Società e opinione pubblica
Uno degli sviluppi concettuali più importanti che si devono a Clausewitz è ciò che conosciamo come la Trinità. Secondo il pensatore prussiano, la natura della guerra, nella sua accezione completa, risiede nella trilogia formata dal popolo, che ne è la parte passionale, la libera attività delle Forze Armate, che ne sono la parte volitiva, e il campo razionale, che è riservato ai governi. Vale la pena sottolineare che, laddove la comunità internazionale può rendere legale un intervento armato attraverso il Consiglio di Sicurezza (un organo politico e non giuridico), in ultima analisi è l’opinione pubblica a dotare tale intervento di legittimità, ovvero della radice stessa della legalità. La posizione di molti paesi europei durante la seconda guerra in Iraq o durante il conflitto in Vietnam sono un buon esempio su scala globale.
La guerra, in fin dei conti, è una forma di comunicazione, un dialogo che ha come canale la violenza, nel quale l’altra parte (il destinatario del sanguinoso messaggio) è, in ultima analisi, il cittadino comune.
C’è stato un tempo in cui i termini cittadino e soldato erano mutuamente intercambiabili, tradizione che la Rivoluzione Francese reintrodusse assicurando il trasferimento dei valori e delle responsabilità tra gli appartenenti all’una e all’altra categoria. Tale modello è stato in vigore fino a tempi più recenti. Così prescriveva la Legge Carnot:
“I giovani combatteranno; gli sposati costruiranno armi e trasporteranno provviste; le donne cuciranno tende e vestiti e serviranno negli ospedali; i bambini ricaveranno garze dal lino; gli anziani si faranno accompagnare nelle piazze al fine di suscitare il coraggio dei guerrieri, e predicheranno l’odio al re e l’unità della Repubblica”1.
Oggi, le relazioni tra Forze Armate e società sono motivo di inquietudine per il primo elemento dell’equazione, inquietudine che si manifesta in un costante desiderio di queste di farsi conoscere e apprezzare. Il secondo elemento, invece, anche stando ai sondaggi d’opinione, si dimostra apparentemente disinteressato nei confronti degli affari della difesa (indipendentemente dal loro contenuto) e, benché appaia contraddittorio, considera positivamente l’istituzione. Un ragionamento arabesco.
Questa inquietudine, inoltre, risulta estranea ad altri gruppi sociali, cosa che continua ad attirare l’attenzione. Tuttavia non si tratta di una questione frivola né schizoide. Ed è un fenomeno comune in Spagna come in altre parti del mondo, e che dimostra che una vera connessione tra società e Forze Armate non è ancora stata raggiunta. Questa connessione è inoltre estremamente sensibile. La società deve sentire che le Forze Armate eseguono la sua volontà come questa si manifesta attraverso i leader politici. Se così non fosse si produrrebbe uno sganciamento, e l’azione delle Forze Armate si indebolirebbe. Il problema è che, in non poche occasioni, quando ci si approccia a questioni militari, nelle premesse si possono già leggere le conclusioni.
Ciò non è colpa della società, ma anche dei suoi Eserciti, nella misura in cui questi non hanno saputo dotarsi di una cultura che li renda proattivi e non semplicemente reattivi in tal senso. Questo a causa, a volte, di una speciale idiosincrasia che fa sì che le azioni positive non siano sempre pienamente ricompensate, mentre quelle negative siano ineludibilmente punite.
Contemporaneamente, la semplificazione e la mancanza di riflessione sulle origini del problema portano, più o meno implicitamente, e in maniera persino grossolana e interessata, a ritenere che le Forze Armate non fanno ciò che vogliono ma ciò che viene loro ordinato, la qual cosa ovviamente rende i cittadini (democrazia rappresentativa) responsabili di quelle azioni. Alcuni autori, infatti, fanno notare come l’esistenza degli eserciti professionali diminuirebbe il sentimento di responsabilità del popolo che servono, il quale può quindi distanziarsi dalle loro azioni e arrivare a criticarle, senza sentirsi né coinvolto né rappresentato. Bada, ad esempio, sostiene che:
“è più facile riconoscere il valore di un soldato che è disposto a morire in difesa di una causa giusta, piuttosto che il valore di un santo disposto a morire per tutti senza uccidere nessuno… è più facile avere un Esercito di buoni soldati che un popolo di buoni cittadini… c’è perfino chi è convinto che, non molto tardi, si potrà contare su un esercito di robot programmati per difenderci senza amor patrio e per uccidere i nemici senza odio. Cosa che di certo non renderà più pacifici i patrioti né i cittadini, ma sicuramente meno responsabili e solidali. Questo processo di evoluzione è già iniziato, con gli eserciti professionali, con i soldati mercenari e gli attacchi a distanza con armi sempre più sofisticate. È processo in cui i cittadini, la società civile, si allontanano dalla muraglia, si ritirano dalla difesa e recuperano la guerra come spettacolo teletrasmesso. Nelle democrazie occidentali c’è chi crede che, se non fosse per il terrorismo che ci bracca e che porta il conflitto in strada, si potrebbe vivere in pace”2
Il parere del popolo può essere associato all’opinione pubblica (fatto discutibile per via dell’anonimità), sebbene convenga distinguere l’opinione pubblica dall’opinione pubblicata.
