quest’ultimo strumento, definito attraverso il Decreto del Ministero del lavoro del 30 giugno 2015, rappresenta il riferimento  unitario  per  la  correlazione   delle   qualificazioni regionali  e  la  loro  progressiva  standardizzazione. Il Decreto prevede che “la correlazione tra  qualificazioni  regionali è  un  processo orientato alla progressiva  standardizzazione  nella  prospettiva  di implementazione del  repertorio  nazionale”: si tratta di un percorso che appare ancora tortuoso, il quale non fa che confermare ancora una volta un quadro dei servizi per l’impiego che rimane frammentato in venti sistemi regionali. 

Tali esigenze sono ancora più evidenti se si vuole realizzare il fascicolo elettronico del lavoratore previsto nel D.Lgs. 150/2015, il quale riprende gli obiettivi previsti dal libretto formativo del cittadino e prevede di integrarvi le informazioni di carattere previdenziale. Il libretto formativo del cittadino era stato pensato per raccogliere, sintetizzare e documentare le diverse esperienze di apprendimento dei cittadini lavoratori, nonché le competenze da essi comunque acquisite: nella scuola, nella formazione, nel lavoro, nella vita quotidiana, ciò al fine di migliorare la leggibilità e la spendibilità delle competenze e l’occupabilità delle persone. Obiettivi ambiziosi ma mai realizzati, e tale situazione rischia di ripetersi ancora con il fascicolo elettronico del lavoratore.

È ovvio che non vi può essere un rafforzamento delle competenze dei disoccupati se prima non si individuano metodi efficaci per leggere e rilevare le stesse, e si realizzano strumenti funzionanti. Tali obiettivi non possono però essere raggiunti se non si costruiscono percorsi condivisi con i rappresentanti delle aziende e dei lavoratori, per realizzare davvero una classificazione delle competenze che sia in grado di leggere e rappresentare un mercato del lavoro in continua evoluzione, che sia valida a livello nazionale e sappia interfacciarsi con la classificazione europea di abilità/competenze, qualifiche e occupazioni (ESCO).


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