Magazine Cinema
(ONE NIGHT STAND)
M Figgis
Una continua sottrazione: Mike Figgis riempie lo schermo di immagini e di suoni e poi, di colpo, si sottrae a quella sarabanda, rifugiandosi nello dimensione privata di un emozione appena nata. Karen e Max si incontrano per caso a New York, e da quel momento il film non sarà più lo stesso perché l’alchimia amorosa suscitata da quella coincidenza, lungi dall’esaurirsi nell’arco temporale indicato dal titolo originale (One night stand), diventa l’elemento disturbante che impedisce di soddisfare le premesse di un cinema interessato al contorno delle cose.
La frenesia di una città insonne e produttiva, abituata a consumare la vita seguendo i parametri del successo a tutti i costi rimane la colonna sonora ed il marchio di fabbrica della storia, attraverso l’esattezza di una messa in scena che non si fa mancare niente in termini di bellezza estetica e visuale: la costruzione asettica degli ambienti, la cura maniacale dei dettagli, i vestiti alla moda così come la levigatezza delle figure che li indossano sono l’avamposto di una civiltà vittoriana che il regista non combatte ma si compiace di sparigliare attraverso le contraddizioni da essa stessa generate: non solo l’attrazione fatale dei due protagonisti che sfonda il muro di un istituzione familiare ancorata ai principi di una felicità costruita sulle buone maniere e sul decoro, ma anche la sofferenza conclamata sulle schermo dalla vicenda di Charlie (Robert Downey Jr), l’amico sieropositivo, ancorato in un sudario che sembra quasi un monito a così tanta vanagloria.
Una realtà esibita in maniera rumorosa ed anche invadente, al quale si oppone il pudore di un uomo e di una donna costretti a fare i conti con un amore vissuto all’ombra dei rispettivi matrimoni e che il film trasforma in una assolo capace di spezzare la patinata monotonia del motivo dominante.
Un romanticismo d’altri tempi che Figgis con la consueta eleganza isola dal resto del contesto attraverso una distorsione temporale fatta di immagini rallentate, assenza di sonoro, ed uso continuo di ellissi. Tranche di un innamoramento rarefatto ed insieme potente modulato sulle facce di due interpreti al limite del vero: abituati a recitare assecondando la naturalità dei rispettivi carismi, Snipes e Kinsky riescono a sottrarsi all’evidente fisicità regalandoci momenti di emotività giocata sui non detti e sulla struggente suggestione dello sguardo. E se il primo, dopo un assenza forzata è ancora presente sullo schermo seppure con presenze diradate e di secondo fascia, così non si può dire per la Kinsky, che qui ci regala forse l’ultimo gioiello di una sensualità di cui ancora oggi siamo orfani.
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