“L’opinione pubblica difficilmente aveva un qualsivoglia ruolo nelle guerre del XVIII secolo; i soldati professionali, reclutati nelle classi più basse della società, non sentivano la necessità di sapere perché lottavano. Nel XX secolo, il soldato e il cittadino sono divenuti intercambiabili e il pubblico, sentendosi in generale disposto alla pace, vuole conoscere i conti dei propri dirigenti”3
.
Tuttavia la relazione tra opinione pubblica, dirigenti e media è bidirezionale, poiché non si tratta solo di dare una notizia, ma anche di venderla. I media possono esprimere un’opinione diversa da quella del popolo (all’interno di tutto lo spettro di notizie), ma non completamente diversa, poiché altrimenti non soddisferebbero gli interessi commerciali. Come sostiene il generare John Galvin:
“tastano il polso al pubblico, al suo orientamento, ad esempio in Vietnam; non furono tanto i media a modificare l’opinione pubblica, quanto il pubblico a cambiare i media. Credo che i media riflettano molto bene il pensiero del pubblico, la sua pressione, i suoi cambiamenti… credo che il messaggio venga dal pubblico”4.
In altre parole, i cittadini consumano quello che essi stessi richiedono e nulla di più, cosa che comporta la polarizzazione dei temi. Il caso degli scandali sulla corruzione costituisce il più attuale degli esempi. Non è che prima non esistessero, ma la situazione economica di oggi li rende più crudi e morbosi. La situazione si prolungherà fino all’eliminazione del tema per sopraggiunta noia del lettore.
Media e verità
I media socializzano grazie a gesti, alla creazione di un clima di familiarità, a toni di voce, e promuove credenze, emozioni e adesioni totali5, in un mondo in cui gli eserciti democratici non possono vincere guerre senza appoggio popolare, senza un consenso reale. E questo si costruisce – e può essere soltanto così data la natura delle società – attraverso i media. Perciò, spetta a questi essere uno degli aspetti più significativi dei conflitti, poiché influiscono sulla coscienza emotiva di milioni di persone. E infatti possono perfino conferire la vittoria a una delle parti, poiché spesso la vittoria è – soprattutto nelle guerre limitate che sembrano essere ritornate nel XXI secolo – una questione di percezione. Così Laqueur6 fa derivare il successo nella lotta contro il terrorismo a una questione di immagine, che faccia sì che i terroristi vengano ignorati: non pubblicizzare le loro azioni, privarli del loro archetipo di combattenti per la verità. Ora, si dà il caso che l’attività terroristica è fatta a misura di mezzi di comunicazione, e genera situazioni paradossali. Il terrorismo cresce parallelo ai media, quando questi sono diventati globali, lo è diventato anche il terrorismo.
L’immagine di un conflitto, i suoi motivi, la sua gestione e il suo sviluppo sono fattori generati dai media, che risultano ancora più trascendenti della stessa realtà. Un buon esempio di ciò può essere il rilevante ruolo che la televisione serba o la radio ruandese ebbero nell’incitamento alla pulizia etnica7. Nelle parole di Michel Foucault:
“siamo sottomessi alla produzione della verità da parte del potere e possiamo esercitare il potere solo attraverso la produzione della verità”8
o, in quelle di Aron:
“gli odi astratti che devastano il nostro secolo sono opera delle masse urbane, non dei soldati al fronte. Ciò che Ely Havely denominò ‘entusiasmo organizzato’ è un capitolo della storia della mobilitazione”9.
