Il 15 novembre 1988, mentre gli Usa ancora non si erano ripresi dallo shock per la tragedia del “Challanger”, la navetta spaziale esplosa al decollo nel gennaio 1986, un bagliore di fuoco illuminò il cielo di Baikonur: sospinto dalla potenza del razzo vettore Energia, l’Unione Sovietica stava lanciando per la prima volta nello spazio il Buran, la sua risposta allo space shuttle americano. Con il Buran, l’Urss cercava ancora una volta di mostrare al suo nemico la propria supremazia in campo tecnologico: due anni prima i sovietici avevano iniziato la costruzione della stazione spaziale “Mir”, e adesso sfidavano gli Usa su di un rivoluzionario progetto che Washington aveva lanciato sette anni prima, ovvero i voli spaziali con navette riutilizzabili. Il Buran (in russo “tormenta di neve”) in effetti nasceva in un contesto politico in cui anche le missioni spaziali erano dettate più dalla Guerra Fredda che da mero interesse scientifico. Il programma, non a caso, era stato voluto da Leonid Brezhnev in persona, dopo che il Kgb l’aveva informato, nel 1974, che gli Stati Uniti stavano progettando un nuovo tipo di navicella spaziale: il leader sovietico si era convinto che l’utilizzo di quella nuova astronave da parte degli Usa sarebbe stato a fini bellici e aveva dunque imposto ai tecnici di approntare al più presto una risposta.
Quando però dai primi voli dello space shuttle si capì (nonostante le “guerre stellari” annunciate più volte da Ronald Reagan) che le navette Usa avevano solo scopi scientifici, anche il Buran tornò alla sua destinazione d’origine: quella di “traghetto spaziale”.
La navetta era stata progettata per compiere almeno un centinaio di viaggi orbitali con a bordo fino ad un massimo di 10 persone tra piloti (fino a quattro) e scienziati (fino a sei), ma rispetto al suo omologo americano poteva viaggiare anche senza equipaggio, guidato da terra, come accadde per il suo primo volo di esattamente 25 anni fa. Quel giorno, dopo essersi sganciato dal vettore Energia, il Buran compì due volte il giro della Terra, e concluse la sua prima missione atterrando su di una pista del cosmodromo di Baikonur 3 ore e 25 minuti dopo il lancio.
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L’euforia per il successo andò a coprire quello che in realtà fu il canto del cigno della cosmonautica sovietica: i conti economici di Mosca erano già nel 1988 al collasso, e il peggioramento della situazione dovuta al fallimento delle riforme gorbacioviane portò nel 1990 ad una sospensione del programma, in attesa di tempi migliori che avrebbero anche consentito di completare la costruzione di altre due navette, il “Ptichka” e il “Baikal”.
Un anno dopo l’Urss cessava di esistere, e nella nuova e indebitatissima Russia di Boris Eltsin non ci fu più posto per il Programma Buran, che nel 1993 venne definitivamente annullato: al suo posto, Mosca preferì ripiegare sulle vecchie ma economiche navicelle Sojuz.
Oggi una delle navette è esposta a Mosca nel Parco Gorky sulle rive della Moscova, mentre quella che compì l’unico volo spaziale è rimasta danneggiata nel 2002 dal crollo dell’hangar in cui si trovava. Di quel sogno interrotto però qualcosa è rimasto: i vettori Energia, la cui forza propulsiva ancora oggi consente di inviare i rifornimenti alla Stazione Spaziale Internazionale ISS.