“Io sono sempre grande”, dice Norma Desmond, ex diva del muto, in “Viale del tramonto” di Wilder, “è il cinema che è diventato piccolo”. Ed era il 1950! Senza voler cadere nel conservatorismo moralistico che è diventato il cavallo di battaglia degli ignoranti (quando leggi certe “recensioni” sul web ti cascano i denti), credo sia innegabile che il cinema di oggi è più piccolo di quello, diciamo, di soli trent'anni fa. Ce lo ricordano in particolare i remake – come “Conan the Barbarian” di Marcus Nispel.
Ora, quest'esordio sembrerebbe preludere a una stroncatura in piena regola. Invece no: “Conan the Barbarian” si lascia vedere. La prima parte non è priva di vigore (mentre la seconda è l'usual fare del fantasy avventuroso). Però senza dubbio non c'è ombra della grandezza del capolavoro di John Milius del 1982, né della sua sterminata fantasia cinematografica. Che non era vero citazionismo (Milius detestava il milieu degli studenti di cinema), bensì un incrocio di amore, gusto della forza intrinseca dell'immagine e tecnica artigianale di appropriazione: se Ejzenštejn ha reso un attacco di cavalieri in modo superlativo, perché non riadoperarlo?
Ecco, i cavalieri all'attacco vengono giusto in taglio: nella scena analoga del nuovo “Conan” manca del tutto l'aspetto ejzenštejniano; c'è solo il facile gusto della moltiplicazione in CGI. Il film ha comunque una discreta spettacolarità d'inquadratura, un certo ritmo, e se non altro non è edulcorato. E' molto apprezzabile la sua franca crudeltà. Se un nemico al galoppo viene sbalzato contro un masso, ci lascia una macchia di sangue grande quanto la sua schiena. Conan ragazzino finisce i selvaggi feriti e porta le loro teste al villaggio come trofeo. Adulto, quando interroga l'uomo al quale molti anni prima ha tagliato il naso, non si perita di ficcargli le dita dentro la mutilazione (Conan evidentemente non è schizzinoso) per incoraggiarlo a parlare. Il suo imbroglio, poi, circa la promessa al senzanaso di risparmiargli la vita denota un certo barbarico sense of humour – al pari del “Buon viaggio!” rivolto a un altro cialtrone prima di farlo volare con una catapulta.
Mentre la caratterizzazione dei nemici è solo funzionale, la strega interpretata con gusto da Rose McGowan è una discreta figura. Alquanto deludente è lo scontro finale: il film ha bruciato le migliori cartucce prima, e l'idea della grande ruota che si rivolge su se stessa è meno efficace di quanto potesse parere sulla carta. Il peggior difetto del film è il montaggio incapace di Ken Blackwell, che già aveva fatto quel che poteva per rovinare “I mercenari”. Qui, peggio ancora, l'azione è spesso confusa (vedi per esempio il combattimento contro i tentacoli che escono dall'acqua) senza neppure attingere minimamente quell'effetto da videoclip che vorrebbe.
Jason Momoa è un ex modello hawaiano, apparso anche in “Baywatch”. Mentre Arnold Schwarzenegger, ben guidato da Milius, aveva trasformato la sua fissità in solennità eroica, Momoa prova a recitare. Certo, non esce dalla categoria del belloccio palestrato, ma bisogna ammettere che avrebbe potuto anche esser peggio (ombra di Kirk Morris!). Se il protagonista non è certo il Conan di Milius, tanto meno è quello di Robert E. Howard; ne permane qualche traccia qua e là. Dibattito con la ragazza se nelle azioni umane vi sia uno scopo deciso dagli dei o solo caos: “Non lo so e non me ne importa. Io vivo, amo, uccido – e sono contento”; e questo è howardiano. Anche il machismo di Conan (“Sta zitta e fa quello che ti dico”) è riposante, nell'era del politically correct. “Nessuno deve vivere in catene!”, intona Conan prima di attaccare i mercanti di schiavi – e libera una banda di bellezze a seno nudo che poi giustamente si porta dietro. Vedete: la virtù trova in se stessa la propria ricompensa.
Insomma, “Conan the Barbarian” non è il peggior film della stagione. Se poi uno riuscisse a dimenticare Milius... no, no, cancella. Il cinema è diventato più piccolo.
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