Verità e potere sono intimamente connessi. Infatti, se da una parte è importante colui che pronuncia le parole, dall’altra è ancora più importante colui che è in grado di fissarne il significato (a livello nazionale e internazionale), poiché è questi che realmente detiene il potere. Il celebre dialogo di Bindolo Rondolo lo esemplifica magistralmente:
“- Quando io uso una parola – ribatté Bindolo Rondolo piuttosto altezzosamente – essa significa precisamente ciò che voglio che significhi… né più né meno.
- Bisognerebbe sapere, -disse Alice – se voi potete dare alle parole molti significati diversi.
- Bisognerebbe sapere, – disse Bindolo Rondolo, – chi ha da essere il padrone… ecco tutto.”10.
La trasmissione dell’informazione
Nel corso della storia, e in particolare a partire dall’invenzione della stampa, i mezzi scritti di trasmissione delle idee hanno influito sulle élite delle nazioni. Fu però a partire dal XIX secolo, con la Rivoluzione Industriale e l’aumento del tasso di scolarizzazione, che i media scritti (stampa e libri) si diffusero maggiormente, sia come tipo di commercio (con interessi specifici) sia come meccanismo di trasmissione di notizie e di idee. Infatti, divennero presto oggetto di interesse per gli imprenditori che desideravano influire a livello politico. Anche se gli interventi coloniali britannici del XIX secolo furono appoggiati dai mezzi di comunicazione sociali, fu durante la guerra ispano-nordamericana che questi ebbero un ruolo capitale per mobilitare l’opinione pubblica, diventando un fattore polemologico di prim’ordine nel favorire la legittimazione del conflitto. La frase di Hearst al suo disegnatore Remigton “Ti prego resta. Tu forniscimi le immagini e io ti fornirò la guerra”11 costituisce una pietra miliare in tal senso.
Ángel Ballestreros ricorda che i costumi della diplomazia si sono evoluti da un approccio di segretezza, risultato della “limitata comprensione dei sudditi”, il cui ultimo grande rappresentante sarà Matternich, a un’opinione pubblica attualmente innalzata alla categoria del dogma, in combinazione con delle politiche pubbliche sotto le quali si muovono, non sempre nella stessa direzione, le politiche ordinarie12. Con ciò si torna a corroborare l’opinione dell’austriaco:
“l’unica verità è la realtà, e l’unica realtà sono le apparenze”.
Tale ingresso dell’opinione pubblica nei conflitti ha avuto una notevole incidenza politica e dottrinale. “La macchina (fotografica o cinematografica) ha un campo visivo ancor più limitato di quello dell’uomo che la adopera, e la macchina usa sempre il particolare per esprimere il generale”13; la macchina diventa un elemento rilevatore della realtà, ma anche elemento selettore della stessa. Con la macchina, da una posizione di partenza, si sceglie la porzione di realtà che si vuole trasmettere e si tralascia il resto, ottenendo un risultato artificiale poiché l’immagine è un frammento di un tutto, il contesto, senza il quale non può essere compresa: la macchina, in virtù di tale capacità di creazione della realtà, diviene uno strumento della politica. Così l’immagine diviene discorso, e guerre come quella del Vietnam si trasformano in una successione di immagini di una plasticità esuberante e irrefutabile, ma non del tutto vera.
Le prime fotografie di guerra furono scattate nel decennio del 1850 durante la guerra di Crimea14. L’idea principale si basava sul fatto che, se il popolo sosteneva un conflitto con risorse umane e materiali, non doveva avere un’opinione molto differente da quella degli Stati Maggiori. I mezzi di comunicazione sarebbero stati utilizzati per sostenere proprio l’opinione di una delle parti. La guerra sarebbe stata rappresentata come una successione di vittorie. Per questo, alla vigilia della capitolazione della Prima Guerra Mondiale, non erano pochi i tedeschi convinti di essere alle porte di Parigi. In questa linea, e concordando con Clausewitz, Lord Palmerston affermava che:
“le opinioni sono più potenti degli Eserciti”. Per questo, sia Cavour che Bülow erano esperti nella creazione di incidenti con il fine di ottenere l’”esaltazione nazionale”15,
facendo entrare l’opinione pubblica a far parte del fronte bellico.
