Enrico Fracassi è nato a Roma nel 1902 e morto suicida a Marano dei Marsi nel 1924. Le sue poesie furono fatte conoscere da Enrico Falqui che le pubblicò in parte in rivista e, nel 1948, in un libro edito da Scheiwiller. Ammirate da Ungaretti, antologizzate negli anni Cinquanta da Anceschi e Spagnoletti, le poesie di Fracassi sono state già pubblicate nella Collana Tarsie delle Edizioni Il Labirinto.
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VII
Settembre e la sera declinano: dalle giunture
le membra mi s’allontanano; resti tu sola.
Cadavere sopra cadavere; la Terra è morta
sulla spoglia dell’estate riversa.
Il mandorlo, con i suoi rami
carichi, assiste.
Io penso che questo sia
il paese di là dalla terra favoleggiato
eguale, immutabile, fermo,
d’un colore calmo,
d’un profilo nitido.
Le vene più non mi battono; il sangue dal cuore
più non fluisce; le zolle sono aderenti
alle mie ossa; disteso lungo i solchi
seguo le gemine onde, la passione e l’oblio,
configurarsi e confuse scorrere dalla luce,
ristagnare in un bacino opaco.
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Il veleno più sottile è questa bellezza diffusa.
Come uno scolaro in vacanza, aspiri voluttuosamente, gridi di piacere,
ti getti supino sull’erba, faccia a faccia contro il cielo.
Quanto più limpida è l’aria, tanto più s’aduggia il mio spirito.
È la Natura un quadro senza figure, che noi non sapremmo animare.
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Il Sogno col suo lento respiro, il corpo
di fiamma allungato sulle mie
gambe, sul petto, caldo peso leggero
m’immobilizza: docile subisco
il suo dominio, sono il suo dolce
complice il suo compare il mite animale
che aspetta – sono la cuccia del Sogno,
che alla fine si muove a lenti colpi
di coda annuncia il ritorno alla vita:
mobile rossa nuvola riprende
forma di gatto annuvolato e
annoiato che si stende e tenero prova
sulla mia carne l’artiglio affilato.
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Una reliquia del cielo, stillante
celesti acque: per questo lo abbiamo
sollevato da terra, troncato ramo
ai piedi della quercia, dopo il rapido
uragano, uscendo dalle calde stanze:
folto di foglie fradice e domani
inaridite o marcite, ora sul tavolo
il nocchiuto tralcio luccica tra altri
fatui splendori recisi da mani
umane: anemoni, viole, narcisi,
nasturzi: tagli di terra e cielo qui
riuniti per decorarci e dire – che cosa?
Una quercia ha perduto un ramo; un ragno
l’ombra, il riparo, cui non sa ancora
rinunciare e corre come impazzito ancora
ricorre a quella maceria che non ha
più vita propria – ma non è solo materia
che marcirà: lustro trofeo e contorta
corona ai caduti e a se stesso: docile
modello per questa natura morta.
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Poesia, mia paziente giardiniera,
taglia sfoltisci metti ordine
nel groviglio dei pensieri, in questo
gran disordine dove ogni pensiero
si ripete si perde come in un assedio
di erbe che si fanno presto sterpi
tra loro soffocandosi serpentine
e solo il dispetto, tra serpi e spine,
velenoso verdeggia; anche nei sogni
le ortiche invadono la casa, i ragni
fanno il nido nel mio letto: e tu, presto,
riprendi tutto – ragni erbe serpi,
sotto la tua paziente tutela,
mia poesia, perfetta giardiniera.