Un’autobiografia camuffata nella quale non è difficile intravvedere la stessa autrice, figlia della scrittrice Irène Némirovski morta ad Auschwitz.
di Gaetano Vallini
Un libro intenso e commovente sull’impossibilità di dimenticare, sull’indelebile dolore di chi sopravvive e sulla difficoltà di ritrovare la propria identità dopo essere stati privati di tutto. Con Un paesaggio di ceneri Élisabeth Gille colma in maniera definitiva la distanza tra il suo mondo di orfana a causa della follia nazista e quello della madre che aveva appena avuto il tempo di sfiorare; una madre dal nome impegnativo: Irène Némirovski, autrice di quel capolavoro che è Suite francese, uno dei libri più belli sulla guerra, incredibilmente salvato e sottratto all’oblio per essere pubblicato nel 2004, sessant’anni dopo la morte dell’autrice ad Auschwitz. Perché del romanzo materno, Un paesaggio di ceneri, in libreria dal 2 aprile (Venezia, Marsilio, 2014, pagine 171, euro 16), pur con una scrittura meno raffinata ed elegante ma non meno efficace e incisiva nella sua sobrietà, potrebbe essere considerato una sorta di seguito ideale, nonostante sia stato pubblicato otto anni prima. Più correttamente si dovrebbe parlare di un’autobiografia camuffata, in cui non è difficile intravvedere nel personaggio della piccola protagonista, Léa, la stessa autrice, con il suo dramma interiore. Proprio per questo non è semplice scegliere da dove cominciare per parlarne, se dalla vita di Élisabeth o da quella di Léa, una bambina ebrea che come lei «non sapeva niente di se stessa, niente delle proprie origini e della propria identità. Non era che terra bruciata, un paesaggio di ceneri». E del resto dopo la deportazione senza ritorno della madre Irène e del padre Michel Epstein, anche Élisabeth Gille e la sorella Denise trovarono prima asilo in un pensionato cattolico e poi ospitalità presso amici di famiglia.Non a caso, dunque, la vicenda inizia in un collegio religioso della regione di Bordeaux, nella Francia occupata dai nazisti. Qui — siamo nel 1942 — viene condotta Léa Lévy, cinque anni, separata dai genitori, ebrei russi finiti nell’inesorabile spirale della Shoah, con la speranza che possa sfuggire alla deportazione. Testarda di carattere e ribelle d’indole, la bambina dà filo da torcere alle suore che la proteggono, seminando scompiglio tra le compagne per le quali non prova, ricambiata, alcuna simpatia.Solo con una, Bénédicte, di due anni più grande, riesce a costruire un rapporto profondo di amicizia; un legame fortissimo ed esclusivo che l’aiuta a evadere in un universo infantile, distante dalla violenza degli adulti e dall’incertezza del presente, nel quale sentirsi protetta.A unire le due bambine c’è l’angoscia di non sapere nulla dei genitori scomparsi. E se alla liberazione dai nazisti una riuscirà finalmente a riabbracciare la mamma e il papà, l’altra — pure generosamente accolta in casa dell’amica come una figlia — resterà nel tunnel dell’incertezza. Fino a quando scoprirà la tragica realtà dei campi di sterminio e la sorte toccata ai suoi cari. Una scoperta sconvolgente che la segnerà indelebilmente e la porterà ostinatamente, al limite dell’ossessione, alla ricerca della verità sul destino dei genitori. Bénédicte si impegnerà perché anche a Léa venga restituito un futuro. Insieme vivranno un’adolescenza impegnata in una Francia in ricostruzione ma non ancora del tutto pacificata. Ma è difficile rinascere dalle proprie ceneri quando tutte le certezze sono andate in frantumi e l’abisso è sempre lì, a un passo da te, pronto a inghiottirti.Fin qui il racconto. Ma nella drammatica e struggente storia della piccola Léa si riflettono, trasposte nel contesto letterario, le vicende personali e famigliari dell’autrice. Nella realtà, mentre la sorella maggiore Denise si dedica fin da subito a preservare la memoria della Shoah e della madre, autrice di un certo successo anche prima di Suite francese, dopo la guerra Élisabeth costruisce tra sé e il mondo un solido muro. «Il prezzo del mio equilibrio — dice in un’intervista del 1992 — era la rimozione», anche se di fatto segue in qualche modo le orme del genitore impegnandosi nell’editoria. Traduttrice di libri di fantascienza prima, scopritrice di talenti come direttore editoriale poi, a cinquantacinque anni, già malata di cancro, decide di confrontarsi direttamente con la madre. L’esordio avviene nel 1992 con Mirador, biografia in prima persona di Irène Némirovski tra realtà, memorie solo immaginate e dolorosi ricordi tratti dalle conversazioni con la sorella. Ma è nel 1996 con Un paesaggio di ceneri che quel muro si sbriciola, che la rimozione viene spazzata via attraverso una scrittura catartica, svelando il dramma interiore di una bambina segnata da una storia troppo più grande di lei, incomprensibile nella sua indicibilità.Quando venne pubblicato in Francia, il romanzo fu accolto come un evento. Ora, con un po’ di ritardo ma con il vantaggio di aver potuto prima leggere e amare Suite francese, suo indiretto prologo, anche in Italia si potranno apprezzare le qualità di questo libro (nella traduzione di Cinzia Bigliosi, cui si deve anche una interessante postfazione). Un’opera che si porta dietro tutte le ferite di un’esistenza monca, deprivata. Nella quale si coglie tuttavia l’ansia di volersi affrancare da un doloroso passato senza doverlo più dimenticare. Per riappacificarsi almeno in parte con esso.Élisabeth Gille morirà nel settembre del 1996, pochi mesi dopo l’uscita del romanzo, forse avendo ritrovato proprio grazie a Léa un po’ più di se stessa.(©L'Osservatore Romano – 27 marzo 2014)