Durante la Prima Guerra Mondiale, il fronte della morale fu identificato come uno spazio necessario della lotta ogni volta che la popolazione veniva inclusa negli obbiettivi di guerra. È la guerra totale, nella quale il numero dei cittadini coincide con quello dei soldati. Infatti, il presidente Wilson16 riuscì, mediante la propaganda, ad attivare il paese per farlo partecipare alla guerra. Hitler attribuì la vittoria alleata in quella stessa guerra alla sua superiorità nel fronte propagandistico. La parola propaganda non era peggiorativa. All’inizio, uno dei Ministeri di Hitler era il Ministero della Propaganda, sotto la direzione del dottor Joseph Goebbels che faceva sempre notare la sua superiorità in questo campo, riferendosi agli alleati sottolineando che “loro avranno sempre Hollywood”. Come sosteneva Clausewitz:
“gli aspetti materiali costituiscono l’asta, ma la morale è la lama della lancia attentamente affilata”.
E la morale si fonda sulla fiducia, sulla legittimità e sulla giustizia della causa, elementi che bisogna imprescindibilmente proteggere nel proprio ambito e raggiungere in quello rivale. È imprescindibile proteggere la propria società, evitare il collasso della speranza. I primi casi risultano sempre paradossali. Fu lo stesso Hitler17 a riportare, in relazione alla propaganda durante la Prima Guerra Mondiale, come i tedeschi commisero l’errore di ridicolizzare i propri avversari, poiché affrontandoli si trovarono davanti un nemico molto più forte, sentendosi ingannati, mentre gli alleati presentarono i tedeschi come barbari e non fuorviarono i propri soldati, bensì li protessero dai rigori del conflitto. È la logica di trasformazione insita nella guerra. Un caso particolare fu l’abuso della propaganda da parte dei giapponesi a partire dalla battaglia delle Marianne (giugno 1944); la distorsione fu tale da generare un’atmosfera di irrealtà con importanti conseguenze logistiche e strategiche, poiché influì sulla valutazione della situazione da parte dei comandi subordinati che erano completamente all’oscuro della situazione reale18. Tuttavia l’autentica esplosione dei mezzi di comunicazione nella guerra si verificò in Vietnam. Esiste un prima e un dopo questa guerra. A partire da allora, i conflitti inizieranno a includere apertamente le strategie mediatiche in quelle militari19 che serviranno alla costruzione del racconto in accordo con la visione di ognuna delle parti: quello che si dice, quello che non si dice, quello che si fa e quello che non si fa, con tutte le relative sfumature.
La costruzione narrativa
Contemporaneamente si sviluppa un piano offensivo seguendo i dettami della propaganda politica, mediante la creazione di eroi e di diabolici nemici. Questa pratica riduzionista si è dimostrata storicamente molto efficacie, e si ottiene concentrando tutti gli argomenti su persone specifiche oppure ricorrendo ai miti della guerra, la qual cosa prova che il ruolo dei leader nell’insorgere dei conflitti possa essere minore di quanto non venga loro attribuito20. Al riguardo, Narciso Michavila riporta come il mito di Hilter servì a dare una nuova identità alla Germania, trasferendo in quel leader la responsabilità completa della Seconda Guerra Mondiale e delle relative atrocità, la qual cosa a sua volta permise la ricostruzione del passato del popolo tedesco e servì per discolpare quest’ultimo almeno in parte21. I mezzi di comunicazione hanno una notevole capacità di determinare l’ordine di successione degli eventi pubblici, di decidere il modo di organizzarli e di stabilire i criteri di valutazione per la classe dirigente22. Tale giudizio è proprio di un tribunale autenticamente pubblico nel quale l’accusato non ha alcuna possibilità di difesa. Si va a incidere direttamente sulle élite decidendo cosa è importante e cosa non lo è, e assegnando la priorità agli impegni in agenda.
Anche la progressiva decentralizzazione attraverso le onde di trasmissione influisce sui conflitti armati, soprattutto su quelli il cui decorso concerne uno stesso segmento della popolazione locale. Il mondo è divenuto più complesso, l’incremento dell’informazione disponibile è tale che il giornalista deve saper vagliare, non solo trasmettere, deve essere un organizzatore e non solo un interprete, qualcuno che renda i fatti accessibili23. L’importante non è l’informazione propriamente detta, ma i criteri per la sua selezione. In un simile eccesso, ciò che è rilevante può disperdersi. La fotografia che si offre al telespettatore non è completa, viene impacchettata per divenire intelligibile al pubblico generale. Tutto ciò dà vita ad un ampio gioco a cui si aggiungono la combinazione del vero e del manifestamente falso e tutte le possibili approssimazioni della realtà, per quanto marginali possano risultare. Inoltre, come si è visto, insieme ad interessi informativi, in un universo transnazionale esistono interessi imprenditoriali e interessi nazionali, che fanno sì che esistano tornaconti incrociati che possano influire a livello nazionale e internazionale e su entrambi.
