Magazine Cultura
Però non volevo scrivere di questo. Stavo pensando a un'altra cosa. Un pensiero che da tanto che vuole essere raccontato. Questo weekend mi è capitato di viaggiare in treno da sola e, essendo troppo stanca per fare qualcosa di più impegnativo, tipo leggere, ho semplicemente ascoltato musica sul mio iPod per due ore e lasciavo fluire i miei pensieri liberi. E pensavo anche al mio rapporto con la musica. Tante note che accompagnano la mia vita. Ogni periodo ha la sua colonna sonora. Ammiro la capacità della musica di richiamare emozioni, di portare alla superficie vecchi sentimenti sepolti nell'inconscio, di ricreare un'atmosfera ormai dimenticata (ne avevo già scritto una volta sull'altro blog). Per me è vero in modo particolare. E' incredibile quanto una canzone riesca a portarmi indietro nel tempo. Ed è incredibile quante volte mi abbia aiutato in momenti difficili. Fa parte di un mio rito di meditazione. E funziona un po' come una medicina omeopatica. La malinconia la combatto con le canzoni tristi. (E qui potrei anche citare un pensiero dello scrittore ungherese Sándor Márai, già tradotto sull'altro blog).
Words are flowing out like endless rain into a paper cup, They slitter wildly as they slip away across the universe. Pools of sorrow, waves of joy are drifting through my open mind, Possessing and caressing me. (...) Nothing's gonna change my world, nothing's gonna change my world....
Il punto è che mentre l'inverno scorso ho cercato di illuminare il buio scandinavo con delle opere d'arte, con delle pitture in particolare, questa volta lo vorrei fare con la musica. Per me la musica è la prima tra le arti, quella che amo di più se dovessi scegliere. E forse avete già capito che la musica che mi affascina e mi trascina di più è il rock, sia quello classico che quello psichedelico degli anni Sessanta-Settanta. Sarà che sono figlia della generazione hippy (mio padre durante gli anni dell'università faceva il dj alla radio della casa dello studente dove abitava a Budapest, dove mia madre invece faceva da presentatrice, tra il 1970 e il 1975, proprio negli anni d'oro del rock), e a casa nostra c'era sempre la musica che così ha fatto parte della mia vita dal primo momento.
Siccome mi piace anche far conoscere il mio paese a chi è interessato, questo inverno, invece di opere d'arte degli Uffizi, in appendice ci saranno canzoni ungheresi con il relativo testo da me tradotto in italiano (pure tradurre mi piace, e saltuariamente lo faccio anche come lavoro). Quindi ognitanto, tempo permettendo, troverete una canzone ungherese in appendice.
Per cominciare vi riporto il testo di una canzone ungherese che nella mia vita ha una certa attualità e che di certo associerò sempre a un momento particolare. E' una canzone il cui testo fu recitato dall'officiante al nostro matrimonio (non su richiesta nostra, ma come parte del suo discorso). Io prima non la conoscevo neanche (figuratevi Gabriele...). E' il testo di una canzone del 1972 di Zsuzsa Koncz, la nostra Mina, diciamo.
Koncz Zsuzsa - Itt a két kezem
Ecco le mie mani
Il sole dà luce alla stella,
La terra dà fiore al prato,
Il fiore dà miele alle api,
Ma cosa posso dare io a te?
La sorgente dà l'acqua al fiume,
La madre dà vita al figlio,
Il cielo dà stella alla notte,
Ma cosa posso dare io a te?
Sto pensando a cosa posso dare a te,
a cosa ti piacerebbe,
qualcosa che potresti tenere sempre con te?
Eccole, ti dò le mie mani,
lo sai bene che te le dò
perché è tutto quello che ho.
(Un grazie speciale alla mia amica Veronika che ha fatto da interprete al nostro matrimonio e che in quell'occasione ci ha letto la propria traduzione.)
Per il testo in lingua originale vedete qui.
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