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Teheran, 17 maggio 2014
Taravat Jalali Farahadi è una nostra quasi-coetanea di Teheran. Di mestiere fa i disegni per i libri illustrati per i bambini. Ce ne porterà un nutrito e bellissimo campione alla fine del nostro viaggio, quando la re-incontreremo in un pazzesco pomeriggio nella capitale iraniana.
Ma oggi, il primo giorno della nostra permanenza qui, è una ragazza sorridente che ci abborda sulla metropolitana mentre guardiamo spaesati una piantina delle 4 linee urbane scritta in persiano.Indossa uno chador nero che non nasconde del tutto una ciocca di capelli scuri. Le cade sulla fronte, con finta non curanza. "I hate this!" lamenta sottovoce reggendosi l'odiato copricapo che, racconta, si mette solo per non venire arrestata dalla polizia.
Ai piedi ha un paio di Clark color cammello che corrono su e giù dalle scale della metropolitana di questa delirante città.
Teheran non è inquinata, è l'inquinamento: il cielo è grigio di una nebbia impenetrabile dietro la quale, pur così vicine, le montagne sono appena intuite. La gola brucia, la pelle prude e gli occhi piangono mentre si percorrono i marciapiedi del centro.
Teheran non è trafficata, è il traffico: attraversare la strada è una autentica avventura, sfidando motociclette roboanti che talora sfrecciano anche sui marciapiedi, incuranti dei pedoni. I taxi gialli sono ovunque, ammaccati da ogni lato, e il clacson, più che segno di allarme, è un pallido sottofondo.
Teheran non è una città commerciale, è il commercio. Nei vicoli intricati del bazar ci sono più di 4000 botteghe di tappeti e si può trovare qualunque cosa, da perizomi fosforescenti che imbarazzano le donne nascoste sotto il velo a samovar argentati con cui servire the alla frutta. Il via vai di carretti caricati all'inverosimile di merci, che si fanno largo tra la folla, scandisce il passare delle ore in questo luogo senza tempo.
Taravat sembra avere l'hobby di aiutare turisti occidentali. Ci prende per mano, ci compra il biglietto e ci imbarca, sotto lo sguardo attonito dei presenti, sul pullman che ci condurrà a Kashan. Siamo come ciechi con il bastone, guidati nel buio, come in quella bella scena de "il fantastico mondo di Amelie". Il tutto non dura più di un'assurda, surreale mezz'ora, durante la quale sembra di essere protagonisti di un musical.
C'è il tempo di raccontare che ha iniziato a studiare inglese perché spera di poter andare in Australia, che vivere qui "it's a war everyday", che è religiosa e che non ha un ragazzo, in Iran è proibito. Un cocktail di ansia e tenerezza, servito freddo quando ci sono 30 gradi all'ombra.
Rimane uno scambio di sguardi, un braccialetto con le perline "to remeber", una foto rubata da mandare a un indirizzo mail e l'imbarazzo di questa gentilezza gratuita e totale, che emoziona e stupisce.
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