A tutto ciò si aggiunga la questione della capacità e qualità di tali media. Tra la censura (ciò che non si vuole far vedere o spiegare) e la propaganda (ciò che si vuole far pensare o sentire) c’è uno spettro di possibilità24. Così, nella guerra delle Falkland, assodato che la censura per amputazione era insufficiente, venne imposto il controllo dell’informazione mediante un processo di selezione (il pool), di controllo dell’accesso all’informazione (accordo esclusivo con gli Ufficiali britannici) e ai canali di trasmissione (Esercito britannico)25. Esempio dell’influenza che i media hanno nello sviluppo dei conflitti è la dottrina militare degli Stati Uniti la quale, tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo, si evolse fino allo stabilimento di criteri chiari e restrittivi sul ruolo che le forze militari dovrebbero svolgere in un conflitto (criteri di Weinberger) e sul come farlo (dottrina Powell su “la forza decisiva dal primo momento” ), indicando mezzi tendenti a garantire l’“effetto zero”, la guerra senza perdite, in un momento in cui ci si sforzava per ridurre il numero di quelle nemiche. A partire dalla guerra in Kosovo il principio di “perdite zero” è divenuto parte integrante dei conflitti bellici26.
La proliferazione dei media tecnologici fa sì che i giornalisti siano in grado di trasmettere in tempo reale le proprie cronache dal luogo stesso in cui si svolgono i fatti, cosa impensabile fino a pochissimo tempo fa e che incide sui risultati delle azioni a livello operativo e finanche strategico. Il flusso dell’informazione è talmente veloce e dispone di tecnologie tali che l’istituzione militare non è in grado di controllarlo27. Se, come si è visto, durante la guerra delle Falkland il materiale impiegato seguiva un percorso controllabile, oggi non è più così28. È l’effetto CNN: i suoi albori coincidono con la trasmissione delle immagini dei successi di Piazza Tienanmen del 1989 e della caduta del Muro di Berlino nello stesso anno. La figura del mediatore scompare e l’informazione arriva cruda e in tempo reale. Dal punto di vista tecnico, queste sono conseguenze della portabilità dei sistemi e dello sviluppo della tecnologia satellitare, che fece sì che la televisione potesse lavorare autonomamente e in tempo reale da ovunque nel mondo29, diventando una “fabbrica della storia” e non solo: consente perfino di verificare in tempo reale il risultato delle azioni, rendendo possibile addirittura il targetting.
I notiziari distorcono la guerra mostrando obbiettivi che sfuggono alla logica militare convenzionale e obbediscono a strategie di stampa. Contemporaneamente limitano e condizionano la maniera in cui si conducono le operazioni, obbligando a stabilire margini di sicurezza e a proteggere l’informazione30. Come esempi di tale incidenza, ci sono le immagini dell’impiccagione dei due sergenti britannici in Palestina ad opera di terroristi ebrei, o della morte di prigionieri nordamericani in Somalia, il cui impatto sull’opinione pubblica è all’origine delle ritirate delle truppe da quei paesi31.
Vale la pena ricordare che il numero totale di vittime in Vietnam non arrivò di molto al livello di quello delle guerre precedenti, quando non c’era uno sviluppo così indipendente dei mezzi di comunicazione. I media agiscono come moltiplicatori dell’informazione, specialmente di quella più truculenta. Inoltre, incidono direttamente a livello politico, influendo sui processi decisionali. Così, secondo Paul Wood, i media stabiliscono i tempi e fissano il calendario politico. Oggi, il ciclo dell’informazione è di 24 ore, massimo 48, quindi la notizia più viaggiare dalla linea del fronte stessa ai servizi di trasmissione ed essere disponibile in giornata, obbligando una risposta politica che al massimo può tardare fino al giorno seguente32. Per questo, una cattiva gestione della comunicazione può provocare il prolungamento di una crisi, dal momento che le crisi comportano un’addizionale crisi dell’informazione. Se si sbaglia nel controllare questa, si sbaglia anche nel controllo di quella. E la cosa principale è negare che ci sia una crisi o scoprire che una situazione lo sia.
