Comprendere l’eterosessualità con lo splendore e la miseria dei pioneri

Creato il 10 dicembre 2010 da Pupidizuccaro

Cos’è l’eterosessualità se non una forma culturale dominante? E, se è cultura e non è natura, perché non studiarla dal punto di vista storico? Questa l’idea di fondo de “L’invenzione della cultura eterosessuale”, pubblicato in Italia da :duepunti edizioni. L’autore, Louis-Georges Tin, sociologo della letteratura, già promotore della Giornata internazionale per la lotta contro l’Omofobia, compie una movenza tipica delle scienze sociali. Individuando un elemento come culturale, ne ricostruisce il percorso storico. Per uno studioso, si potrebbe dire, questa è ordinaria amministrazione. E invece no. L’idea di Tin è rivoluzionaria. Questo libro è il primo che studia l’eterosessualità problematizzandola e storicizzandola. È un’opera prima, uno studio pioneristico.

Macroscopici meccanismi storici e culturali che influenzano – se non determinano – la nostra sfera più intima, i comportamenti che ci sembrano più istintivi, più naturali. Trascendendo individui, liberi arbitri e scelte personali. Contro ogni apparenza. Già, oggi l’eterosessualità è vista come uno stato di natura. Un uomo ama una donna perchè questo è l’unico modo per garantire il perpetuarsi della specie umana. Motivi biologici, quindi. La riproduzione è la garanzia della “naturalità” di certi comportamenti sociali. Ma, avverte Tin: “Se la riproduzione eterosessuata è la base biologica delle società umane, la cultura eterosessuale non è altro che una delle costruzioni possibili, e in questo senso non può essere considerata come modello unico e universale”. Ecco, una delle costruzioni possibili. Infatti, anche nella stessa civiltà occidentale, il modello eterosessuale non è stato sempre quello dominante. Tutt’altro.

L’invenzione dell’eterosessualità

Ci si concentra così sull’epoca medievale, intorno al XII secolo, quando si registra un faticoso “cambio di paradigma” tra due costruzioni culturali alternative. All’amore cavalleresco subentra l’amor cortese.

Medioevo. Epoca feudale. L’amore verso le donne, l’innamoramento come lo intendiamo noi, non esiste. Anzi, è considerato un pericolo per la virilità degli uomini, dei cavalieri. Non che non ci siano rapporti sessuali tra uomini e donne, non che non ci si riproduca, ma l’eccessivo “trasporto” verso l’altro sesso è considerato negativamente. Il rapporto sociale amoroso per eccellenza è quello tra uomini. Tin la chiama omosocialità maschile. Qualcosa che va oltre l’amicizia, il cameratismo. Qualcosa di molto diverso, inoltre, dall’omosessualità come la intendiamo oggi. Lo studioso riporta numerosi esempi presi dalla letteratura cavalleresca. Uomini che mostrano nei confronti di altri uomini tutti i segni dell’innamoramento “moderno”. “Questi amori maschili – scrive lo studioso – sono legati al carattere globale in senso proprio, ovvero organico, della società medievale…Nella società medievale, che è globale, organica o olistica, l’amicizia è spesso una relazione privata e pubblica allo stesso tempo che gode di un riconoscimento sociale, culturale o addirittura ufficiale…il culto dell’amicizia è un regolatore sociale che permette di rinsaldare il legame tra soldati, e suscitare uno spirito di corpo creando una sorta di cemento sociale”.

A questo paradigma “feudale” subentra l’amor cortese, ovvero l’esaltazione della calamita amorosa uomo-donna. La sottomissione simbolica dell’uomo ad una domina, ad una signora. Lo studioso, per tutto il libro, illustra tutte le resistenze contro cui la nuova idea ha dovuto lottare. Resistenze degli uomini d’armi e resistenze degli uomini di chiesa. Per il mondo cavalleresco l’amor cortese è soprattutto una minaccia alla virilità degli uomini. Rischia di renderli effeminati. Per la chiesa l’amor cortese è un pericolo perchè troppo carnale, troppo sensuale, troppo poco spirituale. Ma la Chiesa, rispetto alla nobiltà, si dimostra più avveduta. E non è un caso che la nobiltà soccombe e la Chiesa sopravvive. Dopo il primo periodo di opposizione dura, agli inizi del XIII secolo, il clero ripiega per una serie di compromessi. Istituzionalizza il matrimonio, riconosciuto come sacramento durante il Concilio Laterano IV del 1215, e promuove la diffusione del culto della Vergine Maria, paradossale e astutissima sintesi tra l’amor cortese e l’amor divino.

