Ieri, per evitare lungaggini e lentezze in apertura, ho provato a costruirmi un piccolo browser con l’acceso diretto ai siti che frequento di più e con un logout automatico, visto che mi scordo sempre di farlo. Un giochino ( è davvero molto semplice in realtà) per far passare il caldo del pomeriggio che mi è perfettamente riuscito nonostante il fatto che non avessi mai visto un terminale prima dell’83 e un personal computer prima del ’90. Insomma sono un tardivo digitale salvato grazie alla curiosità dallo snobismo salottiero per cui era intelligente tenersi alla larga dai computer e far sapere di non capirne una minchia, salvo poi discettare sull’alfa e l’omega dell’universo digitale dopo l’esplosione del fenomeno internet, quando la moda del sociologismo più trito era quella di premettere che non si frequentava la rete, ma di poterne e doverne parlare in virtù delle proprie rendite di posizione.
Per anni si è parlato di analfabetismo digitale, quando esso è facilmente superabile, mentre si affermava invece un’analfabetismo della realtà che ha finito per uccidere ogni visione del mondo e reso invece possibile ogni più futile argomentazione. Che ha portato in coma lo spirito critico, sostituendolo con la tifoseria da curva. Che in sostanza ha reso tutto televisione e comunicazione che parlano di un mondo da loro stessi costruito nel quale ci aggiriamo smarriti. Ciò che salta agli occhi nelle miriadi di talk show o di articoli non è tanto la sovrabbondanza di opinioni senza fondamento, di asserzioni apodittiche e improbabili allo stesso tempo, nemmeno la totale ed evidente incompetenza della solita compagnia di giro cui non viene mai chiesta ragione delle affermazioni pronunciate, nemmeno l’evasività e lo sfacciato pappagallismo bulgaro, ma il fatto che si tratta di un reality che ha qualche punto di contatto superficiale con la nostra esperienza, ma ne è distantissimo come una recita a soggetto. Come in certe soap nostrane i personaggi fingono il Natale quando è Natale e le vacanze quando è estate, ma per il resto vivono di una propria surreale narrazione.
Così mentre per vent’anni si è seppellito il ragionamento sotto il peso semantico – emotivo degli slogan, adesso le nuove ragioni vengono addirittura costruite sugli slogan arrivando alla barbarie di dire che bisogna sfasciare la Costituzione per avere la grande soddisfazione di sapere chi ha vinto il giorno dopo le elezioni. Una delle peggiori cazzate del berlusconismo è divenuto il leit motiv del guappo di Firenze e dei suoi innumerevoli tiracoda che non sanno o fingono di non sapere che per quarant’anni abbiamo saputo il giorno dopo che aveva vinto la Dc e questo in un sistema proporzionale quasi puro. O che la salvezza del Paese deriva dallo zero virgola qualcosa in più o in meno del deficit o che l’attività legislativa è frenata dal Senato quando poi si sostiene che uno dei guai del Paese è anzi la sovrabbondanza di leggi e normative. Antinomie e sciocchezze delle quali non ci accorgiamo perché prima ancora di essere delle balle, sono elementi costitutivi del paesaggio, visto le opinioni stesse si fondano su questo nulla.
La stessa cosa avviene per l’Europa e per l’euro: quanti si accorgono che l’agonia della moneta unica viene artatamente prolungata per favorire l’inevitabile fuoriuscita dal sistema secondo modalità di destra, sia in senso istituzionale che economico oltre che per salvaguardare gli interessi delle banche e del sistema finanziario? Non è facile districarsi e del resto ricordo di essere stato io stesso un fan dell’euro negli anni ’90. Mi pareva una buona idea e di certo non mi ero andato a leggere il trattato di Maastricht, pensavo che la banca centrale europea avrebbe potuto agire come un qualunque istituto di ultima istanza, sia pure con qualche limitazione e che la moneta forte avrebbe potuto innescare un processo virtuoso di crescita per il sistema industriale italiano che sarebbe stato costretto a cercare competitività nell’innovazione e nella qualità. Solo dopo il primo anno di entrata in vigore della moneta unica, di fronte alle sfacciate bugie dell’Istat riguardo all’inflazione, ho scoperto l’orrenda verità: è cioè che Maastricht in pratica era una trappola mortale che toglieva ogni autonomia di spesa al Paese e dunque anche ogni progettualità politica, che eravamo in sostanza nelle mani di una banca. Ero stato in effetti un analfabeta della realtà, una vittima e un carnefice al tempo stesso della comunicazione che comunica solo se stessa.