I servizi informativi espongono, senza soluzione di continuità, in primo luogo le notizie nazionali, poi quelle internazionali, poi lo sport e la meteorologia. In questo modo si banalizza l’informazione equiparando le notizie di una guerra (altrui) con lo sport, con una partita di calcio33, rendendole intrattenimento34. A ciò si può aggiungere, ad esempio, un tipo di manipolazione dotata di realismo sufficiente da giocare con il tempo (ad esempio, le presunte mattanze in Romania nel Natale 1989) per creare stati d’opinione35. La banalizzazione del male (è così che in realtà esso suole presentarsi) fa da ammortizzatore per le nostre coscienze, determinando una diminuzione della nostra capacità di sorprenderci, normalizzando l’eccezionale. I notiziari fanno sì che lo spettatore si trasferisca momentaneamente nel conflitto in sicurezza, e lo rendono partecipe temporale di momenti cruciali, di una realtà molto più complessa che però non penetra psicologicamente in lui. Inoltre, vedere non equivale a comprendere. Questa è un’equazione pre-razionale e molto pericolosa, sulla sottile linea rossa che separa il vero dal falso. L’osservatore si sente come al di là della parete di un acquario e, senza muoversi nella viscosità delle acque, crede di capire il procedere dei pesci semplicemente perché li vede (unico senso impiegato), in un periodo breve di tempo, da una sola angolazione e soltanto nella parte selezionata.
In simili circostanze, e senza ulteriore preparazione, formula un giudizio condizionato esclusivamente dalla fotografia che gli è stata presentata. Le implicazioni per lo svolgimento della guerra sono evidenti. Quanto tempo ha dedicato il telespettatore alla guerra in Kosovo? Mediamente, il tempo che ha impiegato a prendere una decisione, cosa che è possibile solo attraverso l’immagine, con molta probabilità non arriva neanche a un minuto. L’immagine è l’elemento decisivo perché contiene la domanda e la risposta, poiché si costituisce in un discorso bidirezionale. Parafrasando Glucksmann, l’uomo del XXI secolo non pensa, si informa, benché, a volte, neanche quello. Come conseguenza di ciò si può dedurre che le decisioni vengono prese in base a elementi emozionali generati sulla base di parametri non razionale e condizionati dall’informazione ricevuta (a volte presentata solo in forma di mere immagini), ovvero scelta, in ultima analisi, da quegli stessi decisori e presentata sottoforma di verità ineluttabile, poiché le immagini hanno sempre una parvenza di verità. E accade, come fa notare Ignatieff, che molte volte:
“le immagini televisive sono più efficaci quando esprimono conseguenze che quando analizzano intenzioni, più adeguate per mostrare cadaveri che per dare spiegazioni”36.
Conclusioni
I media svolgono un ruolo chiave nei conflitti del XXI secolo. Non corrispondono all’opinione pubblica né possono essere confusi con essa, ma ad essa sono strettamente connessi. La popolazione è uno dei pilastri sui quali deve essere costruita la vita internazionale di un paese. Tra le Forze Armate, i leader e il popolo (rappresentato proprio dall’opinione pubblica) deve esistere una sincronia che si fa fatica a raggiungere e che i conflitti rendono sempre più critica. Inoltre, processi come la professionalizzazione degli eserciti hanno fatto sì che una parte della società abdichi alla responsabilità che le spetta nella difesa del nucleo sociale del quale fa parte, e che finora era implicita nel concetto di cittadinanza. In tale contesto, la relazione tra i media (che si presentano come legittimi rappresentanti del popolo) e le Forze Armate non cessa di essere conflittuale, dal momento che ognuna delle parti ha i propri interessi specifici. I media sono costruttori della verità, una verità ineluttabile creata sulla base di immagini e che risulta comunemente accettata dall’opinione pubblica. Ogni volta che uno o l’altro elemento dell’equazione è coinvolto, esiste una relazione bidirezionale. Tuttavia questa verità che si offre al popolo non è così pura come potrebbe apparire a prima vista. Essa viene presentata in formati banalizzati e si costruisce a partire dal potere. I media si presentano come la coscienza del popolo quando allo stesso tempo sono un elemento sostanziale di tutti i conflitti. I media sono le fabbriche della morale delle società. L’unico modo di assicurare una reale neutralità è promuoverne la pluralità.
(Traduzione dallo spagnolo di Marina Scarsella)