Ma le resistenze alla forma culturale dell’amor cortese non finiscono certo nel XIII secolo. È in ambito medico in cui si riscontrano le principali opposizioni. Documenti alla mano, lo studioso dimostra come – per la medicina – l’innamoramento è stato per lungo tempo una malattia. Prima chiamata mal d’amore, poi diventata erotomania. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, nacque poi la definizione di eterosessualità. Che secondo i dizionari dell’epoca era nientemeno che un “appetito sessuale anormale o pervertito per l’altro sesso”. Piano piano però la conversione culturale si affermò, finchè l’eterosessualità venne accettata stabilmente non più come devianza patologica ma come norma sociale. Dunque, come scrive Tin,  “la malattia era diventata la norma”.

Una volta fissata la norma c’è bisogno della caccia all’anormale, individuato facilmente nell’omosessuale. Studiata per tutto il novecento, dopo innumerevoli e vane ricerche per trovare i rimedi per “curarla”, l’omosessualità è stata esclusa dall’elenco delle malattie soltanto il 17 maggio del 1990, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità si pronunciò a proposito.

Sguardo avanti. Cosa c’è oltre l’eterosessualità?

E adesso? La ricostruzione storica getta una luce nuova sul presente. “L’istruzione pubblica, ma anche le associazioni educative popolari, le associazioni sportive, le colonie estive, i manuali ad uso dei genitori, le riviste femminili, le riviste di psicologia rivolte al grande pubblico e quelle di divulgazione scientifica o pedagogica, la letteratura per ragazzi ecc: tutti questi mezzi furono (e sono tuttora) vettori di diffusione della cultura eterosessuale”.

Una cultura dominante che diventa eterosessismo e  produce effetti negativi sia per gli omosessuali – è chiaro – ma anche per gli eterosessuali.“I giovani eterosessuali che a 17 anni  non hanno ancora “la ragazza”, le giovani che a 25 anni non hanno ancora trovato marito, le donne divorziate o vedove, sono tutte  figure che soffrono allo stesso modo per il fatto di non essere conformi alla norma eterosessuale. Per non dire di quegli eterosessuali che vivono in coppia e accettano di continuare a farlo a dispetto dei loro desideri profondi, conformando, addirittura sacrificando la loro volontà personale alla volontà collettiva, cioè alla norma”.

E il futuro? Louis-Georges Tin arriva infine a prospettare un ipotetico ulteriore “cambio di paradigma”, grazie alle mutazioni che potrebbe subire il legame tra sessualità e riproduzione. Le nuove scoperte della scienza, infatti, rendono sempre più possibile il sesso senza riproduzione e la riproduzione senza sesso. Parliamo ovviamente di anticoncezionali, di aborto, di inseminazione artificiale, fecondazione in vitro, bambini-provetta e – chissà in futuro – gravidanze extra-uterine e clonazione riproduttiva. “Ne conseguirebbe allora il trionfo dell’autonomia della coppia eterosessule? – si chiede lo studioso – O, al contrario, la cultura eterosessuale perderebbe la sua legittimità storica? Sarebbe allora condannata a scomparire? Certo che no. Ma non avrebbe più la forza dell’evidenza che poteva avere un tempo. Le coppie eterosessuali continuerebbero certamente a esistere, ma non al fine della riproduzione. Perchè per questo vi sarebbero tecniche specifiche. Queste coppie si incontrerebbero e si formeranno come le coppie omosessuale: per il puro piacere”.

“Lo splendore e la miseria dei pioneri”

“L’invenzione della cultura eterosessuale” è un libro importante e soprattutto onesto. L’intento politico è palese. Desacralizzare la cultura eterosessuale, raccontandola appunto come cultura, storicizzandola e relativizzandola. Ma non c’è nessun livore “di parte”, nessuna esagerazione ipocrita, nessun ottuso slogan. Anzi, la scrittura di Louis-Georges Tin spicca per linearità e serenità intellettuale. Il suo discorso è portata avanti all’insegna del rigore metodologico più controllato. Certo, non mancano le pecche. Alcuni passaggi non sono ben esplicati e il discorso è un po’ troppo incentrato sulla Francia e sulla letteratura. È lo stesso studioso ad ammetterlo, parlando di questo libro come di una “bozza”, un primo capitolo di un lavoro molto più ampio. Qualcosa che comprende in sé “lo splendore e la miseria dei pioneri”.  (Nino Fricano)


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